Strati, tremila anni di Calabria

Tempo fa si svolse una discussione su quale fosse il criterio più funzionale per ordinare i libri della propria biblioteca. Umberto Eco, Giorgio Bocca e altri si divisero sostenendo soluzioni diverse: per materie, in ordine alfabetico, addirittura per le misure dei volumi. Non ho chiesto a Saverio Strati quale sia il suo ordine, ma per due indimenticabili ore l’ho visto muoversi con sicurezza nella sua casa tappezzata di libri, al terzo piano di via Giotto 4 a Scandicci, e alzarsi ripetutamente per andare a prendere quello che gli serviva in quel passaggio del discorso. Credo che anche bendato saprebbe trovare quanto gli serve, volume dopo volume, ognuno consumato e reso familiare dall’uso, da ognuno uno spunto, una riflessione e tanta ricchezza.
È la sua ricchezza, l’unica, oltre la sua adorata moglie Hildegard, ma è un patrimonio che non gli dà più da vivere, neanche tutti i libri che ha scritto alleviano il suo disagio, perché ad un certo punto su di lui è caduto l’oblio e i suoi romanzi, almeno due, e i racconti sono rimasti nel cassetto. Da tre anni – ha scritto nella lettera allegata alla domanda di applicazione della legge Bacchelli – non presenta la dichiarazione dei redditi perché in casa sua non entra più alcun reddito. Il pudore lo ha portato a nascondere il più possibile la sua difficile condizione. D’altro canto nessuno si è occupato più di lui, e probabilmente se si fosse fatto un sondaggio in Calabria, anche ai massimi livelli, si sarebbe potuta avere la clamorosa conclusione che nella sua terra natale neanche sapevano dove fosse e se fosse ancora vivo. Poi una persona colta e sensibile come Vincenzo Ziccarelli, che ha continuato a frequentarlo con viaggi da Cosenza alla Toscana, ha avvertito che qualcosa non andava e ha lanciato l’allarme. Ora, con lo stesso pudore, il più grande scrittore vivente calabrese ammette di avere bisogno per sé e la sua compagna. Ha ottantacinque anni.
Piccolo, minuto, fragile, cita spesso Antonio Gramsci, e su questo richiamo profondo viene da riflettere per tanti motivi, di cui uno preme sottolineare a chi scrive. Quando parla – e l’intervista che segue ne è conferma – la fragilità scompare e affiora dal suo pensiero una forza illimitata che si trasforma nell’acciaio della speculazione intellettuale e dell’etica come costume di vita. Strati cita Gramsci, e il pensatore sardo, condannato dal Tribunale Speciale perché il suo cervello potesse fermarsi per vent’anni, ritorna con il suo corpo, minuto, fragile, perfino malformato, in questa stanza piena di libri per ricordarci che da quel corpo tanto disprezzato dal fascismo scaturirono l’elaborazione dei “Quaderni dal carcere” e le lettere ai figli de “L’albero del riccio” che non sarà mai troppo tardi andare a riprendere per farli conoscere alle nuove generazioni.

Come va?

«Non bene. Anche questa casa senza ascensore, con mia moglie che ha difficoltà a muoversi… Ma non posso lamentarmi perché mi è andata meglio di Kant. Lui, una mente luminosa, il più grande filosofo dopo Platone – dice Schopenhauer -, che visse ottant’anni e a settantotto anni era già rimbambito al punto che non sapeva come si scriveva il suo nome. Ma Schopenhauer non conosceva Vico che anticipa addirittura l’evoluzionismo di Darwin che, pur essendo cattolico, non si rendeva conto di non credere alla creazione del mondo fatta da Dio quando fondava l’antropologia tramite la “Scienza nuova».

Intanto, però, quando si parla di filosofia si pensa alla Germania.

«Purtroppo Vico non è preso in considerazione, anche se negli ultimi tempi nuovi studi lo stanno rivalutando, e qualcuno scopre con ritardo il saggio di Benedetto Croce su di lui. Vico è davvero un grande filosofo, anticipa tutto Hegel: i tedeschi non hanno inventato nulla, sicuramente non hanno superato i greci e nemmeno gli italiani».

Diceva di Kant e di lei che a ottantacinque anni si sente fortunato?

«Ancora ragiono, scrivo pensieri, saggi, etc. Appunto l’altro giorno ho scritto che Vico anticipa Darwin perché nella “Scienza nuova” avviene l’evoluzione dell’uomo dalla mazza alla freccia, dalla freccia alla spada e così via, e poi dal gorgoglio alla parola e dalla parola al pensiero, e prima ancora l’arte nelle grotte dove si riparava».

Vico, Croce: Napoli capitale del pensiero filosofico italiano?

«Ancora ne è la culla nonostante i rifiuti. Un filosofo tedesco ha detto che non sapeva che Hegel fosse nato a Napoli. E Croce non è che un discepolo di Hegel».

La Calabria, patria di Bernardino Telesio, di che cosa è capitale?

«Bacone definisce Telesio il primo uomo moderno. Telesio è molto importante perché innanzitutto troncò parte del pensiero di Aristotele quando disse che bisogna conoscere le cose e poi parlarne. Da lui nasce la metodologia scientifica dei nostri giorni. Il metodo di Galileo è che bisogna provare e riprovare finché non si ha certezza di una cosa. Galileo nasce per via di Telesio. E
poi c’è Campanella che accetta tutto il pensiero di Telesio si dichiara apertamente contro Aristotele. Quando Cartesio mette il dubbio come sistema della ricerca viene da Telesio anche senza conoscerlo».

Nel cinquecentenario di Telesio il comitato delle celebrazioni sta a Firenze…

«Non si poteva fare a Cosenza?».

C’è stato qualche ritardo nelle procedure burocratiche…

«La Calabria ha avuto grandi pensatori. Gioacchino da Fiore che parla dell’età del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Antonio Gramsci dice una cosa molto importan te, molto lusinghiera per i calabresi: un contadino calabrese è più filosofo di un filosofo che insegna in un’università tedesca. Ed è vero».

Perché?

«Quando io stavo in mezzo a loro, ho visto che i contadini avevano pensieri altissimi senza rendersene conto. Poi quando ho studiato e ero già scrittore ho pensato che molte frasi che si ritengono essere dei Vangeli sono invece del pensiero di Pitagora. La filosofia è nata in Calabria con Pitagora che si fermò a Crotone, il luogo giusto dove poteva esprimersi. Il pitagorismo è stato diffuso molto ai suoi tempi anche quando ci furono la rovina della Magna Grecia e l’arrivo dei romani, che erano barbari come gli americani di oggi. A Crotone sotto Pitagora c’era una grande università, la parola filosofia nasce lì. E c’erano dei medici straordinari che avevano già sezionato l’occhio e l’orecchio. Penso a Alcmeone. Un altro medico. che fu prigioniero di Dario, riuscì a curare la moglie di Dario di tumore, la operò e la salvò».

A Crotone non c’erano solo grandi me dici.

«Esattamente. Sotto Pitagora c’era lo studio della musica, la medicina a questi li velli, la matematica e poi il suo pensiero. Pitagora, i cui testi erano custoditi segretamente da Filolao, un crotoniate suo discepolo, e da Timeo di Locri, è in assoluto il primo che dice che al centro dell’universo sta il sole e non la terra. E quando Platone lascia Siracusa per andare a Taranto si ferma a Locri dove incontra, secondo me, Timeo, ne parla, se ne serve e scrive il suo grande dialogo».

Perché grande?

«Perché c’è l’anima intellettiva, l’anima sensitiva e l’anima generativa. Questo è Freud. Pitagora lo anticipa in questo dialogo di Platone. Filolao vende per poche mine i testi che vanno a finire nelle mani di Platone e poi in quelle di Aristotele, per cui da Pitagora si aprono due correnti di pensiero: quella del mondo delle idee di Platone e quella del mondo che pensa a sé stesso di Aristotele. Quindi, Platone e Aristotele discendono da Pitagora e questi anticipa il cristianesimo».

Dal pensiero di quel mondo, dunque, nascono tante cose che arrivano fino a noi?

«Licurgo di Sparta i menomati non li vuole, li butta dalla rupe. E qui siamo ad Hitler. I pitagorici accumulavano tutto e ognuno poi se ne serviva secondo i suoi bisogni, e questo è il comunismo. Dicono che noi siamo bravi in pittura, scultura, musica, e non in filosofia come i tedeschi. Non è vero, noi la filosofia la facciamo con l’architettura. Nei grandi palazzi del Rinascimento e del post-Rinascimento, abbiamo la struttura interna che è pensiero e la facciata esterna che è poesia. Siamo filosofi quando facciamo un ponte o costruiamo una strada».

Come è possibile che la Calabria da luogo del pensiero cambia fino a diventare luogo perduto al punto da far dire che la legione romana che torturò e crocifisse Gesù fosse formata da calabresi?

«Il dramma della Calabria, soprattutto dal Mille in poi e forse più avanti dal 1200- 1400 in poi, è avvenuto per via dei grandi feudatari che l’hanno abbandonata e sono andati a costruirsi i palazzi a Napoli per stare vicino al re. I grandi baroni venivano in Calabria per riscuotere. Se gira la Calabria non c’è un palazzo dei nobili, in Sicilia sì. Non ne avevano bisogno, qui venivano solo a prendersi i soldi della povera gente e dei contadini. Questi vivevano in ristrettezze, non avevano un signore che riuscisse a capire la loro intelligenza. I calabresi non sono stupidi, sono poveri, sono stati poveri di parole, stimoli, risorse, sollecitazioni fino all’altro ieri, ma la colpa è di questi signori che hanno abbandonato la Calabria. I Carafa, potentissimi, hanno avuto fabbriche a Napoli e non in Calabria».

Quindi, la vicinanza con Napoli è stata un danno per la Calabria?

«Era una colonia. La prima volta che in contrai Domenico Rea mi disse: voi pensate che le colpe sono di noi napoletani, in realtà sono vostre. Amaro destino dei calabresi. E dire che il nome Italia nasce a Reggio Calabria. La leggenda vuole che arrivò Ercole con la sua mandria di buoi e mucche, e un vitello tentò di attraversare lo Stretto per arrivare di là in Sicilia, e questo nel dialetto di allora si chiamava regum, cioè Reggio, andare avanti. Quella terra, Pellaro e dintorni, era una pianura che si chiamava vitalia, cioè terra dei vitelli. Se da vitalia togli la v…. Quella terra fu chiamata così fino alla Lucania e solo dopo si estese a tutta la penisola».

Negli anni Cinquanta con la riforma agraria furono distribuite le terre ai contadini per risarcire le colpe storiche del baronato verso i calabresi. Sessant’anni dopo, in un quadro di arretramento della questione meridionale, la Calabria è ancora più periferica e marginale. Come mai?

«Ai miei tempi era peggio».

In questi giorni in Calabria si parla molto di lei. Lo ritiene un risarcimento dell’oblio che l’ha circondata?

«Nei miei confronti non sono stati bravi. Quando uscivano i libri, che sono tradotti in Inghilterra, Germania, Cecoslovacchia e tanti altri paesi, non li leggevano. Fecero lo stesso con Alvaro. Trecento-quattrocento copie. E io trattavo problemi sociali e non poesia, anche se puoi fare poesia rendendo il personaggio vivo come se l’autore non esistesse. Cechov, il mio maestro, dice che lo scrittore è portatore di destini. È vero. Io ho scritto 160-170 racconti, tredici romanzi e altre cose, il diario di tremila pagine, avrò detto delle cose? Non sono un filosofo, non sono, quindi, cose sistematiche, sono cose che vengono da dentro, che pesano e c’è la necessità di raccontare. In quel momento forse nasce la poesia, la spontaneità. Gli scrittori di oggi sono l’espressione della televisione, la vita va vissuta».

E lei l’ha vissuta.

«Da contadino e da muratore. A diciotto anni avevo il metro in tasca e davo consigli anche agli altri. Ci sono case popolari ad Africo Vecchio costruite dalle mie mani. La vita la conosco, non ho bisogno di libri per scrivere. L’ho sofferta, la vita, l’ho vissuta come nessun altro forse degli scrittori italiani. Verga, scrittore più grande di Manzoni, quando ha scritto i Malavoglia, ha avuto bisogno di qualcuno che gli mandasse i proverbi. Io li conosco tutti. I giovani di oggi non li conoscono. E da lì viene fuori la mitologia greca».

Una Calabria, dunque, disattenta?

«Ora non esistono ppiù le nonne che raccontano le favole. Se non le avessi registrate sarebbero state perse. E sono favole che rispecchiano la cultura, l’essere dei calabresi. Noi sulla costa ionica siamo figli della Grecia, la tradizione e la saggezza dei greci sono dentro di noi. La mia scrittura riflette la struttura della lingua greca e anche latina perché i latini mettevano il verbo alla fine della frase. Sono contento, sono felice di essere uno che continua questa tradizione. Infatti ho detto che io è da tremila anni che vivo perché raccolgo le tradizioni nostre che rispecchiano quelle greche. In questi giorni sto rileggendo – e non so quante volte l’ho fatto – l’Odissea. Quando Ulisse arriva dai Feaci, che pare sia Squillace – uno studioso tedesco disse un altro paese ma è sicuramente nella zona – Omero ci presenta la regina dei Feaci che fila accanto al focolare accesso: mia madre filava accanto al focolare acceso d’inverno. Quando Nausica deve andare a lavare i panni, è uguale alle ragazze della mia età che andavano a lavare i panni nel fiume. Sotto Licurgo, si viveva da schiavi in case dove in un angolo c’era un pagliericcio, ma cinquant’anni fa non accadeva che si vivesse così nella mia Africo? Cos’è cambiato in tremila anni?»

Questo attiene al tema dell’identità di una terra, la Calabria, che lei incarna con la sua opera. Quello che si sta facendo ora per lei ha lo scopo non secondario di far recuperare l’idea dell’identità alla Calabria.

«È vergognoso che ora che tutti vanno a scuola, che molti si laureano, non sanno di conoscersi. Quando ho vinto il Campiello mi hanno fatto girare tutta l’Italia e sono andato in Calabria. Dicevo ai ragazzi: se volete conoscervi, se volete sapere chi siete dovete leggere gli scrittori, Alvaro, Semi- nara, anche me, imparate e poi vi regolate su quello che dovete fare. Capisco ora che non lo capivano, non lo capivano i professori».

Alla luce dell’attenzione di questi giorni attorno alla sua persona, che cosa si sente di dire ai calabresi?

«Facciano quello che devono fare. Io penso che tra cinquant’anni, quando uscirà il mio diario, i calabresi capiranno chi sono e il potenziale che non sanno di avere. Rive- lare la Calabria a se stessa. Io mi incavolo quando dicono scrittore europeo. Che scrittore europeo! Io sono scrittore mediterraneo. La cultura è nata nel Mediterraneo, dall’Egitto, dagli ebrei, dai greci, dai romani. Se legge Hegel ci trova tutto Platone. Il cristianesimo – dice Nietzsche – non è altro che un platonesimo universale. E Hegel dice che il cristianesimo è pregno di romanità. Ed è vero. La cosa stupefacente è la battaglia di Zama. Per una cosa da niente Roma poté diventare quello che diventò. Racconta Polibio che quando i due eserciti, quello di Annibale e quello di Scipione, uno davanti all’altro, in prima fila c’erano gli elefanti di Annibale e dall’altra parte c’erano i romani. Quando le trombe romane suonarono gli elefanti si spaventarono e invece di andare contro i romani si riversarono contro i cartaginesi, per cui i romani vinsero e vinse Roma. Per una cosa da niente, altrimenti non ci sarebbe stato l’impero romano e non ci sarebbe stato il cristianesimo. Di- cono che la storia non si fa con i se, invece in certe situazioni si fa con i se».

Lei è uno scrittore e non fa che parlare di filosofia. Me lo spiega?

«Le ho ricordato prima la frase di Gramsci. Siamo contadini portati alla riflessione e, quindi, alla speculazione. Ho sentito contadini parlare come dei filosofi. Mi chiedo: da dove l’hanno preso? Da Pitagora che era del Sud. In Virgilio c’era il cristianesimo. E Marco Aurelio: in lui c’è già il socialismo quando dice che bisogna dare secondo i meriti mentre i comunisti dicono secondo i loro bisogni».

A quando risale la sua ultima visita in Calabria?

«Molti anni fa, cinque-sei anni fa. Una volta andavo tutti i mesi perché sono stato per quattro anni rettore dell’università della terza età a Reggio Calabria e facevo delle conversazioni».

Ha nostalgia della Calabria?

«No, perché ce l’ho dentro, me la porto dietro tutta intiera. Io non capisco niente di questa gente qua perché non son nato qui. La mia anima si è formata laggiù. Nel mio ultimo libro mi sono chiesto sotto quale cielo io vivo. C’è sempre il cielo di Calabria su di me. Nessuna nostalgia. Sono stato diversi anni in Svizzera perché mia moglie è di lì. La nostalgia l’ho avuta per Messina perché sono stato lì per tre anni ed anche per Catanzaro dove sono stato tre anni per preparare la mia maturità dall’esterno».

Come andò quell’esame?

«Mi sono presentato da esterno con la quinta elementare, facendo otto anni in una sola volta. Però, all’esame sono andato bene. Quando c’erano le prove scritte, io ero sempre solo mentre gli altri scherzavano come avviene tra amici. Al Gallupi non conoscevo nessuno. Ricordo com’ero te- so».

Studiava da matto?

«Da pazzo. Mal nutrito. Mangiavo in una mensa tenuta da comunisti, ora non mangerei quel cibo ma allora sì. Al compito di italiano – ricordo la traccia “La donna nella letteratura” – avevo avuto la fortuna di aver letto un saggio di Benedetto Croce qualche giorno avanti e feci un bel tema. Fui il primo ad alzarmi per andar via, e il professore mi fermò: ma hai finito? e lo consegni così? non lo vuoi rivedere? Rifiutai, e lui disse: non ho capito se hai fatto un capolavoro o una schifezza. Poi dissero che era un capolavoro».

E come le era venuto in mente di leggere Croce?

«Davanti al tribunale di Catanzaro c’era una bancarella. Mi colpirono tre libri: la storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, Delito e castigo di Dostoievskji e Croce. Iniziai a leggere De Sanctis e capii che capivo e che mi piaceva. Così con Dostoevskij e con Benedetto Croce. Quando citavo ai professori qualche frase di De Sanctis mi dicevano di stare attento perché sapevano che ero un ex operaio e De Sanctis era difficile. Avevano ragione loro perché di volta in volta che l’ho letto ho capito di trovarmi di fronte ad un gigante».

A proposito di letteratura russa, che lei dice di prediligere. mi fa una classifica delle sue preferenze?

«Secondo Nabokov, Dostoevskij è uno Shakespeare fallito. I più grandi sono Gogol, Cechov e Tolstoi, ma il più grande di tutti senza se e senza ma è Tolstoi».

Prima ha detto del cielo di Calabria, non le manca il mare?

«Mi mancava. Quando sono venuto a Firenze an davo su Ponte Vecchio e guardavo il fiume che scorreva giù e immaginavo il mare. Mi veniva da piangere perché il mio
paese è in collina e il mare davanti, quattro chilometri di distanza. Tutta la vita da bambino fino a ventuno anni ho avuto questo mare davanti. Qui mi sentivo prigioniero delle case».

E ora?

«Ora non mi interessa».

Che si aspetta dai calabresi?

«Che i miei libri fossero nelle librerie, dove ora non ci sono, e che li comprassero».

Giancarlo Bregantini

Trentino di Denno, è un simbolo della Calabria. Non ha perso l’accento della sua terra e, a sentirlo parlare così pacatamente e con tanta dolcezza, non sembra possibile che dalla sua bocca siano potute uscire invettive durissime contro la mafia. Giancarlo Bregantini, 58 anni, è il vescovo di Locri-Gerace, dice cose importanti come le sa dire un pastore della chiesa che è passato per esperienze esemplari fin da anni ormai lontanissimi. Sentiamolo.

Don Luigi Ciotti non è un calabrese, eppure sta facendo tanto per la Calabria. E lei non è nato qui ma si dà da fare per questa terra. La Calabria è una terra di missione?

«Sono da trent’anni in Calabria. La mia grande fortuna è di esservi arrivato giovanissimo perché il mio superiore disse una frase importantissima: se uno dal Nord va a Sud da giovane si innesta con facilità, se ci va da vecchio fa molta fatica: noi eravamo in tre a finire gli studi, tutti e tre siamo andati al Sud, a Napoli, a Catania e io a Crotone. È stata un’intuizione felice».

E il Sud la ha accolta bene da subito?

«Mi ha aperto le porte con una frase che ho imparato in treno. Il viaggio era lungo, non avevamo portato quasi niente e la signora che aveva un bambino vicino tirò fuori le cose buone della Calabria (veniva da una visita medica a Bologna, come spesso accade anche oggi). Prima di dare il panino al suo ragazzino, quindi non quello che le era avanzato, preparò per me e il mio compagno di cammino questo dono e disse: favorite. È la parola chiave che mi ha aiutato e che ho risentito qui anche da vescovo».

Una volta lei ha scritto che per capire la Calabria si può partire dal libro biblico dei proverbi laddove si parla degli esseri più piccoli e più saggi come le formiche previdenti, i conigli selvatici capaci di nascondersi sulle rupi, delle cavallette che marciano insieme schierate e delle lucertole che penetrano nei palazzi dei re. Che cos’è la Calabria?

«Credo che nemmeno chi ci viva la conosca. Me la immagino così: un mare i cui movimenti superficiali non rivelano i movimenti sotterranei. È più facile cogliere i primi, molto difficile i secondi. Serve pazienza, umiltà e qualche volta la complessità. Mi aiutano molto i preti giovani che essendo locali e essendo giovani colgono certe dinamiche meglio di me. Però io da esterno capisco certi aspetti meglio di loro perché venendo da fuori e girando molto l’Italia ho la possibilità di fare confronti».

C’è chi ha detto che è più facile notare le foglie secche cadute ai piedi dell’albero piuttosto che i germogli nascenti sui rami apparentemente secchi. Ci crede?

«Tantissimo. Per esempio, certi magistrati – non faccio i nomi ma si può intuire – descrivono con puntigliosità i lati critici e negativi, però certi libri quando li hai letti ti tolgono il respiro e ti senti affondare in una logica sempre più negativa. Bisognerebbe che i libri tecnici di poliziotti e magistrati fossero accompagnati da una postfazione che dicesse anche che cosa deve derivare da una realtà così descritta».

