Tempo fa si svolse una discussione su quale fosse il criterio più funzionale per ordinare i libri della propria biblioteca. Umberto Eco, Giorgio Bocca e altri si divisero sostenendo soluzioni diverse: per materie, in ordine alfabetico, addirittura per le misure dei volumi. Non ho chiesto a Saverio Strati quale sia il suo ordine, ma per due indimenticabili ore l’ho visto muoversi con sicurezza nella sua casa tappezzata di libri, al terzo piano di via Giotto 4 a Scandicci, e alzarsi ripetutamente per andare a prendere quello che gli serviva in quel passaggio del discorso. Credo che anche bendato saprebbe trovare quanto gli serve, volume dopo volume, ognuno consumato e reso familiare dall’uso, da ognuno uno spunto, una riflessione e tanta ricchezza.
È la sua ricchezza, l’unica, oltre la sua adorata moglie Hildegard, ma è un patrimonio che non gli dà più da vivere, neanche tutti i libri che ha scritto alleviano il suo disagio, perché ad un certo punto su di lui è caduto l’oblio e i suoi romanzi, almeno due, e i racconti sono rimasti nel cassetto. Da tre anni – ha scritto nella lettera allegata alla domanda di applicazione della legge Bacchelli – non presenta la dichiarazione dei redditi perché in casa sua non entra più alcun reddito. Il pudore lo ha portato a nascondere il più possibile la sua difficile condizione. D’altro canto nessuno si è occupato più di lui, e probabilmente se si fosse fatto un sondaggio in Calabria, anche ai massimi livelli, si sarebbe potuta avere la clamorosa conclusione che nella sua terra natale neanche sapevano dove fosse e se fosse ancora vivo. Poi una persona colta e sensibile come Vincenzo Ziccarelli, che ha continuato a frequentarlo con viaggi da Cosenza alla Toscana, ha avvertito che qualcosa non andava e ha lanciato l’allarme. Ora, con lo stesso pudore, il più grande scrittore vivente calabrese ammette di avere bisogno per sé e la sua compagna. Ha ottantacinque anni.
Piccolo, minuto, fragile, cita spesso Antonio Gramsci, e su questo richiamo profondo viene da riflettere per tanti motivi, di cui uno preme sottolineare a chi scrive. Quando parla – e l’intervista che segue ne è conferma – la fragilità scompare e affiora dal suo pensiero una forza illimitata che si trasforma nell’acciaio della speculazione intellettuale e dell’etica come costume di vita. Strati cita Gramsci, e il pensatore sardo, condannato dal Tribunale Speciale perché il suo cervello potesse fermarsi per vent’anni, ritorna con il suo corpo, minuto, fragile, perfino malformato, in questa stanza piena di libri per ricordarci che da quel corpo tanto disprezzato dal fascismo scaturirono l’elaborazione dei “Quaderni dal carcere” e le lettere ai figli de “L’albero del riccio” che non sarà mai troppo tardi andare a riprendere per farli conoscere alle nuove generazioni.

Come va?

«Non bene. Anche questa casa senza ascensore, con mia moglie che ha difficoltà a muoversi… Ma non posso lamentarmi perché mi è andata meglio di Kant. Lui, una mente luminosa, il più grande filosofo dopo Platone – dice Schopenhauer -, che visse ottant’anni e a settantotto anni era già rimbambito al punto che non sapeva come si scriveva il suo nome. Ma Schopenhauer non conosceva Vico che anticipa addirittura l’evoluzionismo di Darwin che, pur essendo cattolico, non si rendeva conto di non credere alla creazione del mondo fatta da Dio quando fondava l’antropologia tramite la “Scienza nuova».

Intanto, però, quando si parla di filosofia si pensa alla Germania.

«Purtroppo Vico non è preso in considerazione, anche se negli ultimi tempi nuovi studi lo stanno rivalutando, e qualcuno scopre con ritardo il saggio di Benedetto Croce su di lui. Vico è davvero un grande filosofo, anticipa tutto Hegel: i tedeschi non hanno inventato nulla, sicuramente non hanno superato i greci e nemmeno gli italiani».