Per dire che cosa?

«Una serie di messaggi: reagire al male; secondo: non fare più male di quello che ho, quindi guardare avanti con speranza; terzo: capire, proprio come dice il Vangelo, che se il fuoco è più intenso l’oro è più raffinato. Voglio dire che non devo far vedere alla gente solo il fuoco, che tra l’altro lo conosce meglio di me perché ne vive i drammi, ma devo cercare di far vedere che il fuoco nel crogiuolo produce l’oro».

Ci sono i mafiosi, ci sono le vittime di mafia, ma ci sono anche le gerbere gialle. Questo sta dicendo?

«Esatto. Per esempio, nel raccontare un omicidio un giornale deve fornire a chi legge anche strumenti di ricezione positiva o di reazione. Mi è piaciuto tanto il pezzo sull’omicidio di Bruzzano dove quella vedova non poteva raggiungere il figlio, quelle parole accorate che diceva, quella tenerezza struggente con cui guardava. Quel modo di raccontare ti faceva cogliere un lato densissimo, femminile e anche commovente. Ci sono modi e modi di descrivere le cose, i fenomeni, le situazioni».

Il lavoro è un tema costante delle sue riflessioni e della sua opera. Penso alla cooperativa di giovani che produce lamponi. Questa è la strada da seguire?

«No, è un segno. Come il bergamotto che è un segno per dire: se c’è crisi agrumicola, tentiamo di percorrere strade nuove che richiedono non investimenti immensi a livello finanziario ma un intervento qualitativo e intelligente. Il nostro slogan è trasformare la marginalità di questa terra, specie della Locride, in tipicità che è sempre capace di promozione, che diventa vera quando poi si innesta con tipicità di altre zone e diventa il gioco della reciprocità. Dunque, conoscere la marginalità, trasformarla in tipicità, intrecciarla nella reciprocità. Così Nord e Sud non si contendono primati, non si elidono, ma si intrecciano».

Non è un’impresa facile. Non le pare?

«Lo so bene. Guardi che trasformare la marginalità in tipicità è un lavoro immenso che richiede un diverso approccio nelle scuole, un modo diverso di insegnare la storia e la geografia, imparare le lingue, capire la propria cultura ma anche uscire e farsi vedere e stimare».

La tipicità richiama un altro tema: il recupero della tradizione.

«In realtà sono importanti anche le feste popolari, le feste religiose, anche la Tarantella di Polsi, i pellegrinaggi a piedi ai santuari, i profumi, i colori. Ma occorrono anche spiagge pulite, case finite, chiese belle, parroci inventivi e fantasiosi, frati capaci di far rivalutare gli eremi spariti non alla marina ma nelle zone interne».

Lei va spesso a trovare i calabresi all’estero che guardano la luna pensando che quella che vedono dall’Australia o dal Canada è la stessa che si vede dalla Calabria. Lì a modo loro conservano ancora le tradizioni…

«Al punto che ci insegnano qualcosa con le feste popolari. Le loro producono case di riposo, iniziative sociali bellissime, mentre da noi si sprecano soldi in fuochi di artificio e cantanti. Loro no, la zeppola la vendono per fare qualcosa di buono».

Una volta anche un crocifisso sull’Aspromonte poteva servire come luogo dove depositare il riscatto di un sequestro. Quanto è cambiato l’Aspromonte?

«Moltissimo. Penso al simbolo di Polsi. Un mondo diverso, la strada asfaltata, non è più il regno dei latitanti. Oggi si può occupare l’Aspromonte e non farlo occupare».

Un pastore della chiesa deve scendere e salire tante scale. Vale la pena?

 «Ci sono giorni avari, giorni di solitudine, di attacchi pungenti anche da una certa stampa. Abbiamo avuto amarezze interne, ogni vescovo le ha, qualche incomprensione, fatiche, non condivisione. Ma ci sono anche giorni in cui magari dopo mesi di silenzio vedi che esplode un grido positivo. Il limite è l’inadeguatezza delle risposte rispetto ai bisogni».

La Calabria sembra un’opera incompiuta.

 «È così. Fai tanto ma non basta mai».

Tanti colori: un mosaico o un puzzle?

«Un puzzle da costruire insieme».

Nel puzzle, però, c’è anche la cultura mafiosa. Sta cambiando qualcosa?

«C’è una consapevolezza crescente del male, quindi non lo si nega più, lo si accetta, lo si analizza. E ci sono segni di reazione, come i ragazzi di Locri, la giornata di Polistena. Noi vescovi stiamo preparando una lettera specifica sul tema della mafia. Dall’altra parte ci sono segni preoccupanti di una mafia che è meno violenta ma più suadente, più criptica. Servono due cose: un maggior controllo sugli appalti e una maggiore determinazione nella lotta all’usura. Per gli appalti ci vogliono precisi interventi, non basta il certificato antimafia. Per l’usura bisogna renderla perseguibile d’ufficio e non solo su denuncia diretta».

Come credente si chiede perché Dio non ferma la mano dell’assassino?

«Moltissimo. L’elenco delle vittime è enorme, enorme. Sarebbe interessante che dove c’è stato un omicidio di mafia, chiunque sia caduto, ci fosse una croce, un modo per non dimenticare».

Lei è un figlio del ’68. Prete operaio, la grande lezione di don Milani, la scelta di stare dalla parte dei poveri e con la gente. Rimpianti?

 «Un pochino sì. Soprattutto la libertà con cui si discuteva allora non c’è oggi. Non c’è più la possibilità di dire “non sono d’accordo”. Oggi è molto facile l’ossequio non sincero o talvolta il tacere per paura. Indubbiamente il ’68 ci ha dato un’ebbrezza eccessiva, però anche liberante. Oggi c’è il rischio, ripeto, di un ossequio quasi ipocrita. Dove abbiamo maturato? Nel rispetto degli altri. Abbiamo imparato a non farci travolgere dai limiti oggettivi e la mitezza, cioè la pazienza perché le cose non si cambiano in pochi giorni. Rispetto alla novità del ’68 non cambiano gli obiettivi, cambia il ritmo del cambiamento, il passo si è fatto più lento, la salita più ardua, la meta è sempre quella: amare questa terra, questo mondo, servire i poveri. Gli ideali sono rimasti gli stessi, ma ci vuole molta pazienza, capire gli errori, perdonare, consolare, capire, farsi insegnare dai piccoli come diceva don Milani».

Cosa sogna per la Locride?

«Che la Locride, che è nata come giardino nelle mani di Dio sia un giardino per tutti, dia un lavoro a tutti, abbia case curate, non belle ma curate, che il bello della natura sia salvato, che non siano incendiati i boschi, i colori diventino veri e non oleografici, che ci sia una chiesa sempre più profetica e coraggiosa, che gli amministratori pongano i giochi del partito dopo l’interesse del bene comune, che i giovani siano qualificati e non vadano a scuola con un quadernino sotto il braccio mentre i bambini a sette anni portano uno zaino pesante, che non ci sia un diploma senza cultura ma cultura con diploma, che ci siano intrecci sempre più vivi tra Nord e Sud, che ci sia il perdono dove c’è la faida, che ci siano i valori della vita e della morte, che la domenica i centri commerciali chiudano perché sono il disastro più grande che rovina la famiglia, più dei Dico, che pure distruggono la famiglia ma tutto sommato riguardano poche persone».

Come sta il suo cuore?

«Con le pilloline che mi consiglia il medico sta bene».

Padre, immagini di avere davanti uno che non crede, per esempio chi le parla, cosa sente di dirgli?

«Il mio ’68 mi ha abituato ad avere un grande rispetto di due temi difficili da coniugare ma affascinanti: libertà e verità. Ciò che dico ai giovani è questo: cercate con libertà ma cercate sempre la verità. Ma mai una verità senza libertà che sarebbe il rogo, mai una libertà senza verità che sarebbe una banderuola. Occorre intrecciare costantemente nel cuore di tutti, del credente ma anche del non credente, la verità con la libertà. E la sintesi è Cristo che è libertà e verità insieme. Perché la verità vi farà liberi».

Nicodemo Librandi

Questa è una Calabria da esportazione. I filari di viti coprono duecento ettari, anche dal promontorio più alto lo sguardo non può contenerli tutti, si distinguono alcune zone coltivate a ulivo e una spirale dove sono concentrati quasi duecento vitigni autoctoni ritrovati meticolosamente in tutto il territorio calabro e su cui è in corso un’attività di ricerca di cui presto si apprezzeranno importanti risultati. Nicodemo Librandi innesta spesso le quattro ruote motrici del Grand Vitara e ci fa salire e scendere per impervi percorsi che lui solo intravede e percorre con consumata abilità. Questo di Casabona è il pezzo più grande dell’azienda di famiglia, altri centonove ettari coltivati sono distribuiti tra Cirò, Melissa e Strongoli. L’annata è buona, la produzione sarà più contenuta ma la qualità del vino sarà eccezionale. Qui ogni acino è sotto controllo e ha una storia e un nome. Nulla è lasciato al caso, la natura fa il suo millenario corso pronta a regalare tesori a condizione che l’uomo sappia assecondarla senza violentarla anzi esaltandone la bellezza e la prodigalità. Se poi c’è anche una scientifica visione organizzativa il miracolo è servito.

Professore, che c’entra la matematica con il vino?

«Mio padre aveva una piccola azienda agricola e con sacrificio mi fece laureare in matematica. Dopo di che la mia passione per la terra mi ha portato a scegliere. Dunque, che c’entra la matematica con il vino? Io dai miei studi ho un vantaggio soprattutto nell’organizzazione. È come quando facevo geometria al liceo scientifico e non riuscivo a risolvere un problema: mi calmavo, mi chiedevo quali erano i dati e quali le incognite e procedevo. Questo tipo di ragionamento l’ho portato in azienda. Cosa devo fare? Il vino? Per farlo bisogna avere le uve e le attrezzature. Detta così è molto semplice».

Suo padre era un coltivatore diretto di Cirò. Quanti figli?

«Sei. Antonio che ha iniziato l’attività di imbottigliamento dei prodotti della piccola terra di mio padre. Lui, il primo figlio maschio seguito da tre femmine, è del 1932: quando doveva dedicarsi agli studi c’era la guerra per cui, per la paura che potesse succedergli qualcosa, lo fecero restare in azienda fino al militare a vendere i prodotti che faceva mio padre e poi man mano ha iniziato la commercializzazione del vino. Io sono nato nel 1945 e un altro fratello è nato nel 1946».

Lei dove ha studiato?

«Ero portato particolarmente per le materie scientifiche, poco per il disegno. Volevo fare il liceo scientifico che allora non c’era nemmeno a Crotone. Un amico che insegnava a liceo dei Salesiani a Taranto mi convinse a preferirlo a quello di Catanzaro. Quanto all’università ho fatto il biennio di ingegneria a Bologna, poi ho iniziato a seguire scienza delle costruzioni, chimica e meccanica applicata alle macchine. Essendo un irrequieto non riuscivo a seguire tutte le lezioni, mi sono trasferito a Roma dove più che lo studente facevo il venditore di vino».

E la laurea?

«Dissi a mio padre che non volevo studiare e preferivo occuparmi del vino. Lui ci rimase male: fai quello che vuoi, ma visto che sei stato pure in collegio la soddisfazione della laurea ce la devi dare. E così mi sono laureato in matematica».

Ha insegnato?

«L’ho fatto perché sono stato quasi costretto. Ho insegnato al liceo scientifico di Cirò Superiore fino al 1989, ma non riuscivo a conciliare le due attività. Mio fratello si interessava delle banche e dell’amministrazione, io fin dal 1971, quando mi sono laureato, della produzione e della commercializzazione».

Nel 1989 cosa successe?

«Andai in crisi. Avevo fatto ventiquattro ore e mezza di lavoro continuo in cantina durante la vendemmia perché si erano ammalati uno dopo l’altro i cantinieri. Alle otto e dieci del mattino mi sono sentito male e ho pensato all’infarto. Fui ricoverato a Catanzaro ed ebbi una forma di ischemia abbastanza grave. Dopo tre mesi feci la prova da sforzo ma quando il medico mi disse che non avevo avuto nulla, era stata tanta la paura che svenni. E decisi che non potevo più conciliare scuola e azienda e quindi mi licenziai».

Le piaceva insegnare?

«Mi piaceva stare con i giovani. Però, sa come succede nei paesi, raccomandazioni, qualcuno dava fastidio, i contenuti dell’insegnamento si erano svuotati almeno rispetto alla formazione rigorosa che avevo avuto io ai Salesiani: tanto per dire, io all’esame di maturità facevo la metrica del latino. Era cambiato tutto».

E si dedicò solo all’azienda che comunque aveva seguito da vicino dal 1971.

«Sì, mi ero occupato della commercializzazione prima in Calabria, poi avevo conosciuto i distributori della Wodka Wiborowa, che allora si beveva come acqua e a cui diedi la rappresentanza per tutto il nord. Avevo un buon mercato nella zona di Roma che avevo già seguito molto bene. L’azienda ha avuto una crescita molto veloce».

Quando c’è stata la svolta, il decollo?

«Più che il momento di svolta, si deve parlare del modo di organizzare il lavoro. La carta vincente è stato l’investimento nella commercializzazione, che abbiamo fatto di persona. Dopo il lavoro in Italia, io mi sono spostato all’estero in un’epoca in cui gli unici vini meridionali che si vedevano erano quelli dei Mastroberardino, che ritengo dei maestri: Walter Mastroberardino l’ho visto in Sicilia a commercializzare i suoi prodotti. Andare sul mercato impone regole precise».

Di che tipo?

«Non puoi dire, per esempio, che il Cirò è il miglior vino del mondo e che non si vende perché gli altri non lo capiscono. Il mercato mi ha imposto di essere critico verso il mio prodotto. Così nacque la prima esigenza: un enologo serio. Andai a Lecce e convinsi Severino Garofano, un irpino che all’inizio non voleva prenderci in considerazione perché eravamo piccolini. Sul mercato vedevo le manchevolezze del prodotto e in azienda lavoravamo per superarle. Anche all’estero non andavo dai paesani, che pure erano grandi bevitori di vino, perché io dovevo stare sul mercato internazionale e i difetti me li avrebbe detti un distributore e non l’amico conterraneo. Quando i prodotti non andavano bene siamo rimasti indietro, appena i prodotti hanno incominciato ad avere quel grado di piacevolezza o di internazionalità, c’è stata la crescita. E questa è stata sempre caratterizzata, anche adesso, dal fatto che la nostra commercializzazione è più ampia della nostra produzione. Abbiamo 359 ettari di terreno, io sono carente nella produzione tanto è vero che siamo al sessanta per cento di nostro, l’altro quaranta – il Cirò – è coperto, con un rapporto consolidato nel tempo e seguendo le nostre indicazioni, da circa 120 produttori. Dall’anno scorso abbiamo portato le nostre tecniche nei terreni dei nostri produttori, per coinvolgerli in un discorso di qualità».

Sul vostro sito c’è la cartina del mondo con l’indicazione dei luoghi che servite. Ma davvero arrivate in tanti posti?

«Certo. In Germania siamo presenti capillarmente come in Italia, lì abbiamo il venti per cento della nostra attività, la Germania io l’ho girata palmo a palmo dormendo in macchina e mangiando panini. Andiamo in Corea, in Russia, in Giappone…».

A Tokyo una bottiglia di Duca Sanfelice quanto costa?

«Sa che non lo so. Sicuramente costa molto perché i giapponesi sanno apprezzare. L’anno scorso ho fatto dei seminari dal sud al nord del Giappone parlando della Calabria. Quest’anno parleremo di cucina e dei prodotti che lì conoscono benissimo come la ‘nduja, la cipolla rossa di Troppa e il peperoncino. In Corea stanno facendo uno spot pubblicitario sul peperoncino che si sposa molto bene con il Duca Sanfelice».

Quanti figli?

«Io ne ho due, di trentuno e trent’anni, mio fratello cinque di cui due già lavorano in azienda». 

I suoi che fanno?

«Raffaele è laureato alla Bocconi in economia politica ed è in azienda. Il secondo, Paolo, dopo due anni di legge, si è laureato in filosofia. Sono anche nonno, e mio figlio lo ha chiamato come me facendomi emozionare».

Lei matematico, suo figlio filosofo, in questa terra non guasta.

«Certo. Paolo è venuto in azienda anche se non era proprio d’accordo perché c’erano già il fratello e i cugini. Ha aggiunto che lui si interessa di filosofia, gli ho risposto che io sono laureato in matematica. Ha fatto un master di enologia, e ora si occupa di campagna e mercati in Canada, America, Giappone. Tutt’e due i miei figli conoscono bene l’inglese, io ne conosco solo qualche parola giusto per orientarmi in aeroporto. Raffaele è stato sei mesi a Dublino, Paolo ha fatto il cameriere a Seattle».

Cameriere, e come mai?

«L’ho chiesto a un amico ristoratore proprio per fargli imparare l’inglese. L’ha preso come lavapiatti, poi l’ha promosso cameriere perché è stato bravo».

Inizialmente operavate a Cirò. Com’è avvenuta l’espansione?

«Su consiglio di Garofano prendemmo un terreno a Strongoli dove iniziammo a produrre grandi vini utilizzando anche vitigni internazionali come il Cabernet Sauvignon, che, contaminato con il Gaglioppo, ci consentì di produrre il Gravello, che già dalla prima annata, nel 1988, ebbe il riconoscimento al concorso internazionale di Verona quando era una cosa seria. Quando sentii – e non me l’aspettavo – che premiavano “un vino importante del Sud” e inquadrarono il Gravello, mi stava venendo un infarto».

Ma com’è che ha tanti marchi?

«C’era un abuso del Cirò, tutti lo producevano ma se metteva le botti una a fianco dell’altra ognuna conteneva un prodotto diverso dall’altra. Diciamo che non c’era e non c’è il rispetto della tipicità del prodotto. Per cui, dovendo vendere il vino e lavorando sulla qualità, mi sono dovuto inventare i marchi. All’inizio è stato abbastanza difficile, adesso sta andando bene».

Prima introduceste i vini internazionali, poi siete passati ai vitigni autoctoni. Perché?

«Ad una fiera internazionale di Bruxelles assaggiando venticinque qualità diverse di Cabernet prodotti in tutto il mondo, dal Cile all’Ungheria, pensai al Cirò e ai vitigni esistenti in Calabria e di cui si era persa memoria. Così nacque il primo campetto sperimentale nel 1993 con il Magliocco, la Marcigliana e il Mantonico. Fatte le prime vinificazioni, la qualità del vino mi piaceva moltissimo. Il vecchio enologo Garofano non ci credeva, nel 1997 decisi che non avrei più impiantato vitigni internazionali tranne quelli che servivano per la commercializzazione del Critone e di altri vini».

Come andò a finire con Garofano?

«Lui era un grande assaggiatore, a livello di palato era insuperabile ma nella vigna non dava nessun contributo, e con un’azienda così cresciuta avevo bisogno sia dell’assaggiatore ma soprattutto dei consigli e delle direttive da dare. Per cui andai al nord, mi piacevano molto i vini che faceva Donato Lanati, vini che erano eleganti. E poi Lanati era additato come lo scienziato del vino, aveva un laboratorio, aveva un’equipe. Confessò di non conoscere i vini calabresi ma si mostrò entusiasta del mio progetto di una produzione autosufficiente e lo definì così: mi fa sangue. Aggiunse che lui si sarebbe avvalso della consulenza del professore Attilio Scienza. E così si avviò la ricerca sui vitigni autoctoni con i primi campi sperimentali in questo territorio di Casabona».

Un modo per stare al passo con il grande fenomeno della cultura del vino che da anni fa tendenza. Le pare?

«Sicuramente. Pensi, infatti, allo sforzo di dare un taglio culturale alla nostra attività. Prezzi, qualità, ma non bastava più. Ho pensato alla storia. Il vino più antico del mondo, ma chi te lo dice? Ho conosciuto l’architetto Marinella De Bonis di Cosenza che mi chiedeva informazioni su Cirò per un lavoro che stava facendo sui vini autoctoni. Più tardi mi disse che voleva farmi vedere il lavoro e mi chiese di far correggere la bozza al professore Scienza. E questi sfogliando il testo “Terre d’uva”, rimase colpito dall’enorme quantità di vitigni autoctoni calabresi: nel testo erano elencate 706 varietà di uva che venivano anticamente coltivate. Mi propose di fare un giro e ad agosto siamo partiti da Verbicaro fino ad arrivare a Monte San Giovanni: cinque giorni durante i quali abbiamo selezionato tutte le uve che ci sono sembrate diverse, le abbiamo portato qui e nel 2003 abbiamo fatto un campo di ricerca a spirale con 189 varietà».

La ricerca a che ha portato?

«Lo studio del Dna ci ha dimostrato che ci sono oltre 75 varietà uniche, vale a dire che non hanno riscontro nella tavola base mondiale della vite. Su questo stiamo facendo uno studio con il Cnr di Torino. Ed è la prima volta che in Calabria si sta realizzando una ricerca sistematica sulle nostre colture. Per noi lavorano specialisti di tutte le materie. L’anno scorso abbiamo presentato i primi vini sperimentali, stiamo selezionando i vitigni giusti, penso che nel giro di tre anni avremo già la moltiplicazione di queste piante. È un lavoro massacrante ma di grande soddisfazione».

La ricerca è un vostro fiore all’occhiello ed è un patrimonio per questo territorio nel quale peraltro si sono create tante occasioni di lavoro.

«La Calabria ha un’immagine negativa. Qui da noi arrivano da tutto il mondo, e da un lato mi fa piacere e dall’altra mi dà fastidio, perché io sono un calabrese orgoglioso, sentirmi dire: anche in Calabria avete queste realtà. L’estensione, la produzione e la ricerca sono un dato importante non solo a livello regionale, e poi almeno un paio di centinaia di persone lavorano con noi, a parte l’indotto. C’è un’altra riflessione da fare: dall’agricoltura scappano tutti perché questa risulta molto staccata dalla commercializzazione, però in cantina ho operai specializzati che a livello di preparazione non hanno nulla da invidiare a chi si qualifica enologo».

Quanto ha contato l’unità della famiglia nei vostri successi?

«Come lei sa, quest’intervista l’avrei voluta fare insieme a mio fratello. È molto importante la famiglia. Eravamo sei figli, ora purtroppo siamo in cinque, però mia madre Teresa, senza mai imporre nulla, ci costringeva con modi garbati a restare tutti insieme nelle ricorrenze. Quando abbiamo comprato questa azienda di Casabona, a mio fratello ho detto: noi possiamo avere qualsiasi discussione, ma quando io sbaglio tu devi fare quello che facevi quando ero piccolo, mi devi prendere a schiaffi…».