Diceva di Kant e di lei che a ottantacinque anni si sente fortunato?

«Ancora ragiono, scrivo pensieri, saggi, etc. Appunto l’altro giorno ho scritto che Vico anticipa Darwin perché nella “Scienza nuova” avviene l’evoluzione dell’uomo dalla mazza alla freccia, dalla freccia alla spada e così via, e poi dal gorgoglio alla parola e dalla parola al pensiero, e prima ancora l’arte nelle grotte dove si riparava».

Vico, Croce: Napoli capitale del pensiero filosofico italiano?

«Ancora ne è la culla nonostante i rifiuti. Un filosofo tedesco ha detto che non sapeva che Hegel fosse nato a Napoli. E Croce non è che un discepolo di Hegel».

La Calabria, patria di Bernardino Telesio, di che cosa è capitale?

«Bacone definisce Telesio il primo uomo moderno. Telesio è molto importante perché innanzitutto troncò parte del pensiero di Aristotele quando disse che bisogna conoscere le cose e poi parlarne. Da lui nasce la metodologia scientifica dei nostri giorni. Il metodo di Galileo è che bisogna provare e riprovare finché non si ha certezza di una cosa. Galileo nasce per via di Telesio. E
poi c’è Campanella che accetta tutto il pensiero di Telesio si dichiara apertamente contro Aristotele. Quando Cartesio mette il dubbio come sistema della ricerca viene da Telesio anche senza conoscerlo».

Nel cinquecentenario di Telesio il comitato delle celebrazioni sta a Firenze…

«Non si poteva fare a Cosenza?».

C’è stato qualche ritardo nelle procedure burocratiche…

«La Calabria ha avuto grandi pensatori. Gioacchino da Fiore che parla dell’età del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Antonio Gramsci dice una cosa molto importan te, molto lusinghiera per i calabresi: un contadino calabrese è più filosofo di un filosofo che insegna in un’università tedesca. Ed è vero».

Perché?

«Quando io stavo in mezzo a loro, ho visto che i contadini avevano pensieri altissimi senza rendersene conto. Poi quando ho studiato e ero già scrittore ho pensato che molte frasi che si ritengono essere dei Vangeli sono invece del pensiero di Pitagora. La filosofia è nata in Calabria con Pitagora che si fermò a Crotone, il luogo giusto dove poteva esprimersi. Il pitagorismo è stato diffuso molto ai suoi tempi anche quando ci furono la rovina della Magna Grecia e l’arrivo dei romani, che erano barbari come gli americani di oggi. A Crotone sotto Pitagora c’era una grande università, la parola filosofia nasce lì. E c’erano dei medici straordinari che avevano già sezionato l’occhio e l’orecchio. Penso a Alcmeone. Un altro medico. che fu prigioniero di Dario, riuscì a curare la moglie di Dario di tumore, la operò e la salvò».

A Crotone non c’erano solo grandi me dici.

«Esattamente. Sotto Pitagora c’era lo studio della musica, la medicina a questi li velli, la matematica e poi il suo pensiero. Pitagora, i cui testi erano custoditi segretamente da Filolao, un crotoniate suo discepolo, e da Timeo di Locri, è in assoluto il primo che dice che al centro dell’universo sta il sole e non la terra. E quando Platone lascia Siracusa per andare a Taranto si ferma a Locri dove incontra, secondo me, Timeo, ne parla, se ne serve e scrive il suo grande dialogo».

Perché grande?

«Perché c’è l’anima intellettiva, l’anima sensitiva e l’anima generativa. Questo è Freud. Pitagora lo anticipa in questo dialogo di Platone. Filolao vende per poche mine i testi che vanno a finire nelle mani di Platone e poi in quelle di Aristotele, per cui da Pitagora si aprono due correnti di pensiero: quella del mondo delle idee di Platone e quella del mondo che pensa a sé stesso di Aristotele. Quindi, Platone e Aristotele discendono da Pitagora e questi anticipa il cristianesimo».