Siete riusciti a trasferire ai figli quest’idea dell’unità della famiglia?

«Quando da una piccola realtà ci siamo trasformati in una grande azienda abbiamo pensato al futuro creando due società, una spa agricola e una spa viticola. La separazione oltre ad essere funzionale alle dimensioni dell’azienda consente di dare ruolo ai componenti della famiglia. Se non riuscissimo a trasferire ai figli le nostre motivazioni e i sacrifici fatti, noi saremmo dei falliti».

Sua moglie si occupa di vino?

«Ha fatto un corso di sommelier, ma noi siamo un po’ meridionali per cui mia moglie e mia cognata, che hanno insegnato, hanno fatto molto per l’accoglienza in famiglia, curando le pubbliche relazioni e dando anche un taglio culturale all’azienda. Abbiamo la Casetta, un centro culturale dove periodicamente si fanno degli incontri, sul vino, sull’olio, sull’agricoltura».

Com’è nata la produzione dell’olio?

«Tanti anni fa andando fuori mi chiedevano l’olio, e facevo spesso brutte figure. Adesso apprezzano l’olio di qualità che produciamo in Calabria. Dopo la vigna abbiamo pensato agli uliveti che coprono cento ettari e abbiamo applicato gli stessi standard di qualità».

Abbiamo passato in rassegna quasi tutta la famiglia. Potremmo inserire anche degli altri componenti, dei parenti un po’ particolari. Ecco dei nomi, a lei un pensiero su ognuno di loro. Magno Megonio.

«Nella nostra azienda abbiamo, a proposito di vini, delle piramidi. Fino ad ora in testa c’è il Gravello, io vorrei vedere all’apice il Magno Megonio, che è il frutto di una nostra intuizione. È ottenuto da un vitigno nostro, il Magliocco, che si può coltivare solo in Calabria. Perché questo nome? In considerazione dell’amore per la nostra terra. Magno Megonio è il primo personaggio di cui si ha una traccia scritta sul vino calabrese, era un centurione romano che ha lasciato agli antichi abitanti di Strongoli una vigna e diecimila sesterzi, com’è documentato da una colonna marmorea. Motivo storico e orgoglio calabrese».

Cirò.

«È un figlio a cui si è particolarmente legati e lo vorresti più bello di quello che è».

Asylia.

«È un raccomandato che mi sta dando grande soddisfazione. Asylia è ottenuto da Gaglioppo, io non volevo fare un altro Cirò perché la doc Melissa è simile al Cirò, e non volevo cannibalizzare il Cirò. Avendo però un vigneto dell’area del Melissa, l’ho fatto come una volta si faceva il Cirò: dopo due giorni di macerazione veniva vinificato e lasciato fermentare. Un vino moderno a cui sono affezionato».

Terre Lontane.

«Partiamo dal nome. Ero arrivato con una Fiat 131 a Copenaghen, guardai la cartina geografica e mi dissi: come sono lontano dalla Calabria. È un rosato che nasce da un matrimonio tra Gaglioppo e Cabernet».

Un altro matrimonio: Gravello.

«Mi ha fatto piangere quando ho avuto il primo riconoscimento. Ci ha dato l’immagine dei produttori di qualità. Mi è particolarmente caro».

Efeso.

«Anche qui c’è stata una nostra sfida. Nella vita sono modesto ma nel lavoro sono molto ambizioso. Ero in Bourgogne e assaggiai un bianco veramente importante. Comprai delle bottiglie e le portai a Lanati: un vino bianco importante me lo fai? Ogni anno lui veniva per la vendemmia del rosso e io sulla vigna avevo ancora Montonico, con cui facevo il passito. Mi ha detto: raccoglimi mezzi grappoli. E abbiamo fatto questo bianco. Lo mandai per l’assaggio a dei giornalisti. Un giorno mi chiamò Veronelli e mi disse: Nicodemo, alla terza bottiglia di Efeso mi sono inginocchiato. Non solo con i rossi ma anche con i bianchi la Calabria ha una potenzialità assoluta».

Facciamo una pausa con un passito: le Passule.

«È un frutto della commercializzazione, ce lo chiedevano i nostri distributori».

Prima di venire agli ultimi tre vini di famiglia, un cenno alla grappa.

«È nata anche questa per esigenze di commercializzazione quando, finita l’epoca degli amari, venne quella delle grappe».

Labella.

«Un vino allegro. Un frizzante, molto fresco, non lo esportiamo, lo vendiamo solo in Calabria».

Duca Sanfelice.

«È ottenuto da Gaglioppo. Molto buono il rapporto qualità-prezzo. Ed è il vino su cui stiamo studiando di più. Siamo alla ricerca di quel Gaglioppo che abbia un acino piccolo come quelli di una volta. Stiamo facendo una selezione accurata e uno studio importantissimo. Sarà il vino del futuro dell’azienda Librandi».    

E per finire il Critone.

«Noi abbiamo cominciato con il Cirò rosso e il Cirò bianco, e tutti gli altri vini li abbiamo voluti e fatti noi. Il Critone col Gravello  ci ha dato notorietà. Abbiamo utilizzato vitigni internazionali e abbiamo fatto uno Chardonnay in Calabria. Siamo partiti da ventimila bottiglia, ora ne facciamo trecentomila. Lo esportiamo in tutto il mondo, e viene apprezzato anche a Bolzano, che è tutto dire».

Un vino futuro?

«Uno spumante che andrà in vendita l’anno venturo, un bianco e un rosato».

Ha trovato già il nome?

«Ancora no. Vuole suggerirlo lei?».

Senza andare al nord, fermiamoci al sud, in Campania. Lì i vini costano moltissimo rispetto, per esempio, ai suoi. Da che dipende?

«È un problema di immagine dei prodotti calabresi. In Campania la storia del vino l’ha fatta Mastroberardino, che è stato il caposcuola e quelli che hanno fatto vino si sono riferiti al suo modello. In Calabria questo non c’è stato, anzi. Il Cirò Librandi è venduto a basso prezzo perché accanto al Librandi ci sono i Cirò da un euro e cinquanta. Io mi sono dovuto inventare i marchi, e il Cirò non è un marchio».

Librandi parla di Calabria, una Calabria da esportazione. Sente la responsabilità?

«In Calabria abbiamo le potenzialità di fare quello che vogliamo. La nostra azienda è cresciuta in fretta perché ce lo consente il territorio, ce lo consente il clima e ce lo consentono soprattutto i nostri emigranti che sono diventati i promotori più affezionati dei nostri prodotti quando ne hanno scoperto la qualità. Per la Calabria ho un grande rammarico. Settecento chilometri di costa, ricca di pesce, con la montagna in mezzo, con una varietà di prodotti unica. Si produce il castagno, a dieci chilometri, nella casa del sindaco di Longobardi, ho trovato un albero di banane con il frutto maturo. Come si fa a definire povera la Calabria? Mi arrabbio quando sento parlare così».

Siete un’eccezione o un modello?

«Come la mia azienda ce ne sono tante che sono cresciute e sono cresciute bene. Abbiamo aperto una strada. Nel mio campo la Calabria consuma il doppio di quanto produce, c’è tanto da fare».

Il vino preferito?

«Rosso… ma non vorrei far torto a nessuno».

Che cos’è per lei un bicchiere di vino?

«Quando bevo un bicchiere di vino sento un bisogno di riconoscimento verso chi lo ha prodotto e il piacere di sapere che è frutto di intuizione e di conoscenza. E so che è il giusto premio per il lavoro e l’attenzione di anni di un produttore. Pensi, un vino può essere grande intuendo il giorno della raccolta. Il mio piacere è il frutto di sacrifici di anni».

Suo nipote quanti anni ha?

«Tre anni. Gli ho fatto già piantare una vite, un selvatico che dovrà essere innestato. Gli auguro di fare un giorno vini più grandi di quelli che ho fatto io».  

   

Vera Lamonica

Vera di nome e di fatto. Una vita da sindacalista da quando era ragazza e si batteva per i diritti delle raccoglitrici di olive, a oggi che è il segretario regionale della Cgil, il maggiore sindacato della Calabria. Vera Lamonica è esattamente il contrario di quello che si pensa debba essere una persona che ha bisogno del consenso: schiva, riservata, indifferente all’immagine, attenta alla sostanza. Lo è per carattere e per scelta e agli ideali ha piegato la sua vita e la famiglia, tant’è che oggi ha il cruccio di non aver seguito abbastanza i figli e il desiderio di riscattarsi quando diventerà nonna.

Lei ha origini contadine?

«Molto, molto umili. Mio padre è stato un operaio, emigrato».

Operaio, non contadino?

«Era figlio di contadini del Marchesato, di quelli interessati all’occupazione delle terre. Mio nonno era un concessionario di un pezzo di quella terra. Mio padre faceva il manovale. Era emigrato negli Stati Uniti perché stavano male».

Era emigrato da solo?

«Sì, la famiglia era rimasta qui». 

Che lavora faceva?

«L’edile».

Dunque, era un muratore?

«Manovale, manovale. Poi era stato male, è tornato qui a Nicastro ed è morto quando io avevo dieci anni. Mia madre si è trovata con tre bambini piccoli da mantenere per cui ha cominciato a lavorare. Faceva la bracciante agricola, raccoglieva l’uva, le olive, poi quando non c’era da lavorare nelle campagne faceva la collaboratrice familiare. Io ero la più grande di tre fratelli. Sono del 1956. Mio padre è scomparso nel 1966».

Erano anni di miracolo economico in Italia. In Calabria non si trovava un lavoro da manovale?

«Mio padre era emigrato prima, negli anni precedenti. In America stava bene, i problemi sono incominciati dopo la morte. Mia madre si è data da fare, ci ha fatto andare a scuola. Era una donna completamente analfabeta che però aveva l’idea che i figli dovevano fare una vita diversa dalla sua. Per puro caso è capitato che ero molto brava a scuola, avevo borse di studio, amavo studiare moltissimo, scelsi io il liceo classico per un’impuntatura. Avevo ideologizzato un po’ tutto». 

Ha fatto molti sacrifici?

«Sì, ho sempre lavoricchiato. Facevo la baby sitter, facevo tutto, mi arrangiavo. Importante è stato l’incontro con il movimento studentesco. Erano i primi anni Settanta. Lì, nel liceo abbiamo fatto alcune cose con il sindacato, a me interessava molto la condizione operaia».

Ma il liceo classico non era una scuola elitaria?

«Lo era, ma non per me. Ero diventata comunista già prima perché avevo avuto professori bravi».

Professori del liceo?

«Anche della scuola media. Ho cominciato a leggere».

Che cosa?

«Divoravo libri a quintali. Non ne avevo a casa, quindi i miei professori mi prestavano libri di continuo. Ho letto il “Manifesto” di Marx e Engels e “Stato e rivoluzione” di Lenin al quarto ginnasio, Gramsci al liceo, pentendomi perché poi per capirlo l’ho dovuto rileggere da grande. Amavo molto la letteratura, i grandi russi, i francesi, ho scoperto gli americani più tardi».

Come li sceglieva?

«Non li sceglievo io, me li davano».

Diceva prima che nel liceo vi occupavate molto di condizione operaia. Come mai?

«Allora c’erano i segantini, i ragazzini che lavoravano nelle segherie. Ma soprattutto c’era il fatto che il sindacato faceva le lotte bracciantili, delle raccoglitrici di olive che nella Piana rappresentavano l’occupazione femminile prevalente. Nel liceo facevamo assemblee invitando i rappresentanti sindacali».

Vien da pensare che a quel tempo l’interesse nelle scuole italiane per gli operai prese due strade: chi imboccò la via che portava alla sovversione e al terrorismo e chi, come nel suo caso, si impegnò nelle organizzazioni tradizionali del sindacato e della politica.

«Ero iscritta alla Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci. In quegli anni ho fatto anche l’esperienza dell’Udi, l’Unione Donne Italiane, a Lamezia e a Catanzaro eravamo trecento iscritte. Il pensiero della differenza è venuto dopo, allora ragionavo in termini sociali. La condizione delle donne per me era quella delle operaie. Poi il sindacato mi ha chiesto di dare una mano perché c’erano le lotte delle raccoglitrici».

Per fare cosa?

«I picchetti, andare a trovare a casa le raccoglitrici. Scoprii il sindacato e da lì non mi sono più mossa. Ho rinunciato a frequentare l’università, è stata una scelta».

La dignità del lavoro, è facile richiamare una figura mitica come Giuseppe Di Vittorio che aveva insegnato ai braccianti di Cerignola a non togliersi il cappello davanti ai padroni.

«Io ho preso da mia madre. Lei era una persona che anche nei periodi più difficili della nostra famiglia – ma questo non lo scriva -, quando eravamo piccoli e lei lavorava notte e giorno, ci diceva: se uno vi offre una caramella voi dite “l’ho già mangiata”. Cioè, mia madre aveva una grande dignità, era una donna non forte, perché era fragile per tanti aspetti, però aveva questo senso della dignità che ci ha trasmesso. Poi c’era la cultura di sinistra: lasciamo stare gli schematismi, gli ideologismi e le cose che poi con gli anni abbiamo messo in discussione, però era una grande risorsa di identità».

Nella casa di un operaio che a malapena aveva la quinta elementare era facile trovare anche tremila libri.

«Si compravano a rate, soprattutto quelli degli Editori Riuniti».

Sua madre come giudicò il suo impegno politico?

«Era spaventata. Al ritorno dal mio primo comizio in una campagna elettorale quando avevo diciotto anni, trovai le persiane chiuse, ma non lo scriva».

Perché chiede di non scrivere queste cose?

«Ma perché non interessano alla gente».

Questo lasciamo deciderlo alla gente. Torniamo a sua madre.

«Il suo sogno è che io facessi l’insegnante e mi sposassi. La sua aspirazione sociale era questa. E quindi quando ho incominciato a fare politica, a farlo da comunista – ero una delle poche donne a esporsi, c’era solo una parlamentare donna a Lamezia, Graziella Riga, un mito, era pure giovane e bella – mia madre ne fece un dramma. Questo accelerò anche inconsapevolmente la mia decisione di sposarmi. Lei non accettava. Prima di morire, qualche anno fa, mi ha detto: ma quando ti trovi un lavoro normale? Vedi, quella insegna, torna a casa alle due, sta con i figli e tu sempre in giro».

Che ricorda delle lotte delle raccoglitrici?

«Quelle lotte mi segnarono. Non tanto lo scontro sindacale tipico, quello che mi colpì non era il salario, che ovviamente era il motivo delle lotte, ma i dettagli, cioè il rapporto che c’era tra i padroni e le lavoratrici. Per esempio, una mi raccontò che quando raccoglievano le fragole, stando chinate come per le olive, passava il figlio del padrone e toccava il sedere. Oppure si andava a fare l’assemblea nell’azienda e non le trovavi perché come arrivavi sparivano nei filari, dove si nascondevano terrorizzate. Piccole cose, che messe insieme ti davano il senso di una condizione. Vivevo queste cose con rabbia, ero esaltata e adesso mi rendo conto quanto questo fosse semplificatorio, ma per me era una condizione inaccettabile che mi provocava indignazione. Avrei fatto qualunque cosa. Andavamo a fare i picchetti alle quattro del mattino». 

Aveva anche qualche soddisfazione?

«Gli accordi. Quando si vinceva. Anche di mille lire perché allora si facevano quaranta giorni di sciopero per mille lire. La gratificazione per me era quando le lavoratrici stavano insieme. Erano diverse da quando le vedevi una per una. Cento di loro insieme che si dicevano: sì, mo’ ma che si pensano, noi andiamo avanti, facciamo lo sciopero. Ti accorgevi di far parte di loro. La cosa più difficile da ottenere era proprio quello, il senso del collettivo. Da sole si temevano, quando le mettevi insieme scattava la solidarietà».

Sconfitte?

«Quasi sempre». 

Veniva la demoralizzazione?

«Era tremendo. Ma allora io non cedevo allo sconforto. Tendevo a giustificare le lavoratrici e dicevo: ci riprendiamo, ci rifacciamo».

Intanto studiava.

«Mi sono sposata, ho fatto due figli. Dopo il liceo ho collaborato alla Cgil per qualche anno. Scelsi di restare in Cgil facendo l’università lavorando, e non so se lo rifarei. Mi sono laureata che avevo già due figli. E adesso, appena finisco, mi riscriverò».

Perché?

«Ho studiato lettere, ho fatto una scelta di piacere, l’ho vissuta come un hobby. Adesso col tempo non ce la faccio, ma prima o poi riprenderò. Scelsi lettere perché mi rifiutavo di vivere tutto come un lavoro e di diventare un po’ arida, tecnicista, economista. Invece io penso che c’è l’anima, non lo dico in senso cattolico. C’è l’anima nel senso che ci deve essere uno spazio di valori. Come dire? Devi dare un significato che va al di là, non sono le mille lire dell’accordo, è un’altra cosa. Perciò pensavo che bisognava ritagliarsi uno spazio culturale che prescindesse dal lavoro, proprio per evitare di diventare quello che molti sindacalisti erano, e non mi piaceva molto». 

In altre parole cercava il respiro culturale per spezzare la routine quotidiana?

«Sì. Io penso che a volte le figure letterarie rendono molto meglio della concretezza del rapporto quotidiano. Non credo che sulla condizione degli umili ci sia qualcuno che abbia scritto più e meglio della letteratura nostra anche meridionale».

L’impegno sindacale si trasformò in un lavoro quando diventò funzionaria.

«Donatella Turtura, dirigente nazionale della Federbraccianti, venne qua, mi conobbe. Non so perché mi hanno preso. Avevo un carattere molto, molto difficile. Quando venivano questi del nazionale, io li contestavo. Invece la Turtura fece pressioni perché io entrassi nella Cgil».

A quel tempo c’era un gruppo dirigente importante, Lama…

«Di grande valenza, quello della Federbraccianti in particolare. La Turtura è stata una grande dirigente, capace di individuare le persone e di portarle avanti. Poi ho chiuso quest’esperienza e sono passata ai disoccupati inventando le leghe dei disoccupati».

Come maturò quella scelta?

«Decidemmo che il sindacato si doveva occupare dei giovani. Cosa che se potessi, in forme diverse, farei anche adesso. Non ci riesco perché evidentemente non sono più giovane. Facemmo leghe con migliaia e migliaia di ragazzi. Molta della gente che lavora e che si trova al sindacato viene dall’esperienza delle leghe. Abbiamo fatto comitati per il lavoro, cooperative, di tutto».

In Calabria è forse la cosa più difficile affrontare il tema del lavoro.

«Certo, perché poi se non hai la risposta che succede? Lo stimolo era mettere insieme i giovani, dargli voce. C’erano anche i problemi, non solo le cose belle, ma c’era uno spirito positivo».

Che cosa non andava?

«Non c’era il lavoro. Al massimo contrattavi la stabilizzazione della 285. Il lavoro qui è girato sempre attorno all’impiego pubblico. È uno dei grandi problemi, anche di oggi perché in una situazione economica e di mercato come questa il rischio è sempre quello delle risposte assistenziali». 

Anche a Napoli si posero il problema quando nacquero i comitati dei disoccupati, ma poi l’esperienza si rivelò drammatica per la Cgil che fu occupata e devastata dagli stessi.

«Da noi la storia è molto diversa perché qui non sono mai nati comitati spontanei, questi sono stati una creazione della Cgil. Noi stimolavamo, che poi abbiamo fatto bene o fatto male lasciamolo decidere agli storici. L’altra differenza è che in Calabria il rapporto con la politica è stato sempre molto, molto invasivo. I disoccupati qui non hanno mai avuto un’organizzazione “contro” ma “per”.  La 285 interessava 15-20mila giovani. Quel movimento ha prodotto dei risultati».

Che fine fece quell’esperienza delle leghe?

«Col tempo è morta, non c’era la maturità organizzativa per andare avanti».

Dopo che fece?

«Per alcuni mesi feci un’esperienza confederale perché c’era una crisi nel gruppo dirigente del sindacato. La confederazione mi sembrava una sovrastruttura, a me piaceva stare con la gente, fare contrattazione. Così mi mandarono a dirigere la funzione pubblica».

Un altro settore cruciale in Calabria.

«Io non capivo nulla di diritto amministrativo, non avevo mai visto una delibera. Mi misi a studiare i Cassese e a girare per gli ospedali. Dopo tre anni diventai il segretario della funzione pubblica, fui la prima donna ad avere una responsabilità del genere. Durò solo tre anni, perché poi dopo l’elezione di Pignataro a segretario regionale della Cgil entrai nella segreteria regionale dove sono stata otto anni».

Poi Pignataro è andato in Parlamento e lei è diventata segretario regionale.

«Dopo una spaccatura interna pesante in Cgil».

Ha pesato il fatto di essere donna in questa elezione?

«Pesa sempre. Chi dice il contrario è ipocrita». 

Per passare l’esame le donne devono dare sempre qualcosa in più?

«Intanto è questo. L’altro è che ti chiedono un prezzo altissimo». 

Quale?

«Non è quello di stare dentro l’organizzazione. Quando ho fatto la Federbraccianti mi sono occupata anche dei forestali, era l’epoca in cui fu occupato l’aeroporto, non ho mai avuto problemi con i lavoratori, anche con i forestali, quelli più tosti. Non mi sono mai sentita minorata perché donna. Anche in altro senso il problema non c’è: penso a chi dice che sei promossa proprio perché donna. Questi sono falsi problemi».

I problemi veri?

«È che tu ogni mattina ti chiedi se il prezzo che paghi vale la pena. C’è un prezzo altissimo. Per esempio, se tu scegli di fare figli è un dramma».

Quanti anni hanno i suoi figli?

«Flavio ha 26 anni, Annalisa 23. Li ho cresciuti da sola perché ho divorziato. Penso che le difficoltà le hanno pagate soprattutto loro, perché ho dato poco. Ho un grandissimo senso di colpa. Il lavoro assorbe troppo, e non è giusto». 

Hanno sofferto?

«Ora che sono grandi lo capisco». 

Le rinfacciano qualcosa?

«Non amano il mio lavoro. Sono fuori tutti e due, e io sono felice che siano fuori. Li ho incoraggiati a non restare in Calabria. L’una studia relazioni internazionali a Bologna ed è appassionata di cooperazione per cui vorrebbe diventare una specie di missionaria laica, l’altro fa il dottorato di ricerca in ingegneria in Spagna, a Valencia. Mi mancano da morire, ma sono contenta. Preferisco che stiano fuori perché per quello che faccio sto più tranquilla. Inoltre voglio che allarghino gli orizzonti. E poi loro vivono il rapporto con il mio lavoro in modo molto conflittuale».

Sono di sinistra?

«Tutti e due. Alla mia sinistra. La femmina è più verdeggiante. Con lei mi sento tre-quattro volte al giorno, col maschio un po’ meno».

Insomma hanno preso dalla mamma?

«Sì. Annalisa è esterofila, ha la passione per le lingue».

È un destino per la Calabria che i giovani debbano andarsene?

«Nel caso mio è diverso. Io ho una struttura familiare piccola, non ho molti parenti. Loro hanno praticamente solo me».

Eppure sono troppi che non vedono una prospettiva reale di futuro in questa terra. Un genitore che non voglia veder scappare i propri figli si dà da fare per trovare loro una sistemazione. Ma è una sistemazione che uccide la speranza…

«E che chiude… Così uccidono le persone. I ragazzi vengono uccisi, per stare al termine usato da lei, ancora prima, quando devono piegarsi e dire grazie. Allora preferisco, con tutta la sofferenza che c’è in questa espressione – e mi creda che è vera, perché essendo sola i figli li vorrei vicino – che siano fuori piuttosto che debbano dire grazie a qualcuno e debbano chiedere qualcosa a qualcuno e non fondarsi sui loro meriti e le loro capacità, se le hanno. Io non chiederò mai, né per i miei figli né per nessun altro, niente a nessuno perché non lo sopporto culturalmente. Il male maggiore che si sta facendo ai giovani calabresi è questo. La colpa maggiore che ha questa politica è che si ammazza la dignità e, con questo, l’orgoglio, l’idea del futuro, un’idea civica diversa, un’etica, un modo di stare insieme diverso. Poi viene tutto il resto, il malaffare».

Il sindacato che fa?

«Il sindacato purtroppo rappresenta poco i giovani. Questo è il dramma della Cgil. Noi rappresentiamo i precari, quindi quelli che già hanno un percorso collettivo. Uno dei miei assili è se si possano individuare i canali per entrare in contatto con loro».

Se non si rappresentano i giovani, non si rappresenta il futuro.

«Appunto. Mi ha fatto molto piacere che nello sciopero generale ultimo c’erano tantissimi giovani, e non erano gli studenti perché le scuole erano chiuse. Vuol dire che c’è una domanda verso di noi che noi non riusciamo a tradurre in fatto organizzativo».

Ha ricordato lo sciopero generale contro un governo regionale sulla carta amico. Che è successo?

«C’è stata un’esperienza deludente della giunta regionale sia per quello che ha prodotto sia rispetto alle attese. Avevamo passato cinque anni infernali con il centrodestra, la base della Cgil ha spinto e sostenuto il centrosinistra. Quello che è accaduto dopo è stato assolutamente distante da queste attese. Oggettivamente il bilancio di giunta è stato magro. Adesso abbiamo un tavolo, dove si incomincia a discutere. Io non amo la politica com’è oggi».

In che senso?

«È tradizione che i segretari regionali della Cgil passino a fare politica. Io penso che condizione della mia libertà è dire che oggi e sempre non intendo far politica. Secondo: è una politica che non mi piace, perché è una politica per chi ha, per chi deve gestire potere, è una politica senza partecipazione, che non ha a cuore l’interesse collettivo perché è una politica corrotta». 

Corruzione, l’altra piaga della società calabrese è la delinquenza organizzata.

«Credo che questo sia il problema più grande della Calabria, sempre sottovalutato, secondo me molto più grosso di quanto ne abbiamo percezione. È un condizionamento pesante, vero, che rischia di permeare tutta la società. L’incontri sempre, spesso non sai di incontrarlo. Sono sotto shock per l’arresto di un delegato della Cgil nell’inchiesta sui lavori dell’A3. Mi sono detta: se si arriva a tanto, cosa c’è di più di quello che vediamo? Ci vuole sicuramente qualcosa di più della repressione, occorre una rivolta morale e culturale della politica, delle istituzioni. Ha ragione il prefetto De Sena: se il piccolo comune non comincia a far funzionare i servizi e a porsi l’obiettivo di dare risposte collettive e non individuali, noi non ne verremo mai fuori. La chiave è questa. Fin quando non ottengo giustizia dal tribunale, fin quando per avere una visita specialistica mi rivolgo a chi sa e a chi può, fin quando per il lavoro devo raccomandarmi, non c’è futuro. C’è bisogno di ricostruire un’idea di Stato che storicamente è un problema della Calabria e del Mezzogiorno».

Il vostro segretario nazionale, Guglielmo Epifani, è venuto allo sciopero regionale. Una scelta di campo?

«Epifani si è speso personalmente sulla Calabria, come aveva fatto Cofferati. Il fatto è che in Calabria non viene più nessuno. Nessuno vuole sporcarsi le mani con la Calabria. Epifani ha condiviso con noi il percorso che ci ha portato allo sciopero, ne ha appoggiato le motivazioni, ha continuato a seguirci dopo, è vicino ai nostri problemi. E c’è di più: se io, mio malgrado perché non era questo il sogno della mia vita, sono qui è perché Epifani l’ha voluto. Io sono stata proposta da lui. E quasi imposta».

Ma qual è il sogno della sua vita?

«In primo luogo voglio essere nonna, per fare quello che non ho fatto con i miei figli perché non c’ero quando gli è spuntato il dentino, quando era il compleanno. Vorrei godermi i nipotini e poi dedicarmi alla filosofia orientale perché quella occidentale la conosco».

I filosofi che ha amato di più?

«Sono ferma a quando avevo diciotto anni: Schopenhauer. Però, amo anche James, mi piace molto Sant’Agostino». 

Nella terra della Magna Grecia chi mette sull’Olimpo?

«Eraclito». 

Perché?

«Mamma mia, perché panta rei, perché è il mondo, è la vita, è l’universo».

Altri amori?

«La scienza, la fisica. Adoro Einstein e Heisenberg».

Ha tempo per leggere?

«Da un anno sono obbligata a letture legate alla mia attività, come Gallino o Bauman. Non ho tempo per il resto».

Ottimista per il futuro della Calabria?

«Economicamente e culturalmente sì, perché la collocazione nel Mediterraneo è davvero strategica. Ma c’è bisogno di una classe dirigente, e non parlo solo di quella politica. Serve un grande scatto di generosità, ognuno deve guardare a quello che c’è dopo. Questa classe dirigente ha fallito, ne occorre un’altra».

Le donne possono essere una risorsa per la Calabria?

«Sulle donne si è retta e si regge questa regione, pensi al loro ruolo nell’emigrazione e al lavoro nei campi. Una volta ero contro le quote rosa perché mi sembrava una cosa da Wwf, oggi non la penso più così perché mi sono convinta che la presenza delle donne va imposta, altrimenti continueremo ad essere solo delle aggiunte».

Sulla tomba del padre di chi le parla, un operaio del cantiere navale di Castellammare di Stabia, è incisa la frase più significativa pronunciata da Giorgio Napolitano nell’orazione funebre: la moralità operaia. Per lei che cos’è la moralità operaia?

«È un modo di stare al mondo, coinvolge l’insieme della vita. Vuol dire dignità, sobrietà, non avere bisogno della grande casa o del grande vestito per stare bene. Vuol dire sobrietà nei consumi e nello stile di vita. Vuol dire concretezza del vivere, legarsi alla terra come materialità del vivere. Vuol dire saper distinguere i bisogni veri da quelli presunti senza farsi contaminare dalle mode. Ho insegnato ai miei figli per principio di non usare i vestiti firmati, glieli compravo anche se costavano di più, ma gli dicevo: se ti piace prendilo ma non perché è Nike. E poi penso che moralità operaia significhi anche un modo di stare con gli altri. Per esempio, rispettare le persone per quelle che sono e non per quello che hanno. A me piace guardare le persone negli occhi, conoscerle come persone. Io che dico sempre quello che penso, e perciò durerò poco nel mio lavoro, risulto antipatica, ma penso che nella moralità operaia ci sia molto il senso della franchezza, qualche volta della rudezza, e questo vuol dire autenticità. La civiltà delle immagini dove tutto è quello che sembri, mi dà fastidio. E poi nella moralità operaia c’è il dovere, prima ci sono le cose che devo, poi forse il resto, di sicuro non c’è la costruzione del personaggio nel teatrino dei nostri giorni. La vera vita è la vita vera».

Tommaso Le Pera

Voglio fare il fotografo di teatro. Viene da pensare al bambino che cocciutamente dice quello che vuole fare da grande e che non sempre mantiene la promessa. Come poi un giovane possa aver sognato un futuro da fotografo di scena in un paese della Presila catanzarese è da approfondire perché più comprensibile sarebbe stata la scelta della fotografia o quella del teatro. Invece Tommaso La Pera ha sempre saputo esattamente a che cosa mirava e ci è riuscito alla grande essendo diventato il numero uno dei fotografi di teatro italiani. Da Eduardo a Gassman, da Carmelo Bene a Albertazzi, da Paola Borboni a Toni Servillo, tutti sono finiti nell’obiettivo delle sue Laica. Figlio d’arte e padre plurimo d’arte, davvero una dinastia.

Suo nonno era un fotografo?

«No, mio padre Giuseppe e mio zio Luigi lo erano, il primo operava a Sersale, il mio paese natale, e l’altro a Nicastro, oggi Lamezia Terme».

Suo padre aveva un negozio?

«Sì, uno studio fotografico nel quale ho lavorato anche io nei primi anni come ho fatto anche con mio zio».

Come mai suo padre aveva scelto questa attività?

«Era, perché è morto due anni fa, uno molto curioso, infatti sapeva fare e si interessava di tutto. Anche mio zio aveva molteplici interessi ma mio padre era molto più poliedrico. Aveva una manualità veramente incredibile perché da niente riusciva a creare tutto, e, quindi, si interessava di orologi ma anche di idraulica. Per dire, subito dopo la guerra, quando c’è stato il disboscamento della Sila ad opera della famosa Sofome, la società forestale meridionale, lui guidava il trenino a scartamento dirotto, e contemporaneamente faceva le fotografie e si occupava di altro».

E tutto ciò in questo piccolo paese…

«Che è Sersale e che è un paese splendido anche se piccolo, perché c’è della gente veramente incredibile. Infatti, a differenza di altri posti della Calabria diciamo che è immune da determinati fenomeni, è un paese dove vale la pena andare a conoscere soprattutto la gente. Lì ho vissuto i miei primi vent’anni però ci torno molto volentieri perché ho conservato tutti gli amici di infanzia oltre al fatto che sono molto ma molto legato ai parenti che stanno quasi tutti quanti là».

La sua è una grande famiglia?

«Sì, ma io ritengo di avere una grande famiglia anche con i cittadini di Sersale perché, pur essendo andato via giovanissimo e manco da tantissimo tempo, ho conservato legami affettivi con tutti».

Lei poi si è occupato di teatro e non solo. Dal suo territorio sono venuti anche altri personaggi importanti del mondo dello spettacolo.

«Certo, uno per tutti Gianni Amelio che è di un paese vicino al mio. Non lo conosco perché, contrariamente a quanto si pensa, cinema, televisione e teatro sono delle cose completamente diverse anche se io inizialmente ho fatto sia cinema che televisione».

Che studi ha fatto?

«Praticamente niente, ho fatto soltanto la scuola media anche perché a quell’epoca non c’era altro».

Quando è nato?

«Nel 1952, dopo la media ho dovuto interrompere anche se mi sarebbe piaciuto continuare. Ho lavorato con mio padre sia nello studio fotografico sia nel cinema locale che avevamo insieme a altre due persone, facevo l’aiuto operatore a mio padre».

Viene da pensare a “Nuovo Cinema Paradiso”.

«Più o meno. Era l’unico cinema della zona, l’unico svago per la gente del posto perché non c’era nient’altro».

Me la racconta questa stanzetta in cui faceva l’operatore?

«Sono un profondo conoscitore del cinema di quell’epoca, che seguivo mentre ora ancora lo seguo anche se non lo vedo. Facevamo due spettacoli ogni sera, uno alle 20,30 e l’altro alle 23».

Come si chiamava il cinema?

«Aurora. Era aperto tre giorni la settimana, il mercoledì, il sabato e la domenica. Mio padre faceva la prima proiezione, io la seconda, quella notturna, perché poi approfittavo della sala per riunirmi con gli amici a gozzovigliare. Ricordo i film che a quel tempo erano molto fascinosi».

Mi tolga una curiosità da spettatore che è stato sempre in sala, ma come si vede un film dalla saletta di proiezione?

«Si è molto più partecipi nonostante uno debba preoccuparsi della proiezione, che adesso è tutta quanta automatizzata. Allora bisognava stare attenti al volume, alle luci, ai carboni perché c’era l’arco voltaico, che non sempre funzionava bene, e, quindi, non ci si poteva distrarre».

Anche perché arrivavano subito gli urli dalla sala.

«Certo, soprattutto quando si rompevano le pellicole che erano estremamente delicate e non erano in acetato come quelle di adesso. Oltretutto erano infiammabili, quindi ogni tanto si usuravano».

Con soli tre giorni di proiezione settimanali i film come venivano scelti?

«Arrivavano film non dico di prima visione, però abbastanza importanti. Non potrò mai dimenticare il successo strepitoso di “Ben Hur”. Proiettavamo pellicole commerciali, quelle di Amedeo Nazzari come “Il brigante”, che andavano tantissimo allora».

La sera proiettava i film, di giorno faceva il fotografo anche di matrimoni, immagino?

«Ma certo. Si facevano solo quelli, matrimoni, comunioni, cresime, anche perché all’epoca quasi nessuno aveva la macchina fotografica. Guardi, i fotografi di matrimoni sono di tutto rispetto perché fare i matrimoni, contrariamente a quanto si pensa, è un lavoro veramente faticosissimo, pieno di tensioni. Poi ora ci sono fotografi matrimonialisti che fanno dei capolavori, che sono molto redditizi. Io ogni tanto non nascondo che almeno sotto il punto di vista economico, ma scherzo, avrei dovuto continuare lungo quella strada, perché il teatro è un campo abbastanza povero».

Come decise di passare al teatro?

«Chissà per quale motivo, non riesco ancora a spiegarmelo, ma forse perché ero molto fissato per il cinema m’era venuta la mania del teatro tant’è vero che tutte le mie letture, ma davvero tutte, erano incentrate sul teatro. Mi facevo portare i testi teatrali, i titoli più famosi come “Giulietta e Romeo”, “Amleto”, “La locandiera”, da una casa editrice di Milano. Non avevo mai visto uno spettacolo teatrale dal vivo. Prima di essere fotografo sono un amante del teatro».

Oltretutto nel suo territorio non è che ci fossero occasioni di andare a teatro.

«Non a caso appena mi è stato possibile e ritenendo che solo a Roma potevo fare questo lavoro, mi sono trasferito».

Il primo spettacolo che ha visto?

«Attorno al 1965, quando mi sono trasferito a Roma facendo un salto nel buio dal momento che non conoscevo nessuno. Non ricordo la compagnia né addirittura il teatro, era “Le donne al parlamento” di Aristofane, ne sono rimasto estasiato. Un’emozione incredibile».

E quando ha incominciato a fotografare spettacoli?

«Tenga presente che l’ambiente teatrale è molto chiuso perché la gente di teatro non si fida di nessuno nel senso che una volta assimilati i collaboratori (tecnici, scenografi, costumisti) poi difficilmente li cambia. Io praticamente mi imbucavo dove potevo nei teatri con la macchina fotografica nascosta e cercavo di carpire qualche immagine. Così ho cominciato. E, se vogliamo, questa è stata la mia fortuna perché in questo modo ho inventato, senza falsa modestia, la tecnica della fotografia dal vivo, in movimento, dinamica, perché fino a quell’epoca si facevano le foto statiche, cioè si sceglievano quei cinque-sei-dieci momenti topici dello spettacolo, si bloccavano gli attori e si facevano le fotografie in posa, come si può vedere dalle fotografie di prima del ’60, molto statiche appunto e che non rendono l’anima dello spettacolo».

La sua tecnica era dettata anche dalla necessità.

«Sì. Ma io non ho mai amato le fotografie statiche, anche quando facevo i matrimoni, le mie foto di amici che martoriavo continuamente erano tutte dinamiche, curiose, prese sempre di nascosto. E questa tecnica mi ha aiutato ad emergere quasi subito. Quando qualche foto veniva bene la facevo vedere ai diretti interessati».

Anche a qualche giornale della capitale?

«Con i giornali ho lavorato tantissimo, ho cominciato con “Paese sera” a cui ero molto legato, non mi pagavano naturalmente, però la soddisfazione di vedere pubblicata una fotografia era enorme. All’inizio ho lavorato anche in televisione e nel cinema. Per esempio, ho fatto tutta la saga degli “spaghetti western”, in televisione ho seguito tantissimi sceneggiati sempre come fotografo di scena grazie a un direttore di Rai Tre che mi notò mentre stavo riprendendo il famoso musicista Luciano Berio al Festival di Spoleto. Però, la mia passione era e rimane il teatro, fare il fotografo di scena in cinema o in televisione è troppo facile perché si lavora con una luce molto forte, e poi le scene si possono ripetere all’infinito».

Quando ha capito di avercela fatta?

«Non si può mai dire, perché in teatro devi sempre dimostrare qualcosa, anche perché cambia la gente, ma anche il gusto della fotografia stessa oltre che del teatro. Quindi, uno non è mai arrivato, non arriva mai. E questo è il bello, e per questo continuo a farlo. Ogni spettacolo ha una casistica assolutamente diversa da quello precedente e da quello successivo».

La dominante delle foto di teatro è il nero. È un elemento decisivo?

«Il nero per me significa veramente mettere in risalto il soggetto principale che è l’attore. È l’idea del teatro, questo buio perenne da dove improvvisamente emergono delle persone anzi i personaggi più che le persone: affascinante, misterioso. Infatti, in tutti gli spettacoli, a parte alcuni, i datori luce si preoccupano non tanto di illuminare gli attori quanto di non illuminare lo sfondo in modo che ci sia questo alone di mistero. E poi il nero dà tridimensionalità, dal momento che gli attori e le scene essendo illuminati in modo diverso assumono più importanza».

Come ha vissuto il passaggio dal bianco e nero al colore?

«Si può dire che sono stato il primo ad aver proposto la fotografia in movimento ma sono stato sicuramente il primo ad aver imposto il colore in teatro. E forse anche questa è stata la mia fortuna perché all’epoca tutti quanti dicevano che solo il bianco e nero era artistico, quindi accettavano la fotografia a colore con la puzza sotto il naso».

Oggi no?

«No, non è vero. La foto in bianco e nero per il teatro va bene, però a colori è tutta un’altra cosa anche perché come dicevamo prima il teatro è tutto colorato, colorate le scene, colorati i costumi, colorate le luci, sono a colori anche gli attori. Quindi, senza voler togliere nulla al bianco e nero dal punto di vista artistico, esso sottraeva tantissime cose all’essenza teatrale. I fatti mi hanno dato ragione, ormai da anni non si fanno più fotografie in bianco e nero. Dirò di più, io prima ai quotidiani dovevo dare le foto in bianco e nero, poi quando facevano il confronto con il colore automaticamente preferivano il colore. Del resto adesso le foto a colori si possono stampare benissimo in bianco e nero».

Gli uomini di teatro li ha visti tutti al lavoro?

«Da quarant’anni a oggi a parte che li ho visti li ho davvero fotografati tutti a cominciare da Eduardo e Peppino De Filippo a Salvo Randone e ai giovani dell’accademia».

Eduardo e Peppino li ha fotografati in scena? So che ha fatto anche ritratti?

«Sì, in scena. Non amo, ripeto, le foto statiche. A tanti, tantissimi ho fatto i ritratti, sia chiaro, anche perché c’è la necessità di fare le fotografie pure per i programmi di sala però è un genere di fotografia che io non amo».

Con Eduardo che rapporto si è stabilito?

«Con lui ho parlato di teatro e di fotografia, ma con Eduardo i rapporti erano non difficili ma distaccati. I De Filippo erano personaggi complessi».

In genere sono complicati tutti gli uomini di teatro?

«No, questo assolutamente non è vero. Ci sono delle persone veramente deliziose, certo hanno le loro fisime, che vuole che le dica, chi non ce l’ha? Ce l’abbiamo noi comuni mortali, figuriamoci loro…».

Con chi si è trovato meglio?

«Diciamo con tutti. Ultimamente ho scoperto – e queste scoperte mi fanno riconciliare con il teatro e con le persone – Fiorello che è una persona straordinaria sotto il punto di vista umano. L’ultimo spettacolo l’ho seguito l’altro giorno a Todi, “A un passo dal sogno”, che verrà forse anche a Catanzaro, realizzato dal gruppo di “Amici”, c’è Paolo Calissano e c’è questo signore che in televisione fa Platinette, una persona straordinaria, prima di tutto di una cultura illimitata e poi disponibile, simpatica».

Qualcuno che l’ha fatta arrabbiare?

«Infastidire più che arrabbiare. Soprattutto chi ha ancora una concezione antica delle fotografie teatrali. Ci sono, per esempio, due che pur avendo una certa età, e una certa età per davvero, a parte che vogliono le fotografie in posa, mia dicono che le debbo far venire come le ragazze di vent’anni. Ma come è possibile! Non diciamo chi sono».

Gassman, come lo ricorda?

«Certo, quando gli girava male… ma pure lui era una persona deliziosa. A parte il fatto che, secondo me, è stato il più grande attore italiano direi del Novecento. Lui, Carmelo Bene… ecco questo era un personaggio difficile ma è stato davvero un innovatore».

Difficile sicuramente, ricordo che ci cacciò dalla platea perché il pubblico disturbava.

«Sì, però era il personaggio che si era creato. Pensi, mi chiamò a casa sua per farsi fare una fotografia per il passaporto perché non sapeva dove andare. Lui non voleva essere fotografato, quindi proprio non mi è sembrato vero. Sono andato a casa sua, mi ha tenuto non dico mezza giornata ma un paio d’ore a parlarmi delle cose più quotidiane con un’umiltà, quasi con timidezza. Gli ho fatto la foto per il passaporto ma ovviamente ne ho approfittato per fargli altre fotografie».