Dal pensiero di quel mondo, dunque, nascono tante cose che arrivano fino a noi?

«Licurgo di Sparta i menomati non li vuole, li butta dalla rupe. E qui siamo ad Hitler. I pitagorici accumulavano tutto e ognuno poi se ne serviva secondo i suoi bisogni, e questo è il comunismo. Dicono che noi siamo bravi in pittura, scultura, musica, e non in filosofia come i tedeschi. Non è vero, noi la filosofia la facciamo con l’architettura. Nei grandi palazzi del Rinascimento e del post-Rinascimento, abbiamo la struttura interna che è pensiero e la facciata esterna che è poesia. Siamo filosofi quando facciamo un ponte o costruiamo una strada».

Come è possibile che la Calabria da luogo del pensiero cambia fino a diventare luogo perduto al punto da far dire che la legione romana che torturò e crocifisse Gesù fosse formata da calabresi?

«Il dramma della Calabria, soprattutto dal Mille in poi e forse più avanti dal 1200- 1400 in poi, è avvenuto per via dei grandi feudatari che l’hanno abbandonata e sono andati a costruirsi i palazzi a Napoli per stare vicino al re. I grandi baroni venivano in Calabria per riscuotere. Se gira la Calabria non c’è un palazzo dei nobili, in Sicilia sì. Non ne avevano bisogno, qui venivano solo a prendersi i soldi della povera gente e dei contadini. Questi vivevano in ristrettezze, non avevano un signore che riuscisse a capire la loro intelligenza. I calabresi non sono stupidi, sono poveri, sono stati poveri di parole, stimoli, risorse, sollecitazioni fino all’altro ieri, ma la colpa è di questi signori che hanno abbandonato la Calabria. I Carafa, potentissimi, hanno avuto fabbriche a Napoli e non in Calabria».

Quindi, la vicinanza con Napoli è stata un danno per la Calabria?

«Era una colonia. La prima volta che in contrai Domenico Rea mi disse: voi pensate che le colpe sono di noi napoletani, in realtà sono vostre. Amaro destino dei calabresi. E dire che il nome Italia nasce a Reggio Calabria. La leggenda vuole che arrivò Ercole con la sua mandria di buoi e mucche, e un vitello tentò di attraversare lo Stretto per arrivare di là in Sicilia, e questo nel dialetto di allora si chiamava regum, cioè Reggio, andare avanti. Quella terra, Pellaro e dintorni, era una pianura che si chiamava vitalia, cioè terra dei vitelli. Se da vitalia togli la v…. Quella terra fu chiamata così fino alla Lucania e solo dopo si estese a tutta la penisola».

Negli anni Cinquanta con la riforma agraria furono distribuite le terre ai contadini per risarcire le colpe storiche del baronato verso i calabresi. Sessant’anni dopo, in un quadro di arretramento della questione meridionale, la Calabria è ancora più periferica e marginale. Come mai?

«Ai miei tempi era peggio».

In questi giorni in Calabria si parla molto di lei. Lo ritiene un risarcimento dell’oblio che l’ha circondata?

«Nei miei confronti non sono stati bravi. Quando uscivano i libri, che sono tradotti in Inghilterra, Germania, Cecoslovacchia e tanti altri paesi, non li leggevano. Fecero lo stesso con Alvaro. Trecento-quattrocento copie. E io trattavo problemi sociali e non poesia, anche se puoi fare poesia rendendo il personaggio vivo come se l’autore non esistesse. Cechov, il mio maestro, dice che lo scrittore è portatore di destini. È vero. Io ho scritto 160-170 racconti, tredici romanzi e altre cose, il diario di tremila pagine, avrò detto delle cose? Non sono un filosofo, non sono, quindi, cose sistematiche, sono cose che vengono da dentro, che pesano e c’è la necessità di raccontare. In quel momento forse nasce la poesia, la spontaneità. Gli scrittori di oggi sono l’espressione della televisione, la vita va vissuta».

E lei l’ha vissuta.