Paola Borboni?

«Ho fotografato tutti i suoi spettacoli. Negli ultimi tempi, avendo una certa età, non deambulando bene faceva delle apparizioni negli spettacoli, però lei si metteva per tutta la durata della rappresentazione dietro le quinte, seduta su una sedia, a suggerire alle attrici giovani perché sapeva le parti di tutti. Era una mania, ma c’è gente che vive unicamente per il teatro».

Visto che li ha fotografati tutti, come se la passa il teatro oggi?

«C’è una mancanza di idee che è spaventosa. Quest’anno ho fotografato tantissimi spettacoli, però non saprei indicarne uno che mi abbia colpito particolarmente. La televisione ha rovinato soprattutto gli attori, ma anche i ragazzi dell’accademia che quando escono sono bravi, però purtroppo un po’ perché non viene dato loro modo di crescere ma soprattutto perché sono protesi verso la televisione e il cinema, non solo non fanno più niente ma dimenticano anche quello che hanno imparato. Del resto in televisione i bravi li scartano. Da anni non esce più uno carismatico come Gassman o Albertazzi».

Mi dice il nome di qualcuno bravo?

«Amo tantissimo tutti gli attori napoletani, li frequento anche nella vita privata. Penso a un regista-attore giovane che si chiama Arturo Cirillo, che è da tenere d’occhio. È uscito dall’Accademia di arte drammatica già bravo, ha fatto quattro-cinque spettacoli e sta seguendo un percorso che lo porterà ad altissimi livelli. Ora sta portando in scena “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello. Per restare a Napoli, vogliamo parlare di Toni Servillo attualmente il miglior attore italiano? Anche se molti non lo adorano, io amo molto anche Tato Russo che fa veramente tutto. Napoli è una miniera inesauribile di attori. Pensi allo straordinario spettacolo “Scugnizzi”, gli attori sono uno più bravo dell’altro».

Vogliamo andare più giù, alla sua Calabria? Lei, se ho capito bene, ci viene spesso?

«Non spessissimo, negli ultimi anni quando ho un paio di giorni liberi scappo a Sersale anche per fare una partita a carte. Sento un richiamo fortissimo».

Tra non molto sarà presentato un libro a cui lei ha lavorato. Me ne parla.

«L’ho promosso. Uno dei miei amici di infanzia, figlio di uno storico maestro elementare di Sersale, Domenico Paletti, che è stato un innovatore nel campo dell’insegnamento, si lamentava che il paese aveva dimenticato il padre. Così mi sono dato da fare, ed è nato questo libro».

Sersale è il suo rifugio, ma che pensa del resto della Calabria?

«La Calabria purtroppo non la conosco perché sono rimasto soltanto vent’anni e a quel tempo non si aveva molto modo di viaggiare. Conosco Catanzaro, altre città, ma molto poco».

Quindi, lei la Calabria la percepisce da fuori come i non calabresi?

«È una terra che meriterebbe di più ma non do la colpa a nessuno. Non sono di quelli che dicono che il governo non aiuta la Calabria perché non è vero. Purtroppo non so per quale motivo, se per l’indole dei calabresi o se per il maledetto fenomeno della malavita o per altro. Ma penso che la ‘ndrangheta sia il male vero. Ho letto un’intervista a Pippo Callipo che ha analizzato e sintetizzato il problema. Ma credo che incida anche l’indole, tanto è vero che quasi tutti i calabresi che sono usciti da quell’ambiente sono riusciti a diventare qualcuno in tutti i campi».

Lei si dice orgoglioso di essere calabrese?

«Ci mancherebbe altro».

Tornando a lei e a Sersale, mi pare che la sua sia una tipica grande famiglia meridionale. Mi sbaglio?

«Ho tanti figli, sei, e tanti nipoti. I primi due miei figli fanno lo stesso mio lavoro. Uno, Achille, lavora con me, l’altro, Pino, è uno spirito più libero, fa veramente delle cose straordinarie».

Una vera dinastia sempre con la Laica a tracolla.

«La Laica è la macchina simbolo per le fotografie teatrali, poco rumorosa, oltre che di una perfezione assoluta».

Che cos’è il teatro per lei?

«Tutto. Il teatro è cultura, passione, amicizia. Racchiude tutta la vita. Essere riuscito a fotografare il teatro è stato il massimo perché mi ha consentito di coltivare tutt’e due le mie passioni».

Che cos’è la fotografia?

«Un modo di vedere e di far vedere le cose con l’occhio di chi fotografa. Uno non può permettersi di interpretare gli spettacoli teatrali, però basta il solo fatto di fare una fotografia e con questa far vedere l’essenza dello spettacolo».

La foto a cui è più legato?

«Mi disamoro subito. Lo spettacolo più bello è quello che fotograferò domani».

 

  

 

  

Suor Alessandra

Quando lei non c’è i malati terminali di Aids si sentono orfani. Una donna minuta, sembra ancora più piccola nel suo abito bianco, il dolce volto definito dal copricapo dello stesso colore, non dimostra la sua età, passa tra dolori e sofferenze, tra peccati e tragedie come un angelo. La sua pensione la trascorre in Aspromonte a Castellace, una frazione di Oppido Mamertina, tra la Casa Famiglia destinata agli “appestati” dei nostri tempi e la chiesa, dopo una vita passata tra gli ammalati del Cardarelli e degli Incurabili di Napoli. Ma la straordinarietà di questa donna semplice e forte, capace di carezzare corpi ridotti a larve e pronta a dare prove di granitica durezza, sta forse in qualcosa che si capisce solo se la si lascia parlare (purché non la si fotografi). Perché suor Alessandra Colace, una figlia della carità di Santa Giovanna Antida Touret, ha uno sguardo laico su cose e persone che non sminuisce la sua profonda, inconfutabile, accertata religiosità.

Madre, lei è campana?

«No, sono calabrese. Calabrese di Zambrone, vicino a Tropea. Forse pensano che io sia napoletana perché ho trascorso gran parte della mia vita a Napoli, dal 1958 al 1998».

Quanti anni ha?

«Settanta li ho fatti il 12 giugno scorso. Vengo da una famiglia numerosa di otto figli, quattro maschi e quattro donne, una famiglia contadina, non aristocratica. Avevamo le nostre terre. Una famiglia molto religiosa, molto osservante. Siamo venute fuori tre suore».

Chi vi ha spinto a fare la scelta?

«Un giorno è passato un missionario che ci ha aperto la porta.  Mia sorella è partita per l’istituto delle suore di Reggio. Io l’ho seguita ma non volevo andare nelle missioni né negli ospedali».

Aveva paura delle malattie?

«Non lo so. Ero negata. Forse perché mio padre era stato malato, era stato operato allo stomaco a Roma, e mi diceva di aver conosciuto delle suore molto brave ma anche molto severe. E io non pensavo di avere queste caratteristiche. Avevo 14 anni. Mi assicurarono che non mi avrebbero mandato in un ospedale. Nel 1959 sono andata a Napoli per entrare nel convento di Regina Coeli. Il primo impiego dopo un anno di noviziato fu all’ospedale Cardarelli. Ho avuto titubanze ma ebbi molte rassicurazioni. Pazienza!».

Si è ritrovata così nel più grande ospedale del Mezzogiorno, dove ogni reparto è un palazzo. 

«Era un mondo diviso in padiglioni, eravamo 83 suore. Mi sono trovata molto bene con i napoletani. Nel 1973 sono stata mandata all’ospedale Incurabili sempre a Napoli e nel 1998 sono andata in pensione».

Che non ha goduto visto il posto dove ora si trova. Come è accaduto?

«Il mio superiore mi ha detto che c’era bisogno urgente di me in Calabria. Ho posto una condizione: non voglio fare più l’infermiera perché sono stanca. E lui: dove ti mandiamo devi solo dare una mano. Così sono venuta a Castellace. Era il primo settembre del 1998».

Che cosa c’era qui?

«La comunità delle suore e i malati. Mi si chiedeva di fare la responsabile, quando io sapevo di essere venuta solo per dare una mano. Però, una volta che ci sei dentro…».

La Casa Famiglia già c’era?

«Sì, era stata impiantata anche bene, ma era agli inizi. I malati, che vengono da tutte le parti, ovviamente anche dalla Calabria, allora erano napoletani. La casa era nata per seguire e curare i malati terminali di Aids. Ma devo dire che tra cure e attenzioni molti si riprendevano. Se vede i ragazzi nostri, non sembrano malati. Si sa che lo sono perché stanno a Casa Famiglia, qualcuno ha il volto scarnito, ma è difficile pensare che siano ammalati».

Qual è il suo ruolo?

«Fare un po’ tutto, come la mamma nella famiglia. Sono a disposizione per tutte le loro necessità. Per qualsiasi cosa si rivolgono a me». 

I malati che le chiedono?

«Quando non hanno niente, chiedono sigarette e altro. Chiedono la terapia. Vogliono sapere se si comportano bene con i familiari. Vogliono essere incoraggiati, aiutati». 

I familiari vengono a trovarli?

«Alcuni sì, alcuni no. Ci sono familiari che si fanno vedere e collaborano con noi. Alcuni sono proprio abbandonati, i familiari non ne vogliono sentir parlare».

Lei come li giudica?

«Ci sono familiari addolorati perché hanno avuto molti dispiaceri, sono stati derubati».

Non per il tipo di malattia?

«Qui siamo nel mondo della droga e lei sa che il drogato nel momento in cui ha bisogno vuole i soldi e basta. La maggioranza sono anche alcolizzati. Bisogna stare attenti nel farli uscire perché un po’ di fiducia la si deve accordare ma sempre tenendo conto delle condizioni in cui si trovano».

E sono tutti malati di Aids, visti spesso come appestati?

«Sono tutti conclamati. Per me sono persone come altre. Sono malati da tenere nel cuore. Io me li accarezzo, me li bacio, me li stringo. Per la gente purtroppo…».

Per anni gli abitanti hanno chiesto di mandarli via dal paese. La vostra è stata una bella sfida.

«Lo so. Quando porto i malati in chiesa, mi siedo a un banco e vedo che gli altri scappano». 

Dalla chiesa?

«No, dalla zona in cui ci troviamo noi». 

Gli abitanti, dunque, continuano a creare il vuoto attorno alla Casa Famiglia?

«ll paesino una volta non voleva, poi c’è stata la nostra attività ma soprattutto il merito di aver fatto restare la Casa Famiglia a Castellace è del parroco Serafino Violi».

Diciamo che la chiesa ha portato un guaio in questo paesino.

«Non è così perché il parroco ha dato delle motivazioni».

Quali?

«Che questi malati sono Gesù Crocifisso, che là c’è il Calvario, quando andate là vi dovete inginocchiare e farvi la croce».

Lei è d’accordo?

«Certo. Sono veramente dei Crocifissi anche se hanno un po’ di colpe. Però, se andiamo nel profondo di queste creature, la massima responsabilità è delle famiglie e dell’ambiente sociale in cui hanno vissuto. Quindi non è colpa tutta loro. Alcuni magari sì, hanno messo le famiglie in croce, le hanno ridotto alla povertà. Però, ciò non toglie che dobbiamo accoglierli e amarli come fa Nostro Signore».

Ha avuto momenti di tristezza e di delusione?

«Quando fai tanto, cerchi di aiutarli, e vedi che tentano di imbrogliare… Queste cose ti fanno male, però io quando esco di là e vado in chiesa, dico: poverini, questi sono. Mi addolora, ma non sono questi i dispiaceri grossi».

E quali sono?

«Quando a questi ragazzi manca qualche cosa. Pensi, ora con questo calore non fanno nulla, stanno chiusi in casa, non hanno il minimo che gli serve. Questi sono figli di Dio, sono ragazzi. Oppure quando gli manca qualche cosa da mangiare. Io dico che una cosa la dobbiamo togliere a noi e non a loro».

Ne ha visto guarire qualcuno?

«Guarire proprio no, miglioramenti sì. Di recente c’è stata una ragazza di Napoli che ha avuto pure un tumore alla gamba, poverina, è guarita. Sia chiaro però che è sempre sieropositiva». 

Ne ha visti morire?

«Hai voglia! Più di uno. Tanti giovani. Una cosa terribile». 

Chi ricorda più?

«Un po’ tutti. L’ultimo che se n’è andato, Daniele, che non voleva ricoverarsi, aveva 45 anni, calabrese della zona di Paola».

Aveva famiglia?

«La mamma e un fratello. Ma aveva tagliato i ponti con tutti. Non voleva sapere niente di nessuno. La famiglia se l’è portato a casa sua quando è morto. La famiglia di un’altra ragazza non si è fatta viva neanche quando è morta». 

Lei che prova di fronte a un comportamento del genere?

«Non penso niente, non giudico. Li affido solo al Signore. Dico: Signore, tu sai i motivi che li spingono a questo. Noi non sappiamo e non possiamo giudicare né lei né loro. Certo, se mi chiedono notizie dopo rispondo: non avete voluto sapere nulla in vita, ora…».

Molti malati non sono credenti?

«Tanti. Alcuni si professano atei».

Lei pensa che Dio li ha abbandonati?

«Mai. Penso che il Signore li ami di un amore particolare. Anche se si professano atei, per il Signore sono sempre i prediletti. In qualsiasi situazione. Questo è il Purgatorio per loro. Li aiutiamo. Questi ragazzi sono molto buoni, uno meglio dell’altro».

Qualcuno ha cambiato idea e ora crede in Dio?

«No. La colpa la do a me stessa perché mi dico che non sono abbastanza testimone».

Per lei sarebbe una grande gioia?

«Certo. Il Signore sa lui, spetta a lui. A noi tocca seminare, il raccolto sarà suo».

La più grande gioia della sua vita?

«Il donarmi».

La cosa di cui chiede perdono a Dio?

«La mia mancanza di generosità, di testimonianza, forse la mia mancanza di fede. Non sempre crediamo abbastanza».

Sentirla parlare fa pensare anche al calo delle vocazioni che c’è stato e c’è nella chiesa. Che ne pensa?

«Un po’ ci siamo secolarizzati, un poco perché i figli sono diminuiti e non ci sono più le famiglie numerose di una volta, e un poco per la volontà di Dio perché la vocazione è un dono di Dio. In un mondo dove c’è tutto e non mancano i comodi andare a consacrarsi non è facile».  

Giovanni Paolo II già ricurvo che abbraccia quasi facendola sparire Madre Teresa di Calcutta: che le fa pensare? 

«Che bello! Quella era una santa! Una persona che si dava veramente. Aveva dei doni particolari. Ti veniva di abbracciarla, ho avuto il piacere di vederla una volta. Il suo sguardo…».

Pensa mai a suo padre? A sua madre?

«Ho ricordi molto belli dei miei genitori. Erano molto teneri, molto affettuosi, non ci facevano i cianci che si fanno oggi, allora per tirare avanti bisognava lavorare. Però, erano molto delicati, non ci facevano mancare niente. Nelle mie preghiere chiedo loro perdono perché non sempre sono stata all’altezza di tali genitori». 

Lei chiede sempre perdono.

«A tutti. Mi sento inadeguata, non molto fedele alla mia vocazione. Anche se ce la metto tutta».

Perché non fedele alla vocazione?

«Perché mi faccio prendere dalla pigrizia». 

Per lei Dio che cos’è?

«È tutto. È un padre buono». 

L’Aids è stata considerata da molti, anche cattolici, una sorta di punizione per costumi sessuali condannati da una certa morale. La sua idea?

«Ho sentito anche io chi diceva e dice: ben gli sta, se sono così è perché l’hanno meritato, se la sono cercata loro. Io dico: nessuno di noi cerca il male». 

Ci sono stati miracoli?

«No. I miracoli possono essere magari quelli che ce li portano per spacciati e poi si riprendono e stanno bene. I miracoli del tipo “alzati e cammina” non ce ne sono. Il miracolo è la fede, è l’amore. Mario è venuto qui varie volte moribondo. Don Bruno Cocolo, il direttore, gli ha fatto di notte anche l’estrema unzione, la mattina si è risvegliato e si è anche lamentato: mi avete fatto l’estrema unzione, ma io non muoio. Infatti sta bene».  

Che sentimenti hanno per lei?

«Sento un grande bene attorno a me».

Ha settant’anni, quando pensa di smettere?

«Sa, non sempre è facile. Ho anche momenti di sconforto. Quando le cose vanno bene è merito dell’amministrazione, se vanno male la suora diventa il parafulmine. Posso andare via quando voglio, non devo neanche dimettermi perché sono volontaria, ma poi vengo qui e dico: ma questi ragazzi a chi li lascio? E riprendo la mia missione come prima».

 

   
 

Romano De Grazia

Una vita da magistrato, tante decisioni da cui è dipesa la sorte di centinaia di persone, storie, passioni, travagli e un grande dolore. Un modo di fare all’antica, anche le sentenze scritte a mano, con la penna. Romano De Grazia dal primo maggio, per sua scelta, va in pensione. Ne ha da raccontare. E le racconta nella sua casa di Falerna, davanti a un mare spettacolare, dove ha raccolto da buon patriarca meridionale una bella tribù familiare nella quale però c’è un vuoto incolmabile.

Giudice, dunque lascia la magistratura?

«Posso dire una cosa preliminare. Gherardo Colombo, che è della mia sezione, la quarta penale della Cassazione, il 7 maggio lascerà anche lui, né io né lui sapevamo di questa intenzione comune».

Facciamo un lungo passo indietro. Prima di indossare la toga lei ha fatto il maestro. Che c’entra l’insegnamento con la magistratura?

«Eravamo quattro figli a casa. Mio padre era un avvocato del Sud, mia madre casalinga. Mantenere quattro figli agli studi era pesante e oneroso. Allora responsabilmente io dovetti studiare il sistema per mantenermi da solo e non gravare sul modesto bilancio familiare, cosa che ognuno dei quattro figli ha fatto».

Vivevate a Nicastro?

«Sì. Mio padre prima di fare l’avvocato aveva fatto il cancelliere. La mia famiglia ha una tradizione nel mondo giuridico. Il mio bisnonno era un pretore, aveva le sue idee, era un filosofo, ateo, anarchico, e fu trasferito di ufficio dalla Lucania dove era nato in una ricca famiglia dove vigeva la legge del maggiorasco».

La legge che assegnava tutti i beni al primo figlio?

«Esatto. E gli altri non si dovevano sposare – infatti l’altro si è fatto prete -, e il mio bisnonno, che era diventato magistrato, non doveva nemmeno lui sposarsi. Ha girato un po’ le preture della Lucania e poi fu mandato pretore a Nocera Terinese perché incappò in un procedimento disciplinare dal momento che quando giudicava le persone accusate di furto era vicino alle fasce più deboli tanto da assolverle con una motivazione che ovviamente in quel tempo non poteva essere consentita: affermava che i ladri stavano dall’altra parte. Venne, quindi, in Calabria e da qui derivò il mio ceppo, mio nonno notaio, mio padre avvocato, io…».

Insegnante. Perché?

«Perché mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza a Roma quando c’erano Giovanni Leone e Antonio Segni, però mi dovevo comprare i libri, stare a Roma nel periodo degli esami, pagare le tasse universitarie e mio padre non poteva sostenermi, allora conseguii l’abilitazione magistrale, a 19 anni vinsi il concorso e quindi cominciai ad insegnare andando a Milano. A Roma ero iscritto all’università, la famiglia l’avevo giù in Calabria. Nel contempo ho fatto il giornalista».

Solo collaborazioni o qualcosa di più serio?

«Una cosa seria. Lavoravo per il quotidiano “Il Tempo” diretto da Angiolillo. Ho fatto tre inchieste di grosso respiro. Intanto in un paesino del Milanese trovai moglie. Mi laureai. Ma avevo questa grande passione per il giornalismo perché il giornalista è più libero, se vuole, del giudice. Un nome me lo stavo facendo e la mia occasione venne con la proposta di andare a fare un’inchiesta in Olanda. Mi preparavo ad andare. Avevo fatto gli scritti al concorso per la magistratura, era passato un anno dalla correzione, non ci pensavo assolutamente più, ero anzi in uno stato di euforia per il viaggio imminente in Olanda. Una sera un amico mio che non si faceva i fatti suoi mi chiamò da Roma per dirmi che ero stato ammesso agli orali. Avevo già tre figli. Non sapevo se saltare dalla gioia o mettermi a piangere. Ho dovuto fare una scelta. Giornalista è un’avventura bellissima, ma l’avrei corsa se fossi stato scapolo. Optai per il concorso e non andai più in Olanda. Entrai in magistratura il 15 aprile del 1967, quarant’anni fa». 

Risale a quel periodo l’incontro con Lazzati a cui poi ha intitolato il suo centro studi?

«Conobbi Giuseppe Lazzati che era il rettore della Cattolica di Milano. Dossetti, Lazzati e La Pira, un gruppo che mi formò molto. Mi colpì molto l’insegnamento di Lazzati: l’unità nella diversità, il dialogo con i diversi. Lazzati è stato uno dei padri della Costituente assieme a Rossetti, è redatto per buona parte da lui l’articolo tre della Costituzione che è un inno, una lirica fatta norma. Era, ripeto, il rettore della Cattolica nel ’68 e riuscì a limitare i danni e i guasti della guerriglia urbana. Il suo motto più bello era quello di costruire assieme da cristiani una città a misura dell’uomo. Aveva uno spirito profetico. Nel lager nazista rifiutò di essere rilasciato per restare insieme ai soldati italiani lì rinchiusi, tra i quali c’era il futuro segretario del Pci Alessandro Natta. Poi è stata intrapresa la causa di beatificazione. E l’elogio funebre nell’86, quando morì, lo ha fatto Natta. E io che sono stato sempre inquieto fui affascinato da quella persona».

Inquieto perché?

«Sono nato il 29 febbraio e dichiarato il primo marzo. Fui chiamato da mio padre Benito Romano Vittorio perché lui era fascista, un sentimentale attaccato all’idea della patria. Nato il 29 febbraio ero fuori schema, mia madre diceva che gli uomini come me nascono ogni quattro anni. Ero fervente cattolico, mai laico nell’animo. Il linguaggio di Lazzati mi colpì molto, ero nella Dc, ma in quella che portava avanti questo dialogo, quella sinistra dc che fu illusa da Riccardo Misasi, che era un affabulatore, sapeva usare le persone e, quindi, manipolava i sentimenti. Con Misasi fondammo il movimento di base».

Poi venne la magistratura.

«Vinsi il concorso. Appena entrai in magistratura ovviamente per una questione di visibilità e di responsabilità lasciai la politica attiva».