«Da contadino e da muratore. A diciotto anni avevo il metro in tasca e davo consigli anche agli altri. Ci sono case popolari ad Africo Vecchio costruite dalle mie mani. La vita la conosco, non ho bisogno di libri per scrivere. L’ho sofferta, la vita, l’ho vissuta come nessun altro forse degli scrittori italiani. Verga, scrittore più grande di Manzoni, quando ha scritto i Malavoglia, ha avuto bisogno di qualcuno che gli mandasse i proverbi. Io li conosco tutti. I giovani di oggi non li conoscono. E da lì viene fuori la mitologia greca».

Una Calabria, dunque, disattenta?

«Ora non esistono ppiù le nonne che raccontano le favole. Se non le avessi registrate sarebbero state perse. E sono favole che rispecchiano la cultura, l’essere dei calabresi. Noi sulla costa ionica siamo figli della Grecia, la tradizione e la saggezza dei greci sono dentro di noi. La mia scrittura riflette la struttura della lingua greca e anche latina perché i latini mettevano il verbo alla fine della frase. Sono contento, sono felice di essere uno che continua questa tradizione. Infatti ho detto che io è da tremila anni che vivo perché raccolgo le tradizioni nostre che rispecchiano quelle greche. In questi giorni sto rileggendo – e non so quante volte l’ho fatto – l’Odissea. Quando Ulisse arriva dai Feaci, che pare sia Squillace – uno studioso tedesco disse un altro paese ma è sicuramente nella zona – Omero ci presenta la regina dei Feaci che fila accanto al focolare accesso: mia madre filava accanto al focolare acceso d’inverno. Quando Nausica deve andare a lavare i panni, è uguale alle ragazze della mia età che andavano a lavare i panni nel fiume. Sotto Licurgo, si viveva da schiavi in case dove in un angolo c’era un pagliericcio, ma cinquant’anni fa non accadeva che si vivesse così nella mia Africo? Cos’è cambiato in tremila anni?»

Questo attiene al tema dell’identità di una terra, la Calabria, che lei incarna con la sua opera. Quello che si sta facendo ora per lei ha lo scopo non secondario di far recuperare l’idea dell’identità alla Calabria.

«È vergognoso che ora che tutti vanno a scuola, che molti si laureano, non sanno di conoscersi. Quando ho vinto il Campiello mi hanno fatto girare tutta l’Italia e sono andato in Calabria. Dicevo ai ragazzi: se volete conoscervi, se volete sapere chi siete dovete leggere gli scrittori, Alvaro, Semi- nara, anche me, imparate e poi vi regolate su quello che dovete fare. Capisco ora che non lo capivano, non lo capivano i professori».

Alla luce dell’attenzione di questi giorni attorno alla sua persona, che cosa si sente di dire ai calabresi?

«Facciano quello che devono fare. Io penso che tra cinquant’anni, quando uscirà il mio diario, i calabresi capiranno chi sono e il potenziale che non sanno di avere. Rive- lare la Calabria a se stessa. Io mi incavolo quando dicono scrittore europeo. Che scrittore europeo! Io sono scrittore mediterraneo. La cultura è nata nel Mediterraneo, dall’Egitto, dagli ebrei, dai greci, dai romani. Se legge Hegel ci trova tutto Platone. Il cristianesimo – dice Nietzsche – non è altro che un platonesimo universale. E Hegel dice che il cristianesimo è pregno di romanità. Ed è vero. La cosa stupefacente è la battaglia di Zama. Per una cosa da niente Roma poté diventare quello che diventò. Racconta Polibio che quando i due eserciti, quello di Annibale e quello di Scipione, uno davanti all’altro, in prima fila c’erano gli elefanti di Annibale e dall’altra parte c’erano i romani. Quando le trombe romane suonarono gli elefanti si spaventarono e invece di andare contro i romani si riversarono contro i cartaginesi, per cui i romani vinsero e vinse Roma. Per una cosa da niente, altrimenti non ci sarebbe stato l’impero romano e non ci sarebbe stato il cristianesimo. Di- cono che la storia non si fa con i se, invece in certe situazioni si fa con i se».