Dell’esperienza di maestro che cosa le è rimasto?

«Valori importanti, perché influire sulla formazione comporta enormi responsabilità. Mi sentivo investito dal dovere verso persone in crescita. E sa che poi da magistrato ho avuto un’esperienza scioccante. Composi, perché c’era carenza di magistrati, il collegio del tribunale minorile di Catanzaro. Ero transeunte, prestato per un’udienza, mi trovai di fronte un ragazzo che era stato mio alunno – sono fatti che ti scavano dentro – che ha riconosciuto il suo maestro. Era accusato del furto di uno stereo. E veniva giudicato. Quel ragazzo non ebbe il coraggio di guardarmi in faccia. Io cercavo il suo sguardo. E mi ponevo una domanda: se lui è qui ho sbagliato io? non sono riuscito a fare l’educatore? E, quindi, in quel momento mi sentivo sotto giudizio io che dovevo giudicare. Lo stesso mi capitò poi con un compagno di scuola, io giudice ordinario, lui un bravo ragazzo che ho dovuto giudicare per armi: venne da me perché aveva avuto una storia – poi ho saputo –, era stato abbandonato dalla moglie, si era dato all’alcol, aveva frequentato compagnie che non si addicevano alla sua condizione sociale e alla sua posizione culturale». 

Quanto pesò nel giudizio questa sua conoscenza?

«Pesò perché al ragazzino diedi tutti i benefici di legge, d’altra parte c’era la minore età. Al mio compagno di scuola sentii, quando si è seduto davanti a me, di mandargli un messaggio – e non mi pento -, gli dissi: alza la testa, non ti preoccupare che ci sono io. Confesso la mia umana debolezza. Ovviamente non potevo assolverlo perché gli ho dato il minimo con i benefici di legge, l’ho fatto e non mi pento di averlo fatto perché nell’uomo deve parlare prima il cuore. Se riesce a parlare il cuore allora vuol dire che siamo sulla strada giusta. D’altra parte dopo qualche tempo è morto alcolizzato. Così l’uomo Romano De Grazia si è regolato».

L’uomo Romano De Grazia che ha giudicato tante persone ha sempre dormito tranquillo?

«Sì. Ho fatto di tutto, ho fatto processi di mafia, sono stato a Messina, e qui ci spostiamo su pene pesanti, ergastoli, trent’anni, ventiquattr’anni, ma ho cercato gli elementi a tutti i costi, il minimo dubbio ha sempre pesato a favore dell’imputato. Ecco perché mi sento tranquillo con la mia coscienza. Non ho avuto momenti di debolezza per i delinquenti accertati per crimini accertati. E poi la Sicilia è terra di mafia. Quando arrivai dalla Calabria i colleghi mi dissero: questi processi te li fai tu che non sei del posto, come se io venissi da un’isola felice. Poi capii perché non li potevano fare».

Lo spiega anche a noi?

«Perché scoppiò subito dopo il verminaio: contiguità di magistrati, donne, prostitute, gioco d’azzardo, assoluzioni, cavalli da corsa. E poi da dodici anni mi trovo nella Suprema Corte di Cassazione…».

Si fermi un attimo. Lei prima ha detto che quando ha avuto un dubbio lo ha sempre fatto pesare a favore dell’imputato. Doris Lo Moro, sua concittadina, profondamente provata dall’uccisione del padre e del fratello e dalla mancata punizione dei colpevoli, ha detto che non può stare in pace né il magistrato che condanna un innocente né quello che assolve un colpevole. Lei è d’accordo?

«Fui molto vicino a Doris. Lei è stata molto segnata da quell’esperienza. Doris le certezze ce l’ha su quelli che sono stati gli autori del duplice assassinio, e questo lo posso confidare perché le sono stato accanto in quei giorni difficili da magistrato più grande vicino alla giovane collega. La certezza lei ce l’ha, ma le certezze devono essere certezze processuali. Un giudice deve avere una prova. Poi per delitti che comportano pese così pesanti la prova deve essere granitica. Evidentemente quegli elementi processuali non costituivano la prova piena e in questa situazione il giudice deve assolvere, perché altrimenti un sistema che fosse basato su un principio diverso non sarebbe un sistema civile di amministrazione della giustizia. Tu mi condanni e mi devi dare spiegazione su quali elementi lo fai, diversamente il giudice che facesse riferimento a un altro principio avrebbe quelle angosce di cui parlavo prima».

Non dormirebbe tranquillo?

«Se penso a quelli che ho condannato all’ergastolo giù in Sicilia, le dico che sì, dormo tranquillo». 

Quale decisione l’ha tenuta in dubbio per più tempo?

«Diverse. Alla fine ho risolto alla stregua del criterio della verità processuale, che è quella che conta».

Probabilmente ha assolto anche molti colpevoli. Mi sbaglio?

«I colpevoli devono essere colpevoli secondo adligata et provata (documenti e prove, ndr), come dicevano i romani che sono stati i cultori del diritto».

Quindi, è sicuro che non ha mai condannato un innocente?

«No. Sono sicuro che non ho condannato un innocente perché ho cercato la prova in maniera esasperante e esasperata fino all’ultimo dubbio, se restava l’ultimo dubbio. Poi è chiaro che non mi sento un padreterno perché c’è la condizione umana che è un limite per tutti. Però, quello che conta dal punto di vista psicologico è il fatto soggettivo. Come si è cercata la verità? Utilizzando responsabilmente ogni elemento processuale».

Infine questa lunga esperienza alla Cassazione. Viene da pensare alle decisioni definitive della Suprema Corte che intervengono, a volte perfino contraddittoriamente, anche sul costume della società. Per esempio, stabilire qual è il comune senso del pudore. Una bella responsabilità.

«Purtroppo il nostro compito ci porta a mandare dei messaggi per la comunità, anche quelli che possono influire in prospettiva. Il giudice non è un robot, non è una macchinetta, è un uomo e come tale è prodotto della sua cultura e della cultura storica di quel momento. E ha l’ardire, la voglia, l’estro di superare certi condizionamenti. Il costume è in continua evoluzione. Il magistrato non deve solo fermarsi alla formulazione letterale della norma perché la norma è fatta dal legislatore, da uomini come noi in Parlamento. Lei ha richiamato il comune senso del pudore, che è un concetto storico in continua evoluzione. Ho settantuno anni e le posso dire che certi fatti che oggi non offendono più il comune senso del pudore ai tempi della mia formazione avevano ben altro effetto».

Faccia un esempio.

«Per esempio, prosciolsi degli editori e dei giornalisti che avevano pubblicato fotografie osé di attrici che cominciavano a spogliarsi, da alcuni cittadini ritenute offensive. Erano stati addirittura incriminati gli edicolanti. E allora ho dovuto disquisire sul senso comune del pudore. Ritenni di doverli assolvere».

Il comune senso del pudore nel Sud ha fatto fatica a cambiare?

«Ho iniziato a fare il pretore a Cosenza, quando non c’era l’autostrada ed era un problema arrivarci. Mi trovai in un processo già fissato, altrimenti avrei prosciolti in istruttoria un ragazzo imputato di molestie perché all’uscita della scuola andava a vedere le ragazze. E, poverino, disse a una: quanto sì bona. Il bidello, un frustrato, lo denunciò al commissariato. Il reato di molestie è procedibile di ufficio, il 659, e mi trovai fissato il processo a carico di questo ragazzo che mi arrivò in udienza tutto spaventato, pallido. Aveva visto la giustizia che si impersonava nella mia persona con la toga, quell’ambiente greve e solenne. Si sedette, gli dissi: senti qua, dimmi la verità, è bona veramente, perché se è racchia ti rovino. Raccolse il messaggio e l’istituzione si riconciliò col ragazzo. Mi disse: no, giudice, era bona. Assolto perché il fatto non costituisce reato. Era il 1968».

L’anno giusto per fare una sentenza del genere.

«Un magistrato deve avere la cultura del suo tempo, stare attento all’evoluzione del costume e seguire il buon senso della misura di tutte le condotte. Se la norma urta contro il buon senso vuol dire che è una norma decrepita. Ecco perché anche noi magistrati creiamo diritto interpretando quella norma che resta ferma e cristallizzata forzandola un po’ e così convinciamo il legislatore che va cambiata. Mi capitarono, per esempio, a proposito degli atti osceni in luogo pubblico due che poi si sposarono. Poverini, non avevano i soldi per andare in albergo, la carne ardeva, in una macchina fuori paese facevano l’amore, un carabiniere rompiballe li denunciò per atti osceni. Questi nel frattempo si erano sposati, figuratevi se io li condannavo per atti osceni. Ho cercato – e non mi pento di averlo fatto – la strada per dire: la nebbia, la poca luce, escamotage sacrosanti che chiunque avrebbe cercato col buon senso».

Lei fu uno dei primi magistrati a organizzare le controinaugurazioni dell’anno giudiziario. Come nacque questa idea?

«Il Palazzo organizzava l’inaugurazione solo dal punto di vista rituale, era una parata. Stavo in Magistratura Democratica, organizzammo una controinaugurazione facendo in modo che i magistrati che avevano pronunciato le sentenze in nome del popolo italiano facessero il rendiconto al popolo italiano di come era stata gestita la giustizia nell’anno precedente. Ci trovammo contro magistrati che oggi sono di sinistra».

Fece anche una battaglia per il divorzio. Ma non era un cattolico?

«La premessa fondamentale fu questa: se uno da cattolico ritiene che il matrimonio si regge sul vincolo dell’indissolubilità deve essere una sua scelta, ma questa non deve essere imposta. Feci una battaglia, scrissi un documento che raccolse le firme di cinquanta magistrati e che punto per punto ribatteva alle idiozie degli antidivorzisti».

Mi parla un po’ di Mani Pulite?

«È stato un dovere di supplenza che ha dovuto assumere la magistratura in un particolare momento, perché non si aveva contezza per la verità che la corruzione, le concussioni e gli illeciti penali avessero quelle dimensioni. Agirono magistrati che pesarono tutti alla stessa maniera con la bilancia della giustizia, Mani Pulite affascinò anche noi magistrati del Sud. Vede, io ho sempre guardato all’istituzione giudiziaria con occhio disincantato perché, contrariamente allo slogan che il magistrato è persona irreprensibile, io che ci stavo dentro mi accorgevo che per diverso tempo come imputati ci arrivavano i deboli, i miserabili, gli zingari, i poveri cristi, i crocifissi, mai le persone appartenenti a un certo livello sociale. Non è la funzione che qualifica la persona, ma è la persona che qualifica la funzione. Purtroppo nel Sud c’è stata la giustizia dei potenti. Ci siamo ribellati. E quando esplose Mani Pulite, anche noi toghe ci sentivamo confortate perché c’era una zona del paese in cui si cominciava fare sul serio e si dava credibilità, onore e dignità all’istituzione giudiziaria. Eravamo affascinati dal messaggio che ci veniva da magistrati preparati: mi riferisco a D’Ambrosio, Davigo e Gherardo Colombo, i quali alzarono un velo. Anche per il nostro Sud».

Ma al Sud è cambiato qualcosa?

«È triste dirlo: se la delinquenza ha mantenuto e accresciuto la sua baldanza lo si deve al fatto che le procure non hanno funzionato. Se il magistrato avesse fatto il suo dovere non condannando solo il povero crocifisso in terra, il cittadino avrebbe avuto fiducia verso le istituzioni. Tutti gli scandali si sono sempre risolti in bolle di sapone».

Al Sud c’è ancora la giustizia dei potenti?

«Sì. Comunque comincia anche per noi a spuntare l’alba. E l’alba per noi significa l’annuncio di un risveglio grazie a questi giovani magistrati che mandano un messaggio di speranza. Anche se lo spettacolo che si vede è deprimente. Fondi dilapidati, industrie che nascono sulla carta per fottersi i contributi».

A proposito dei potenti, lei è particolarmente impegnato nel convincere il Parlamento ad approvare il disegno di legge Lazzati che dovrebbe impedire l’attività elettorale delle persone in odore di mafia. 

«Nel 1991 si registrò il primo scioglimento del consiglio comunale di Lamezia per condizionamento mafioso, un anno dopo fondai il centro Lazzati. Sulla base della mia esperienza di responsabile dell’ufficio delle misure di prevenzione di Catanzaro mi accorsi che c’era una discrasia, vale a dire che le persone sottoposte a sorveglianza speciale avevano una serie di limitazioni tra cui anche il non diritto al voto, ma non veniva loro proibita la propaganda elettorale. La persona socialmente pericolosa non può votare ma può raccogliere voti. Il disegno di legge da me proposto si propone l’obiettivo essenziale di impedire che ‘ndrangheta, mafia e camorra condizionino la formazione delle assemblee elettive facendo propaganda elettorale. Un obiettivo che certamente non si persegue con il codice di autoregolamentazione di cui parlano alla Regione».

Lei ha ideato il film sulle connivenze tra politica e ‘ndrangheta che dovrebbe girare Giuseppe Ferrara. Perché si sta cercando di impedirne la realizzazione?

«Non lo vogliono fare perché mette a nudo verità scomode. Si intitolerà “Undicesimo comandamento”, perché nel dialogo tra un vescovo illuminato e un giovane prefetto mandato in Calabria il secondo di fronte alle ingiustizie avverte un senso di impotenze e chiede spiegazioni al primo. Il vescovo replica: sa, eccellenza, in Calabria c’è un undicesimo comandamento. Quale? chiede il prefetto. Quello di non uccidere la speranza».

Quando ha parlato del pool Mani Pulite ha dimenticato Di Pietro che pure ne fu il simbolo. Per quale motivo?

«Pensavo che uno come lui che a quell’epoca la gente cercava di toccare quasi fosse una reliquia, potesse impegnarsi in una battaglia così semplice e tanto decisiva come il disegno di legge Lazzati. Si è limitato esclusivamente a presentarlo. Ma non mi fermo. Nei prossimi giorni vado a presentare il disegno di legge alla cattedra di legislazione antimafia del professore Angelini a Perugina. Pensi, una cattedra del genere sta in Umbria e non in Calabria».

Lei tra pochi giorni non sarà più magistrato. Come passerà il suo  tempo?

«Ho fatto con amore il magistrato. Ora intendo battermi con ogni forza, città per città, per far diventare legge questo disegno di legge».

Vive qui, di fronte al Tirreno. Quanto conta il mare nella sua vita?

«C’era un rapporto meraviglioso col mare, però dal primo dicembre 2005 pur vivendo accanto al mare una tragica vicenda mi ha sconvolto e tutto è cambiato».

La morte prematura di sua figlia Rosangela, che il suo compagno raffigurò in versi struggenti come “il rumore di un petalo di rosa/ che cade/ su un pavimento di cristallo”.

«Il tramonto… non ho voglia… mi passerà ma ancora penso alla mia creatura. Faccio questa battaglia perché in essa credeva questa ragazza. Cinque figli, ma era quella che stava sempre accanto a me, al suo papà. Aveva avuto una vita sua familiare sfortunata e trovava in me il suo punto di riferimento». 

La sua è una tristezza comprensibile. Un figlio deve vedere la morte dei suoi genitori, è innaturale il contrario.

«Le posso confidare una cosa? Sapevo che ormai per mia figlia non c’era nulla da fare perché me l’aveva detto suo fratello, aiuto chirurgo al Pugliese, che l’aveva operata. Io non andai più in ufficio, sono stato accanto a lei. E lei mi disse: papà, perché non vai in ufficio? Sei  in malattia? Le risposi che avevo problemi agli occhi, non le potevo dire la verità. Lei mi disse: papà, tu sei rimasto perché mi devi chiudere gli occhi. E io: ma che racconti? Occhi meravigliosi. È avvenuto che glieli ho dovuti chiudere io. È ancora presto per pensare al mare».  

Si toglie la toga. Una giornata spesa bene?

«Sì. Quello che le ho detto prima ha scavato profondamente dentro di me. E poiché ci sono altri più giovani di me che hanno determinazione e più forza di me, io lascio e mi dedico tutto a portare avanti il mio progetto di legge». 

Sulla base di una vita dedicata alla magistratura, ad una persona disorientata dalle prepotenze e dal malaffare, come descriverebbe la giustizia?

«È quella che vogliamo noi che sia».

Giovanni Pugliese

Dietro un successo c’è sempre una storia. Dietro quello della clinica Sant’Anna di Crotone, uno dei centri del risveglio di cui la Calabria, l’Italia e l’Europa menano legittimamente vanto, c’è la storia di una malattia che diventa un dono. Un dono di Dio, direbbe un cattolico, un dono e basta, direbbe un non credente. È molto sottile il confine, e forse non cambia granché le cose il punto di vista di chi legge quello che è accaduto. Il dono è anche in quel nome, Anna, perfetto nel suono e nella composizione, che dà la denominazione alla casa di cura, e che diventa dolce e intimo quando si trasforma in Annarella. Giovanni Pugliese, l’amministratore unico, con pudore e delicatezza ci apre un mondo nel quale si deve entrare in punta di piedi.

Lei non è un medico.

«Sono laureato in giurisprudenza, non ho mai esercitato la professione. Appena laureato mi sono messo a lavorare nell’azienda di famiglia». 

La famiglia che cosa faceva?

«Papà mio ha fatto prima l’avvocato, contemporaneamente aveva un negozio di arredamento, è stato anche amministratore della Banca Popolare. Poi nasce Annarella».

Quanti eravate in famiglia?

«Mio padre, mia madre e i tre figli. Mio padre non c’è più, mio fratello non c’è più, e Annarella, la più piccola, nacque con la sindrome di Down».

Che cosa cambiò con la nascita di sua sorella?

«Papà ebbe grossi problemi psicologici e pratici come quello di farle frequentare la scuola perché era rifiutata e presa in giro dagli altri compagnucci, per cui insieme ai suoi amici, coetanei e con figli della stessa età, creò una scuola elementare – mia mamma era professoressa – nell’attico della casa dove abitavamo. Era il 1962, Annarella era nata nel 1956. Io sono del 1952, e il fratello di mezzo, quello che non c’è più, del 1954. La scuola elementare era frequentata dai figli degli amici di papà proprio per aiutare Annarella».

Gli altri bambini erano sani?

«Sì».

Fu, quindi, un grande gesto di solidarietà?

«Esattamente, di amicizia, un modo di guardare fuori dagli schemi. Questa prima elementare divenne poi una prima e una seconda».

Un momento, parli ancora di questi amici. Erano crotonesi noti?

«Sì. Tanto per ricordarne uno, il dottor Lisi, che fu amministratore della Banca Popolare. La scuola diventò una scuola elementare e un asilo nido per cui nell’attico non ci si stava più, papà acquistò il terreno dove siamo ora e diede impulso alla scuola. Negli anni Settanta dal mondo della didattica si passò all’inquadramento nella medicina preventoriale e la scuola diventò un istituto per ragazzini dai sei ai dodici anni, disadattati, con problematiche sociali molto forti. Questo durò un’altra decina di anni».

Dopo che successe?

«La costante era stata fino a quel momento la scuola, anche se per ragazzi con problemi. Era una scuola un po’ elitaria perché era a pagamento, ed era avanzata, si procedeva con il metodo Montessori. Poi si cambiò, l’obiettivo non era più solo quello dell’istruzione ma di dare una casa a ragazzi con problematiche border line, soprattutto di disadattamento sociale».

Intanto sua sorella che faceva?

«Continuava a frequentare la scuola. La sindrome di Down non progredisce per cui la quinta, una seconda volta la quinta, e la compagnia dei ragazzi dell’età sempre mentale e non fisica per cui lei aveva vent’anni e i suoi amichetti ne avevano sei. Amava molto la musica, aveva un innato senso del ritmo. La sua passione era sentire la musica e ballare». 

Perciò c’è il musicoterapeuta nel suo centro di riabilitazione?

«Quello è un altro discorso. Dicevo prima che la svolta si ebbe ad un certo punto, quando furono introdotti i Drg, che sono la modalità di remunerazione di un intervento medico tra cui non è compresa la prevenzione che non può essere remunerata. Di qui il cambiamento radicale. Intanto con la morte di mio padre Ezio nel 1986 io avevo ereditato l’istituto».

Suo padre non faceva più l’avvocato?

«No, si era dedicato all’istituto. Aveva fatto anche la politica attiva, era stato vicesindaco. Era socialista demartiniano, molto legato a Cecchino Principe, che fece il discorso quando morì, di Salvatore Lauricella, di cui era stato compagno di scuola nella stessa classe nella quale si trovava anche mia madre Maria, e di Mario Casalinuovo».

Aveva, dunque, trasformato la malattia della figlia nella ragione della sua vita. Come viveva questa condizione?

«Per me è stato un esempio assoluto. Non posso paragonarmi alla sua figura nel senso che mentre io mi entusiasmavo lui analizzava e ricostruiva le cose con un acume straordinario. Con Annarella era di una dolcezza infinita, c’era una simbiosi. Papà andava a Fiuggi per le acque ma soprattutto perché Annarella stava bene lì e poteva ballare perché c’era il teatrino. E papà non amava la musica».

Cattolico?

«Sì, molto cattolico come mamma. Con una sua morale rigida. Ma non era severo con nessuno di noi». 

Quindi, lei si trovò con questa eredità?

«Molto impegnativa. C’erano già sessanta dipendenti. Da giovane lavoravo per l’azienda, ma il giorno in cui non volevo venire non venivo. All’improvviso mi sono trovato responsabile di tutto. Istintivamente sono andato a circondarmi delle persone di cui mi fidavo di più e che erano tutte della mia famiglia. Il direttore sanitario, Paolo Scola, è mio cugino, il direttore generale è mia moglie, il direttore amministrativo è un altro mio cugino e così altri, tutta gente che lavora tanto e molto di più. Ai posti apicali c’è gente che non ha bisogno di essere controllata nel senso che se imbroglia imbroglia sé stessa». 

Torniamo all’avvento dei Drg. Che cosa fece?

«Dovrei fare una parentesi sulla buona e sulla cattiva sanità ma preferisco dire che l’Istituto Sant’Anna è nato da un progetto fatto a quattro mani con l’assessorato alla sanità della Regione Calabria. Nel 1996 andai dall’assessore – era Pino Torchia –  e gli esposi in maniera chiara il problema: ho questa struttura sul mare, un bell’impianto di talassoterapia, per cui posso trasformarla in un albergo con piscina oppure possiamo fare una cosa insieme che però non mi dovrebbe far soffrire costringendomi a elemosinare ogni volta il sostegno della Regione. Mi fu chiesto di realizzare una struttura che si interessasse di riabilitazione e soprattutto di neuroriabilitazione. Al di là dell’indicazione lungimirante, questa fu un’apertura di credito che continua tuttora». 

In che senso?

«Nel senso che l’Istituto Sant’Anna ha avuto un credito per fare una cosa e l’ha fatta molto bene, ha chiesto un altro credito e si è comportato alla stessa maniera. È stato più di un feeling, si è fatto progredire un segmento che rappresenta una nicchia nel territorio italiano, una struttura privata che si trova al suo fianco un’amministrazione pubblica e viceversa. È la cosa più entusiasmante».

E anche un po’ anomala.

«Questo non lo so dire, ma posso dire di colloquiare con gli assessori regionali in maniera limpida. Siamo inseriti nel Piano sanitario come un esempio di buona sanità». 

Ma non è ancora chiaro come sia nato il centro del risveglio. Ce lo spiega?

«Io e mia moglie ci mettemmo in macchina e in aereo e in un anno visitammo tutte le strutture più d’avanguardia esistenti, cinquanta-sessanta, in Italia, in Svizzera, in Germania, in Austria e in Francia. Poi tornammo e ci mettemmo a costruire quello che c’è con i mattoncini, distribuendo le stanze come secondo noi poteva essere il meglio rispetto a quello che avevamo visto». 

Sua moglie che mestiere fa?

«Pina è laureata in lettere, insegnava, prima lavorava in un’agenzia di viaggi, poi è venuta a lavorare qui.  Ho due figli, Ugo di 22 anni e Maria Elena di 20, che studiano».

E dopo i mattoncini?

«Qualsiasi cosa, le buone e le cattive, dipende sempre dalle persone. La fortuna ci mise il suo zampino e avvenne l’incontro con Giuliano Dolce, il più giovane professore d’Italia quando si laureò, vent’anni di Germania dove ha diretto un paio di università, primario della struttura di riabilitazione del Cavalieri di Malta di Roma, istriano, nato da padre istriano e da madre napoletana, un cocktail esplosivo, che in testa al suo curriculum scrive profugo istriano». 

Come lo convinceste?

«Fu un incontro casuale. Noi avevamo assunto l’impegno di onore di fare la riabilitazione. Ero convinto che ci volesse un grosso professionista e che partendo da zero non si dovesse fare una cosa rabberciata. Ci mettemmo a cercare in tutt’Italia e capitammo dal professore Guido Rosadini, all’epoca uno degli uomini più potenti al San Martino di Genova. Bussammo alla sua porta. Evidentemente, noi giovani signori che venivamo dal Sud e che avevano come referenza i mattoncini e la voglia di fare, gli facemmo tenerezza. Ci disse: io non posso farlo, l’unica cosa che vi prometto è che trovo qualcuno. E noi: se non altro, professore, venga giù, ci mangiamo del pesce fresco».

Si decise a tavola?

«Dopo una quindicina di giorni infatti mi telefonò per dirmi che sarebbe venuto con piacere a mangiare il pesce fresco: sabato sono giù con un mio amico. L’amico era il professore Dolce, il quale appena arrivò qui mi fece un’impressionaccia. Lo feci incontrare con le famiglie dei malati psichici – ero il presidente dell’Afap –  e vidi una persona fredda, spietata, che diceva: questo è malato, per questo c’è poco da fare. Non eravamo abituati, noi non lasciavamo mai cadere la speranza. Ricordo ancora la scena, dove eravamo seduti, in questa saletta, chi, dove». 

Come andò a finire?

«Con la promessa del professore Dolce che sarebbe venuto per un periodo di quindici giorni per poi decidere. Quando venne, alla moglie disse di non disfare la valigia ché tanto sarebbe rimasto pochi giorni. Questo succedeva undici anni fa, il professore Dolce è qui. Non abbiamo mai firmato un contratto. Dopo due anni gli chiesi se avesse pensato alla cifra del suo emolumento, mi chiese se l’avessi pensata io, gliela dissi e lui rispose che era la stessa che aveva pensato lui. Incredibile, veramente incredibile. In Europa lui è oggi uno dei quattro-cinque leader assoluti in questa materia».

E fu lui a imprimere la svolta decisiva?

«Sì. Facemmo la struttura di riabilitazione ma subito con una vocazione particolare per i pazienti in stato di coma. Il professore Dolce li studia da quarant’anni, è stato il primo al mondo a cercare di far svegliare queste persone iniziando la sperimentazione sui gatti. E avemmo subito l’autorizzazione dalla Regione».

È scontato ridirle che questa sembra un’anomalia?

«Guardi, mai abbiamo avuto una difficoltà, sia che i nostri interlocutori fossero di destra sia che fossero di sinistra. Ci hanno sempre accordato la fiducia. La Regione Calabria, su proposta della nostra Asl di appartenenza, è stata la prima in Italia a codificare un’unità di risveglio. E l’ha codificata in maniera encomiabile, con rigidità e con un’incredibile dovizia di particolari tecnici. Due anni fa a livello nazionale il Governo ha recepito per intero i nostri protocolli fatti dieci anni prima. La settimana scorsa è arrivato un lavoro scientifico fatto a Innsbruck in cui si sono definite le linee guida europee con la partecipazione del professore Dolce, per cui l’Istituto Sant’Anna le ha preparate insieme alle sette-otto università europee più competenti in materia. E noi non siamo un’università».

I pazienti in coma arrivano dalla Calabria?

«Da tutt’Italia. Per evitare la telefonata del presidente che bypassi le altre richieste e proprio perché parliamo di patologie gravissime, abbiamo dovuto fare un codice di accesso molto rigoroso che si fonda su parametri oggettivi, inattaccabili, trasparenti». 

Qual è la vostra carta vincente?

«Che l’unità di risveglio da sola non ha senso. All’unità di risveglio provengono dalle rianimazioni e dalle neurochirurgie, però se a valle non crei una serie di presidi che seguano il paziente nella sua evoluzione o nella sua involuzione, dopo tre mesi il reparto è chiuso. Per cui accanto all’unità di risveglio è stata individuata un’unità chiamata gravi cerebrolesioni, un’altra che è la riabilitazione standard, un’altra che è il day hospital, un’altra ancora che è la riabilitazione cognitivo-comportamentale, un’altra che è una struttura dedicati ai pazienti in stato vegetativo da molto tempo. C’è tutta la filiera delle aree al servizio dell’unità di risveglio».

Come avete formato il personale?

«Abbiamo visitato le strutture di riferimento europee ed extraeuropee, abbiamo creato dei ponti virtuali attraverso un comitato scientifico che comprende i tre centri di maggiore valore che sono Innsbruck, Bordeaux e Tel Aviv. Nostro consulente è il professore Leon Sazsbon di Tel Aviv dove cinque anni fa è stata fatta la prima unità di risveglio al mondo. E noi mandiamo il nostro personale a formarsi nelle loro strutture. D’altro canto è l’esperienza sul campo quella che conta perché non esiste un manuale come, per esempio, per l’anatomia».

Personale calabrese?

«In gran parte. L’Istituto Sant’Anna viene riconosciuto come il centro per i pazienti in stato di coma, ma è anche una struttura che fornisce servizi sul territorio per gli ictus o per la frattura di femore. E oggi abbiamo un altro reparto, che è il primo in Italia, di terapie cognitivo-comportamentali».

A che serve?

«Succede che un paziente guarito dopo un anno o dopo tre anni si svegli una mattina e schiaffeggi la madre o non ricordi più nulla. Sono esiti tardivi del trauma che fino ad oggi erano ritenuti problematiche puramente psichiatriche ed invece sono inerenti a un problema post-traumatico».

I risultati sono importanti? Quante guarigioni?

«Il concetto della riabilitazione non è la guarigione, ma è il massimo del recuperabile, paradossalmente potrebbe essere il passaggio dal letto alla carrozzella. Il concetto di guarigione non è pertinente. La bravura consiste nel tirar fuori il massimo che si può ottenere. Di una chitarra con una sola corda devi individuare la corda che si può sonare».

Sono molti i fallimenti?

«Se diciamo che coma è uguale a assenza di coscienza le dico che c’è una percentuale di ripresa di coscienza del 72 per cento. Quindi, il messaggio è positivo. Di questo 72 per cento oltre il 50 delle persone torna a fare quello che faceva prima del trauma, il restante ha residui lievi o postumi gravi. Del 28 per cento che resta c’è un 10 per cento che purtroppo… e un 18 per cento che passa dal coma allo stato vegetativo per cui ci sono pazienti che in linea teorica potranno continuare a vivere la loro vita per tantissimi anni in uno stato per l’appunto vegetativo».

Che è la condizione che apre la porta a scenari sempre inquietanti e che richiamano il tema dell’eutanasia. 

«Noi stiamo ipotizzando con il professore Dolce che il paziente in stato vegetativo persistente non è più un malato ma è un cittadino con il diritto di cittadino e con una vita degna di essere vissuta al massimo della disabilità. È come un cieco, che è un disabile che non vede, lo stato vegetativo è quello di un disabile estremo che non ha più la coscienza e che ha bisogno della tutela globale. Questa non è solo un’affermazione lessicale, su questo stiamo facendo una ricerca. Questo nuovo modo di porsi da parte nostro è una delle ricerche di base che da due anni stiamo facendo e che intende dimostrare che il paziente in stato vegetativo ha una disabilità grave e ha comunque una sua modalità di comunicare, sua particolare».

Comunicare che cosa?

«Comunicare vuol dire che possa avere delle emozioni, che si risponda a degli stimoli. Con una serie di esami elettrodiagnostici si è dimostrato che ci sono delle reazioni elettriche uguali alle emozioni». 

Emozioni?

«Forse è troppo dire questo, ma ci sono le stesse reazioni elettriche che si manifestano quando ci sono le emozioni».

Su quanti pazienti state facendo ricerca?

«Finora su trecento pazienti, che è un numero elevatissimo. In genere gli studi avvengono su dieci-venti pazienti. Quando abbiamo mandato i nostri studi a Lancet o Science ce li hanno rimandati indietro dicendo che non ci credono perché trecento casi sono troppi. Ma questa è la nuova frontiera del Sant’Anna».

Quanti pazienti avete in stato vegetativo in questo momento?

«Sessanta, su centossessanta presenti nella struttura. Abbiamo dieci posti nell’unità di risveglio».

Come vi regolate con le famiglie?

«Probabilmente questa è la parte più drammatica. Pensi, la famiglia che la sera ha cenato, va a letto, arriva una telefonata e da quel momento la vita è stravolta. Un giovane o una ragazza che ha salva la vita, ha gli occhi aperti ed è in stato vegetativo. Prima i familiari sperano che questo figlio non muoia, accettano tutto e stanno sempre dietro la porta della rianimazione. Quando si spostano nella riabilitazione è naturale che pensino: il pericolo lo abbiamo passato. Perdendo di vista che c’è sempre il pericolo di vita e la prognosi riservata, ma le aspettative sono diverse. E allora si aspettano che in tempi brevi vengano riprese le funzioni, cosa che non avviene o avviene in tempi lunghi con esiti più o meno pesanti, vistosi, traumatici».

E voi che fate?

«Per queste famiglie abbiamo creato un servizio mirato, come una serie di atti, tutti organizzati per protocolli, tra cui un colloquio periodico con tutta la famiglia da parte della nostra equipe. Abbiamo la figura dello psicologo familiare che è addetto alla gestione, direi alla tutela delle famiglie. E altre figure anche di tipo psichiatrico che però la famiglia mal accetta. Alla disperazione si sommano altri problemi pratici. Arrivano qui, non hanno una casa, hanno venduto la tabaccheria per stare qua, non sanno dove andare a mangiare. È un problema che continuo a sottoporre alle istituzioni locali».

Un bel rompicapo.

«È un mondo che non si conosce, privo di riferimenti. Ogni famiglia è un dramma di per sé».

Racconta una storia?

«La mamma di una persona che conosco. Il ragazzo in moto a Messina finisce nel parabrezza di una macchina, dopo circa quattro mesi lo portano da noi. La mamma si aspettava un miracolo come si pretende da noi che siamo considerati una specie di santuario. Dopo undici mesi Alessandro ha ripreso coscienza. È un caso eccezionale, perché di solito le riprese si hanno nel primissimo periodo, il contrario è improbabile. Può produrre l’effetto di incentivare le illusioni delle altre famiglie».

Un miracolo?

«Sì. Un caso eccezionale». 

Il valore scientifico del lavoro che si fa è la priorità assoluta, poi c’è sempre la speranza del miracolo. Ritorna il rapporto tra fede e scienza. Il confine è molto sottile.

«I miei genitori sono grossi credenti, io non sono un credente o sono molto poco credente per cui non posso che rispettare, anzi invidiare chi ha il dono della fede. Io non lo possiedo. Detto questo – e non lo scriva – ritengo che certamente una parte scientifica, clinica, avanzata il Sant’Anna lo sia. Questo cammina di pari passo con un moto parallelo che è quello della fede. Non è giusto rinunciarvi mai né rifiutarlo».

Non è una contraddizione con la sua dichiarazione di non credente?

«No. Ma non posso non prenderne atto». 

Ma come fa a dire che sono miracoli?

«Ci sono eventi eccezionali che probabilmente da un lato si configurano come miracoli e dall’altro come una serie di connessioni». 

Il vero miracolo forse è la fede stessa?

«Pensi a mia mamma. Prima aveva la condanna o il dono della malattia di Anna, che è stato un dono grandissimo del Signore, una prova, non so come definirla, per mia madre e la mia famiglia. Poi ha perso papà. Poi ha perso una sorella. Poi ha perso un figlio, che penso sia una delle cose peggiori possa succedere: che un figlio perdi una mamma è nelle cose, ma che un genitore perda un figlio è devastante. E allora? Io vedo la fede di questa donna, la serenità. Come fa? Come è possibile?».

Dove vive?

«Qui, con mia sorella che non sta bene e che si è salvata un paio di volte proprio perché sta qui, ma penso che sia arrivata… È tutta la struttura, la gestione che risente della presenza della signora Maria. La signora Maria è quella che la sera recita il Rosario con le mamme dei ricoverati, la signora Maria è quella che fa la merenda ai medici, la signora Maria è quella che prepara il caffè e fa il giro dei malati, la signora Maria è quella che fa i pacchi ai familiari dei pazienti. Questo ha un peso oggettivo, reale, pratico, non è una sensazione, nella nostra struttura. È una cosa difficilissima da descrivere».

Lei prima ha detto che sua sorella Annarella è un dono…

«Annarella con la sua sofferenza ha fatto nascere questo. Se non ci fosse stata lei, probabilmente non ci sarebbe questa struttura che opera in un ambito così difficile e così necessario. Al di là di questo, lei è un arricchimento continuo, una dolcezza infinita… Ecco, in questo luogo lei è la dolcezza infinita». 

E lei dice di non essere un credente?

«Sono convinto».

Una parola sul suo personale?

«È gente preparata e motivata che auguro a tutti di avere».

Ma quanto c’è di Calabria in tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento? Questa è un’isola o è Calabria?

«È tutta Calabria. Purtroppo siamo un popolo che ama piangersi addosso e non vede le cose splendide che possiede».

 

   

Eva Catizone

In altri tempi nemmeno tanto lontani, e non solo nel Sud, sarebbe finita all’indice. Ma i tempi sono cambiati e anche il Sud non è più lo stesso, lo dimostra la sua vicenda di donna libera e consapevole, incurante delle maldicenze e dei luoghi comuni e amante appassionata della vita. È questa sua libertà il tema della conversazione. I fatti clamorosi che l’hanno vista protagonista in Calabria e in Italia sono noti, e lei, Eva Catizone, pur avendo indubbiamente pagato un prezzo anche per quelle sue scelte personali coraggiose fino al limite della spregiudicatezza, rivendica il suo tempo ritrovato e guarda avanti. Di Nicola Adamo preferisce non parlare, è piuttosto concentrata sul futuro del loro figlio Filippo, che assomiglia al padre come una goccia d’acqua, né ama dire del suo nuovo amore, un giovane attore cosentino, anche perché è una storia privata che tale deve restare come tale probabilmente sarebbe rimasta quella con Adamo se non ci fossero stati innegabili risvolti pubblici.

La sua famiglia era radicata tra Catanzaro e Cosenza?

«Il nucleo originario era di Reggio, poi si trasferisce a Catanzaro, mio padre era catanzarese di nascita poi trasferito a Cosenza. In realtà i miei erano originari di Palermo dove c’è ancora una splendida cappella affrescata da Mattia Preti».

Suo padre che tipo era?

«Particolare, eccentrico, per i suoi tempi molto moderno. Fu tra i primi in Italia ad occuparsi di diagnosi prenatale. Era un medico per il quale veniva prima di tutto la medicina».

Prima della famiglia?

«È stato un padre molto presente, anche con le asprezze che i padri hanno. Io e lui eravamo molto uniti. Poi lui è venuto a mancare in un modo molto singolare, morì in un incidente pochi giorni dopo la mia elezione a sindaco. Sono quelle strane cose che segnano le persone».

Ha preso da lui il suo carattere libero?

«Era libero, molto libertino. Ho preso questo da lui, alcune frequentazioni mi vengono da lui, per esempio quella con Franco Piperno che era suo amico». 

Quindi, il rapporto con Piperno non le viene dal suo primo marito?

«Sono due cose separate. Il mio ex marito era ed è amico di Franco, però la mia frequentazione con lui risale agli anni Settanta. Ero una bambina e ricordo perfettamente le cene che venivano fatte a casa mia. Anzi credo che in quegli anni siamo stati oggetto anche delle attenzioni delle forze dell’ordine perché nell’agenda di Fiora Pirri, che in quel momento era la moglie di Piperno, furono trovati i nostri numeri di telefono: c’era sempre una camionetta sotto casa nostra. Mio padre era anche cugino di Riccardo Misasi. La sua era una famiglia fortemente democristiana, mentre la tradizione riformista era più rappresentata da mia madre, che è parente dei Carci. Quindi, la mia era una famiglia che da una parte parteggiava per Misasi, dall’altra per Mancini».

Dell’accusa a Piperno di essere un terrorista cosa pensava?

«Io mi stavo laureando, lui era appena rientrato dalla latitanza in Canada. Non poteva frequentare l’università. Infatti venne alla mia festa di laurea ma non poté assistere alla mia discussione della tesi». 

Scusi l’insistenza, che pensava di Piperno terrorista?

«Non c’ho mai creduto. Anche perché avevo con lui una frequentazione quotidiana, casalinga. E poi la quantità e il tenore delle accuse – una quarantina di omicidi, se non ricordo male – erano veramente paradossali». 

Lei faceva parte di quella generazione di Arcavacata che tante attenzioni attirò su di sé.

«Ero affascinata da quella generazione. Avevo deciso di laurearmi a Cosenza perché ero in controtendenza. Dalla Calabria si fuggiva, io invece pensavo, e penso, che se si vuole cambiare qualcosa bisogna rimanere in Calabria. Eravamo mosche bianche, il nostro ateneo era considerato il covo della sinistra antagonista, belligerante, insomma dei terroristi. Il Pci ci guardava con sospetto. C’era stata la perquisizione di Dalla Chiesa. Il clima era pesante. E c’era una distanza enorme dalla città come e più di adesso. Erano pochi i cosentini che frequentavano l’università, mio padre, Mancini…».

Pentita di essere rimasta qui?

«Assolutamente no. Ho fatto ottimi studi perché in un’università in cui purtroppo i professori erano di passaggio perché venivano a fare carriera, io fui fortunata perché ebbi ottimi docenti ed ebbi la possibilità di studiare all’estero, a Marsiglia e Parigi».

Giacomo Mancini, l’ha già citato un paio di volte. Un incontro importante?

«Fondamentale. Lo conoscevo da tanto perché c’erano legami, come spesso accade in questa città, tra le famiglie. La mamma del vecchio sindaco era amica di mia mamma. Facevamo dei bagni splendidi insieme a Sangineto. Poi all’improvviso venne questa sua idea di lanciarmi in politica. Avvenne qui in questa casa. Lui era stato eletto da qualche giorno, eravamo nel 1997, la seconda sindacatura. Nella prima, quella contrassegnata dalla vicenda giudiziaria, stavo nella segreteria di Franco Piperno, assessore alla cultura, ma durò poco perché Franco fu sospeso da Napolitano, allora ministro dell’interno». 

Torniamo al 1997.

«Sì, lui era stato appena eletto, questa casa aveva un uso pubblico perché sede della Fondazione Catizone, che poi da sindaco io ho sciolto, stavamo presentando un libro di Renato Nicolini. E lui mi disse che voleva coinvolgermi. Poi una mattina, ero a Corigliano, uscii per comprare i giornali e c’era una notizia con questa indiscrezione sul mio conto. Così iniziò».

Lei è stata molto a fianco di Mancini nei suoi ultimi anni. Che ricorda?

«Contrariamente all’immagine che se ne ha, era un personaggio con una carica umana pazzesca. Non mollava. Lo abbiamo visto in situazioni per lui molto pesanti, ma era un combattente, non si lasciava andare». 

Gli deve molto?

«Se io oggi ho un ruolo politico lo devo a lui perché lui ha intravisto in me non so che». 

L’aveva vista come sindaco?

«Lui mi aveva fatto diventare assessore ai fondi comunitari perché era affascinato dal fatto che io conoscevo le lingue, soprattutto il francese che era la lingua che parlava sua madre. Poi quando mi nominò assessore all’urbanistica mi disse per convincermi: uno che ha fatto l’assessore all’urbanistica può fare il sindaco».

Sindaco di Cosenza dopo Mancini. Una prima fase esaltante poi iniziarono le sue difficoltà. Ci fu un cambio di fase?

«Ci fu uno scontro tra modelli. Io difendevo l’autonomia municipale e la legge che dava grande potere ai sindaci. Invece si era entrati in una fase in cui grazie anche alla nuova legge elettorale si stava ridando potere ai partiti».

Ma quando incise la sua vicenda privata, l’annuncio che aspettava un figlio da Nicola Adamo?

«Penso che sia stata più utilizzata, strumentalizzata». 

Si disse che la sua caduta dipendeva anche da vendette personali?

«Sarebbe troppo riduttivo pensarlo».

Lei calcolò a cosa sarebbe andata incontro rivelando in un’intervista al “Quotidiano della Calabria” che aspettava un figlio?