Lei è uno scrittore e non fa che parlare di filosofia. Me lo spiega?

«Le ho ricordato prima la frase di Gramsci. Siamo contadini portati alla riflessione e, quindi, alla speculazione. Ho sentito contadini parlare come dei filosofi. Mi chiedo: da dove l’hanno preso? Da Pitagora che era del Sud. In Virgilio c’era il cristianesimo. E Marco Aurelio: in lui c’è già il socialismo quando dice che bisogna dare secondo i meriti mentre i comunisti dicono secondo i loro bisogni».

A quando risale la sua ultima visita in Calabria?

«Molti anni fa, cinque-sei anni fa. Una volta andavo tutti i mesi perché sono stato per quattro anni rettore dell’università della terza età a Reggio Calabria e facevo delle conversazioni».

Ha nostalgia della Calabria?

«No, perché ce l’ho dentro, me la porto dietro tutta intiera. Io non capisco niente di questa gente qua perché non son nato qui. La mia anima si è formata laggiù. Nel mio ultimo libro mi sono chiesto sotto quale cielo io vivo. C’è sempre il cielo di Calabria su di me. Nessuna nostalgia. Sono stato diversi anni in Svizzera perché mia moglie è di lì. La nostalgia l’ho avuta per Messina perché sono stato lì per tre anni ed anche per Catanzaro dove sono stato tre anni per preparare la mia maturità dall’esterno».

Come andò quell’esame?

«Mi sono presentato da esterno con la quinta elementare, facendo otto anni in una sola volta. Però, all’esame sono andato bene. Quando c’erano le prove scritte, io ero sempre solo mentre gli altri scherzavano come avviene tra amici. Al Gallupi non conoscevo nessuno. Ricordo com’ero te- so».

Studiava da matto?

«Da pazzo. Mal nutrito. Mangiavo in una mensa tenuta da comunisti, ora non mangerei quel cibo ma allora sì. Al compito di italiano – ricordo la traccia “La donna nella letteratura” – avevo avuto la fortuna di aver letto un saggio di Benedetto Croce qualche giorno avanti e feci un bel tema. Fui il primo ad alzarmi per andar via, e il professore mi fermò: ma hai finito? e lo consegni così? non lo vuoi rivedere? Rifiutai, e lui disse: non ho capito se hai fatto un capolavoro o una schifezza. Poi dissero che era un capolavoro».

E come le era venuto in mente di leggere Croce?

«Davanti al tribunale di Catanzaro c’era una bancarella. Mi colpirono tre libri: la storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, Delito e castigo di Dostoievskji e Croce. Iniziai a leggere De Sanctis e capii che capivo e che mi piaceva. Così con Dostoevskij e con Benedetto Croce. Quando citavo ai professori qualche frase di De Sanctis mi dicevano di stare attento perché sapevano che ero un ex operaio e De Sanctis era difficile. Avevano ragione loro perché di volta in volta che l’ho letto ho capito di trovarmi di fronte ad un gigante».

A proposito di letteratura russa, che lei dice di prediligere. mi fa una classifica delle sue preferenze?

«Secondo Nabokov, Dostoevskij è uno Shakespeare fallito. I più grandi sono Gogol, Cechov e Tolstoi, ma il più grande di tutti senza se e senza ma è Tolstoi».

Prima ha detto del cielo di Calabria, non le manca il mare?

«Mi mancava. Quando sono venuto a Firenze an davo su Ponte Vecchio e guardavo il fiume che scorreva giù e immaginavo il mare. Mi veniva da piangere perché il mio
paese è in collina e il mare davanti, quattro chilometri di distanza. Tutta la vita da bambino fino a ventuno anni ho avuto questo mare davanti. Qui mi sentivo prigioniero delle case».

E ora?

«Ora non mi interessa».

Che si aspetta dai calabresi?

«Che i miei libri fossero nelle librerie, dove ora non ci sono, e che li comprassero».