«Quella fu una mia scelta. Ero sindaco, volli zittire tutte le piccole voci che ci sarebbero state e che si stavano già sollevando. Sa, questa è una città molto ipocrita come tutte le città di provincia. Pensai di doverlo fare perché accanto all’esperienza politica e all’incontro con Mancini mi stava capitando una delle cose più belle della mia vita e della vita di una donna: la maternità. Potendo spingerei le donne a fare figli. Oggi credo che c’è bisogno di più donne in politica ma anche che le donne indossino i panni delle donne».

Come ha vissuto il clamore di quei giorni?

«Era agosto, così mi dissero. Gli spazi del privato furono invasi. La fuga degli amici, i giornalisti che piombavano da tutte le parti. Era agosto…».

Rifarebbe quell’intervista?

«Sì, perché l’ho vissuta come un atto di trasparenza. Ero giovane, ero donna, ero separata, affrontavo uno stato particolare. Facile immaginare che sarebbe successo in una città del Sud, in Calabria».

Come racconterà a suo figlio Filippo questa storia?

«Che lui è una persona molto particolare perché è nato da una storia bellissima».

Poco dopo diessini e socialisti le voltarono le spalle. Solo coincidenza?

«Il sistema si era incartato, incancrenito. Loro erano rigidi sulle loro posizioni, io non volevo cedere. So bene che avrei potuto salvarmi, ma avrei dovuto sacrificare Franco Piperno, e non me la sentivo».

Si oppose ai partiti, ora si trova nel Pdm di Loiero, di cui sta per diventare leader regionale. Non è un partito?

«Non da oggi ho pensato che l’approdo fosse il Partito Democratico, come luogo di contaminazione di diverse culture, una grande opportunità che il paese ha di costruire non un nuovo partito ma un partito nuovo. E poi questo può essere un freno alla belligeranza interna di una sinistra rissosa. Il Pdm è un cantiere».

Suo padre, Mancini, Piperno, presenze importanti della sua vita. E il suo ex marito?

«Condivido con Antonio Schiavelli un rapporto splendido. So di avere in lui uno dei miei migliori amici. Antonio oltre ad essere un imprenditore molto bravo è una persona di rara intelligenza».

E Nicola Adamo?

«Non mi faccia parlare di Nicola. Non ne parlo mai, non ne parlò più. Quella è un’esperienza dimenticata che mi ha dato una cosa veramente bella: mio figlio».

Lei ama molto la vita. La si vede in giro di festa in festa.

«Sono un animale sociale. Mi piace stare con gli altri».

Vive da sola?

«Vivo qui con mio figlio e mio fratello».

In questo momento ha qualche storia importante?

«Su questo eviterei di rispondere».

Ha detto prima che la vitalità l’ha presa da suo padre. 

«Sì. Questa è una terra chiara nei colori. Penso ci siano anche una serie di pregiudizi sui calabresi, che sarebbero persone arretrate, musoni, con il senso tragico della vita. Bisognerebbe lavorare di più sui colori in chiaro, sul sorriso piuttosto che non sul pianto. I calabresi, e più in generale i meridionali, sono gente che si piange addosso».

Come si fa a sorridere davanti al quadro deprimente della quotidianità?

«Innanzitutto ci vuole un rinnovamento delle classi dirigenti. Occorre spalancare le finestre dei partiti alle nuove energie».

Ma non c’è troppo politica? Come fanno i partiti ad aprire sè stessi?

«Questo capita in società strutturalmente deboli. Ma da questa impasse bisogna pure uscire. Chi ha deciso di restare qui ha il dovere di farlo».

Torniamo alla sua tesi di laurea. La dedicò al suo scrittore francese preferito, Marcel Proust. Tempo perduto o tempo ritrovato?

«Proust mi ha insegnato che non c’è mai un tempo perduto. C’è un tempo perduto ma soprattutto c’è un tempo che viene ritrovato. E il migliore dei romanzi è l’ultimo, il settimo, nel quale improvvisamente ritrova tutto un pezzo della sua vita. Nessun tempo penso sia perduto, c’è un tempo che passa, forse troppo in fretta, poi anche il tempo che apparentemente è perduto viene ritrovato».

Alfredo Pirri

Nei testi che parlano di lui si legge: Alfredo Pirri nasce a Cosenza il 25 gennaio 1957, vive e lavora a Roma. Il legame con la Calabria inizia e finisce qui. Nel suo curriculum c’è tutto il mondo, mostre, installazioni, opere, libri di un calabrese che ha un posto di rilievo nell’arte moderna, ma, a parte una fugace apparizione nel 1994 a Cosenza, manca la sua terra. Sua moglie, Valentina Valentini, che ora insegna alla Sapienza di Roma, ha lavorato per anni all’Unical realizzando il progetto del teatro dell’università. Arte, teatro, cinema: Anna e Chiara, le due figlie, si sono già ritagliate uno spazio nel film “La tigre e la neve” di Roberto Benigni. Dietro ci sono radici, c’è storia, c’è ricerca, c’è politica, davanti, come si conviene ad un artista, ci sono le opere. Opere importanti come “Un segno nel Foro di Cesare” a Roma con i suoi specchi che reinventano i Fori Imperiali. 

Partiamo dai colori. Il rosa.

«Una via intermedia per arrivare al rosso.  O, meglio, un rosso un po’ sbiadito. Potrebbe, però essere, e la cosa comincia ad interessarmi di più, l’ombra del rosso, un colore che uso molto, ma mai direttamente, utilizzo di più la sua ombra che si riverbera su una superficie bianca. Il rosa è un colore che mi piace molto, perché è come se fosse un’emanazione luminosa del suo colore principale e ne stempera la violenza e l’aggressività».

Il nero.

«Con il nero ho un rapporto conflittuale. Non vesto, per esempio, nero, come invece capita molto nel mondo dell’arte… quasi una rinuncia a vestirsi e allora si veste di nero. L’unica cosa del nero che mi interessa è quando diventa il tratto di un disegno. Ma il disegno non è quasi mai veramente nero, molto più spesso è grigio e si avvicina al nero senza esserlo».

Come per il rosso, anche per il nero l’attrae un suo derivato?

«Potrebbe essere così anche se il nero notoriamente, essendo privo di luce, è un corpo scuro che produce un’ombra che gli equivale».

Un colore che non è un colore: bianco.

«Accogliente, rappresenta tutte le superfici destinate ad accogliere qualcosa, colori, altre rappresentazioni. È come un’abitazione, una casa accogliente dove tutti vorremmo abitare. E poi è interessante perché è una casa che cambia continuamente abitanti. Su un foglio di carta con una gomma si può cancellare un tratto di matita e allora esso ridiventa bianco, così uno schermo cinematografico una volta che si spegne il proiettore torna ad essere bianco. Una metafora dell’accoglienza».

Passiamo ai materiali. Legno.

«Potremmo fare un elenco enorme perché mi interessano tutti. Non credo che un materiale abbia un significato specifico in sé che l’arte sta lì a rilevare. Credo invece che i materiali siano qualcosa di malleabile che si piega alle nostre esigenze. Vado sempre alla ricerca di nuovi materiali. Mi piacciono perché danno sempre la possibilità di realizzare qualcosa che si ha in mente, ma il pensiero è qualcosa di fluido, non aderisce al materiale».

Quando si è accorto che il suo destino era quello di fare l’artista?

«Se è una questione di destino dovrei dire sempre. Però di fatto un po’ è così perché non ho mai pensato di poter fare qualcos’altro. Sono cresciuto in un ambiente favorevole, i miei genitori per esempio che non solo non hanno impedito, ma hanno ritenuto naturale che io facessi quello che faccio. Mio padre Franco è un pittore di paesaggi, di nature morte, di animali, di uccelli. In più c’è da dire che ho fatto il liceo artistico a Cosenza».

Che nasceva in quegli anni.

«È nato con la nostra generazione. Io sono del 1957, quando dovevo andare al liceo il liceo artistico non c’era a Cosenza. È nato ad anno scolastico praticamente già avviato da cinque-sei mesi mentre ognuno di noi era già iscritto ad altre scuole. Quindi, fare l’artista o fare degli studi d’arte per tutti quelli che si sono iscritti alle prime classi in quegli anni era il risultato di una scelta, di una consapevolezza molto profonda. E molti di noi hanno continuato a fare architettura o teatro o sono diventati critici d’arte».

Non è la prima persona che mi parla del liceo artistico di Cosenza. È singolare che in una città viva e colta come Cosenza sia nata con ritardo una scuola destinata ai cultori dell’arte. Non le pare?

«Beh, sì. D’altra parte Cosenza è una città con molte stranezze. Ricordo da ragazzino, quando ero studente delle scuole medie e si facevano le battaglie per avere un’università che oggi c’è. In effetti c’era un grande desiderio di una scuola come il liceo artistico. Poi ci hanno aiutato anche i professori che erano tutti giovanissimi, appena diplomati d’Accademia. E allora a parte la bravura, c’era un entusiasmo che legava tutti, allievi e professori, in una specie di grande comunità».

Quel periodo – stiamo parlando degli anni Settanta – era anche molto vitale.

«Vitale ma non solo. Era una vitalità molto spinta dalla politica perché ognuno di noi, io stesso, ha fatto politica da giovanissimo e militava nei gruppi politici e nei partiti».

Lei dove militava?

«Nel gruppo Malatesta della Federazione anarchica italiana».

Anarchia, arte. A Cosenza c’erano i situazionisti che in quel periodo rappresentavano un significativo punto di riferimento se si pensa al loro discorso sull’arte.

«Io militavo in un gruppo più formalizzato, però l’interesse più grande lo avevo proprio per i situazionisti che erano tutti più anziani di me. Arrivavano informazioni fresche dalla Francia, dall’estero, molti testi. L’interesse artistico si poteva legare ad una visione politica e sociale. Direi che l’idea di una politica estetica o di un’estetica che avesse uno sbocco politico era per me abbastanza importante».

Poi?

«Passando il tempo, pur rimanendo questo sfondo, la questione artistica ha sempre preso più prevalenza staccandosi da quella politica, e non solo, ma anche da un’estetica diffusa che oggi alimenta le tematiche artistiche più giovani».

Fino a quando resta a Cosenza?

«Inizio una serie di spostamenti. A Brera ho fatto gli esami di ammissione all’Accademia di belle arti. Poi mi sono spostato a Firenze finendo l’ultimo anno, da qui mi sono trasferito a Roma. Per un breve tempo sono ritornato a Cosenza per rioccuparmi in un certo senso di politica e di estetica rimettendo in piedi l’Arci che era scomparsa, poi sono ritornato di nuovo a Firenze, a Milano e definitivamente a Roma».

Non trovava pace.

«Tutto il periodo di studi ero alla ricerca di un’accademia ideale fino a quando non mi sono accorto che quest’accademia non esisteva e che l’unica accademia possibile è la frequentazione del mondo dell’arte e degli artisti».

Facciamo un passo indietro, al periodo dell’Arci a Cosenza. Come lo ricorda?

«Fu interessante. Abbiamo provato innanzitutto a costruire delle strutture perfino stabili, come il teatro dell’Acquario, alla cui nascita ho contribuito. Persone magari di Cosenza e che abitavano in giro si sono trovate a collaborare per mettere in piedi un’iniziativa culturale. Ricordo con enorme piacere Giampaolo Principe che è stato per noi un grandissimo amico ed era un cantante, un grande esperto di musica contemporanea, amico di John Cage e Silvano Bussotti, ed è stata anche una delle prime persone a sparire per via dell’Aids. Diciamo che prima il sequestro di Aldo Moro e poi l’arrivo dell’Aids hanno decisamente contribuito a mutare tutto il paesaggio culturale creando un clima di cupezza, di violenza, di aggressività, di tristezza, che prima non c’era. Tutto questo è accaduto anche a Cosenza oltre che nel resto del mondo».

Questa cupezza l’ha portata a lasciare l’impegno politico?

«È stata una scelta consapevole se si può dire, ma forse non c’è mai un momento in cui si sceglie. Ero alla ricerca di un mestiere ma non mi era assolutamente chiaro cosa fosse il mestiere dell’arte. Per esempio, a Milano ho fatto il grafico per due anni in situazioni formative molto particolari, a contatto con ambienti inimmaginabili. In uno studio disegnavo a mano il catalogo Vestro, oppure le prime pagine del giornale del Totip, “Il cavallo”. Erano tentativi che coniugavano l’arte con la grafica e con una certa socialità, ma tutto questo mi è venuto a noia molto presto».

Il piacere di disegnare completamente un giornale l’ha provato?

«L’abbiamo fatto un giornale mentre eravamo all’Accademia insieme a ex compagni di scuola, come il critico d’arte Francesca Alfano Miglietta, e Cesare Fullone. Il giornale si chiamava “Intervallo” e ha avuto anche un certo successo. Una bellissima rivista d’arte fatta a Cosenza, era distribuita gratuitamente e poi è diventata addirittura una piccola iniziativa editoriale, pubblicava contributi importanti, pensi che nel comitato di redazione c’era Filiberto Menna, che per me è stato più di un amico: anche il primo testo a una mia mostra personale è a firma sua».

Capisco che con i napoletani e i salernitani – Menna lo era – ha avuto proficui rapporti. Nel suo itinerario c’è una presenza importante alla Certosa di Padula organizzata da Achille Bonito Oliva.

«Sì, ma ancora prima. A Firenze ho raggiunto un altro compagno di classe, Giancarlo Cauteruccio, che allora aveva una compagnia teatrale che esiste tuttora, la Krypton, che mi aveva chiamato per fare delle scenografie: abbiamo fatto uno spettacolo, l’Eneide, con cui siamo andati in giro in tutto il mondo, compresa New York, dove eravamo insieme ad altre compagnie con cui eravamo fratelli di sangue come “Falso movimento” di Mario Martone, a proposito di napoletani, e “La gaia scienza” di Giorgio Barberio Corsetti».

Il teatro conta molto anche nel suo album di famiglia. Sua moglie ha promosso la nascita dei teatri universitari in Calabria. Cosentina anche lei?

«Sì, l’ho conosciuta proprio al teatro durante la prima dello spettacolo “L’Eneide” al Fabbricone a Prato».

Anche le sue figlie Anna e Chiara calcano le scene, hanno nel loro carnet due ruoli in un film di Benigni.

«A loro piace la danza e tutto il resto. Io guardo a loro con uno sguardo impegnato ma fino a un certo punto».

Con Roberto Benigni lei ormai ha un sodalizio artistico, le sue opere sono spesso parte integrante delle opere del regista.

«Più che altro è un amico».

Lui è un amico di molti cosentini. Penso al suo manager Lucio Presta.

«Roberto mi ha parlato dei suoi spettacoli a Cosenza. Credo che sia rimasto molto colpito, poi lui ha una grande abilità nell’imparare i dialetti per cui già è capace di parlare in dialetto. Conosce più parole calabresi di quante ne conosca io».

Lei che rapporto ha con la sua città?

«Vengo poco purtroppo, mi piacerebbe venire di più, tra l’altro a Cosenza abitano ancora mio padre e mia madre con i quali per fortuna mantengo ancora un rapporto se non altro tramite Valentina che li vede più di me. I rapporti con Cosenza sono legati soprattutto all’atmosfera, non ho più tanti amici come prima, per cui le poche volte che ci vengo alla fine mi accorgo di non incontrare quasi nessuno se non Massimo Celani. Però, mi piace molto soprattutto tornare nei bar che frequentavo, per esempio il Renzelli che è sempre stato un punto di riferimento per molti giovani extraparlamentari e giovani intellettuali in genere che venivano ad incontrarsi e ad ascoltare i discorsi, mezze prediche e mezzo insegnamento, delle persone più grandi».

L’ultima volta che è venuto a Cosenza?

«Un mesetto fa».

Impressioni?

«Una città dinamica, accadono anche molte cose, il problema è che queste cose non riescono a radicarsi, a mutare veramente il volto della città. Forse perché muta tanto in continuazione mentre invece è più importante che lasci il segno qualcuna delle cose che accadono, anche semplici come un locale che apre o una mostra. Penso a quella di Jannis Kounellis, una mostra tanto bella e tanto generosa che dovrebbe dare l’indicazione di quanto potrebbe essere vitale un luogo se ci fosse la volontà di farne qualcosa di veramente importante».

Quando lei è andato a Palazzo Arnone c’erano visitatori?

«No, però ci sono stati i custodi, gentilissimi, che mi hanno fatto entrare a orario praticamente scaduto. Anche se francamente io non ho mai visto una mostra con un custode che ti si appiccica alle costole e ti parla dicendo “questo è bello, questo è brutto”. È abbastanza curioso, facevano come a casa loro: da una parte un tratto di gentilezza e da un’altra il parlarti all’orecchio».

Che idea si è fatta della mostra?

«Molto forte. Conosco molto bene Kounellis personalmente, e penso che all’interno del suo percorso questa opera sia basilare e che i cosentini debbano non solo essere orgogliosi ma dovrebbero tornare a vederla più volte. Comunque spero che sia anche uno stimolo per chi gestisce lo spazio a rendere continuative queste iniziative. Quest’opera può essere importantissima nel percorso di Kounellis però se va via il suo lavoro e non rimane neanche quasi la memoria o la voglia di continuare, per Cosenza non voglio dire sia stata inutile però di fatto non è una cosa positiva».

La sera dell’inaugurazione Kounellis disse che è sua intenzione continuare a lavorare in Calabria. Sarebbe un peccato sciupare quest’opportunità. Non le pare?

«Purtroppo quello dello spreco è il vizio più grande del Meridione d’Italia, che di per sé è una terra sciupona e che non fa tesoro delle cose che custodisce. Anche questa, diciamo, ha una forma di bellezza, però oltre questa forma di bellezza c’è qualcosa di terribile perché tutto va perso».

Vedendo le sue opere ho pensato a due luoghi e mi sono chiesto che cosa avrebbe potuto ideare lei. Glielo chiedo. Piazza Plebiscito a Napoli che ogni fine anno diventa un luogo dell’arte mondiale, iniziò Mimmo Palladino con la “Montagna di sale”, lei ne farebbe una di specchi?

«No, no, montagna proprio no. Francamente credo che quella piazza si presti relativamente poco ad essere invasa da volumi, quindi la “Montagna di sale” di Palladino era bella perché era un volume però allo stesso tempo era una forma nitida, precisa al centro della piazza. Non farei sicuramente qualcosa di invasivo, mi manterrei in un livello mimetico, sottolineando qualcosa dello spazio, la sua circolarità. Era molto bello il lavoro di Rebecca Horn».

I teschi mimetizzati nel pavimento della piazza che richiamavano le “cape di morte” della tradizione culturale napoletana.

«Sì, perché diceva qualcosa della città e di quello spazio, però cercava anche di integrarsi perfettamente».

Spostiamoci di qualche centinaia di chilometri. Calabria, il parco archeologico di Scolacium. Gormley vi installò le sagome umane, lei?

«Sono affascinato da questi posti speciali. Da qualche anno, direi da Padula in poi, mi sto appunto interrogando sulla questione dei luoghi destinati al culto e alla storia. L’ultimo recentissimo lavoro l’ho realizzato nei Fori Imperiali qui a Roma, nel Foro di Cesare che è il luogo fondativo della città. Sono luoghi che da un artista pretendono un impegno ben più grande di quello di una galleria o di qualsiasi spazio all’aperto, perché sono innanzitutto luoghi di confronto. Ho visto tutte le mostre fatte a Scolacium, a me piacciono, penso che i curatori siano stati molto bravi».

Lei è richiesto da tutte le parti, dalla Calabria l’hanno chiamata?

«Mai. Solo esperienze remote».

Ci pensa mai a questo silenzio?

«Potrei rispondere con una battuta che fortunatamente ho altri impegni che mi tengono occupato, ma ci penso perché mi piacerebbe se non altro far vedere quello che faccio a mia madre e a mio padre che non hanno mai visto una mia mostra».

Se la chiamassero?

«Se ci fossero le condizioni per un lavoro ben fatto mi piacerebbe».

Una volta si pensava all’artista che stava nel suo studio, anche grande, tra tele, pennelli, colori, modelli, nature morte, oggi si immaginano officine meccaniche, vetrerie, falegnamerie, idraulici, fabbriche di plastica. I costi di un’opera ben fatta, come dice lei, sono da capogiro.

«È vero. Sto preparando adesso una pubblicazione sul lavoro ai Fori Imperiali, e mi sono accorto che le persone da ringraziare, anche di quelle che a titolo volontario hanno collaborato, sono talmente tante che è necessario fare una pagina. Il gigantismo ormai quasi affligge l’arte dei nostri tempi, ma anche nel passato con la statuaria classica probabilmente sarà stato così. Oggi sicuramente è aumentato. Ma a me continuano ad interessare ancora molto l’intimità dello studio, al quale dedico sempre tutte le mattine della settimana, e anche una certa solitudine che riguarda sia la progettazione sia la realizzazione di quanto più è possibile riesca a fare con le mie mani».

Resta il fatto che le grandi opere richiedono sforzi immani e committenza adeguata, soprattutto pubblica.

«Diciamo che in Italia più che farle si parla di grandi opere. I politici si comportano in una maniera strana, più da artisti che da politici, e si finisce con la barzelletta dell’artista».

Mica è sempre così?

«Succede anche dell’altro. Ho lavorato quasi un anno a Roma in una sala di rianimazione dell’ospedale Santo Spirito destinata alle persone in coma. È interessante perché stiamo parlando di un’opera che non vede quasi nessuno, in un posto dove è vietato l’ingresso. Una specie di diorama, che si svolge su tutto il lato superiore di questa grande stanza del risveglio, nella parte in cui il soffitto tocca le pareti. È posizionata in maniera tale da essere percepita immediatamente da una persona che sta in un letto e apre gli occhi per la prima volta. Si alternano fasce di piume bianche dipinte di rosso che provocano delle ombre colorate, come dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata, di rosa, e degli acquerelli che rappresentano fasce d’acqua che precipitano dall’alto verso il basso. È un’opera dedicata all’aria e all’acqua, al vento e all’acqua, sensazioni primarie percepite da una persona che torna alla vita e, immagino, anche da un neonato. Il primario, quando gli esposi la mia idea, mi disse che tutti i macchinari che si vedono in giro in quella sala servono in fondo a dare l’aria e l’acqua, ossigeno e umidità, a quei corpi per tenerli in vita».

Che cos’è l’arte per lei?

«È quello che cerco di fare tutti i giorni. L’arte per me, ma credo anche per qualsiasi artista, sia l’abitudine di creare un’immagine e attraverso quest’immagine sperare di contribuire alla felicità altrui».