In quella Fiat 850 con Pio La Torre
Castellammare, bandiere ammainate
In un giorno dominato dalla paura collettiva della guerra gli stabiesi, residenti e non,
sono costretti a vedersela con i guai della loro città. Amarezza e dolore i sentimenti
prevalenti per lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche.
E soffrono non di meno gli abitanti di Torre Annunziata e San Giuseppe Vesuviano,
nei quali arriva il commissario prefettizio. Un’onta pesante per tutti e che a
Castellammare connoterà nel tempo la storia un tempo gloriosa della città passata
nel volgere di qualche decennio dai fasti alle miserie. È evidente che non si è arrivati
a questo punto per un evento improvviso ma a conclusione di una serie di fattori di
decadenza civile e morale. Nessuno potrà gioirne perché un po’ tutti, chi con la
condivisione, chi con una debole opposizione, chi candidamente stava alla finestra
come se la sorte della propria città non lo riguardasse, ne portano in quote
ovviamente diverse la responsabilità.
Si vedrà meglio dalla lettura delle carte che cosa sia realmente accaduto a
Castellammare, quante e quali siano state le contaminazioni, le pressioni, gli accordi,
gli affari e chi e in quali sedi ne dovrà rispondere. La sintesi è che è stata scritta una
brutta pagina non solo della massima istituzione locale ma soprattutto della politica
perché è il suo decadimento che ha reso fragili le difese etiche, affievolito la
partecipazione e abbassato il livello del confronto fino alla compromissione
dell’interesse collettivo. La città ormai viveva di memoria del suo passato. Un tempo
lo scontro era stato anche durissimo, ma i partiti non erano un territorio riservato a
pochi come dimostravano le aspre contese che appassionavano e dividevano la città
ma la preservavano dalle ingerenze pericolose. Lo spartiacque era abbastanza netto
e potevi essere democristiano o comunista, liberale o socialista, repubblicano o
fascista (non ci si scandalizzi), ma da una parte c’era la città legale dall’altra il suo
contrario. Poi…
Con il terremoto del 1980 e i soldi della Ricostruzione avvenne la svolta decisiva. La
guerra di camorra lo testimoniò con le croci che riempirono ampi spazi del cimitero,
ma soprattutto fu evidente che i clan non vollero più stare fuori dalla porta. Certo,
dopo la storia non è stata lineare, Castellammare ha avuto buoni amministratori e
altri meno. Intanto cambiavano storia e geografia, lo Stato non garantiva più
l’apparato industriale e neanche le terme. Risultato: crisi doppia crisi, assenza di
un’alternativa percorribile, neanche il risanamento del Centro Antico da cui la città
sarebbe potuta ripartire. Addirittura con le Terme ormai fallite si continuava ad
assumere personale che non aveva nulla di cui occuparsi. Sullo sfondo la grande
partita del destino delle aree industriali della zona nord e gli appetiti su via De
Gasperi oggetto, tanto per cambiare, anche di inchieste giudiziarie. Ciliegina sulla
torta consigli comunali sciolti davanti al notaio, addirittura un paio di omicidi di
consiglieri comunali.
La crisi è diventata irreversibile da quando con i nuovi sistemi elettorali si vince
avendo più liste in una coalizione. A momenti c’erano più candidati che elettori.
Sulla carta questa poteva sembrare una buona occasione per allargare la
partecipazione ma invece si è solo abbassata la qualità della politica. E bastava
seguire da vicino una campagna elettorale per capire che cosa accadeva nel
“sottosuolo”. Anni fa chi scrive, sollecitato da un gruppo di stabiesi di antica
immacolatezza, si fece convincere a candidarsi. Il risultato era scontato e non fu
smentito dalle urne. Molti episodi da raccontare ma inutile tediare il lettore, solo
uno abbastanza emblematico. Una ventina di giorni prima del giorno del voto ci
recammo in un quartiere popolare nella zona di via De Gasperi. Bussammo a tutte le
porte di quei palazzi senza ascensori. Ci aprivano con il sorriso, si parlava sulla soglia,
molti ci facevano entrare e accomodare, discutevamo e ci offrivano il caffè.
Tornammo in quei palazzi e bussammo di nuovo nell’ultima settimana prima del
voto. Aprirono sì e no quattro cinque signore, che sbrigativamente, e non tutte,
presero il volantino e chiusero la porta. Che cosa era successo? Me lo spiegò un
vecchio commerciante della città: “Negli ultimi giorni sono scesi in campo i pezzi da
novanta”. Andò come diceva lui anche nel rione che era stato fino a qualche
decennio prima teatro di discussione e partecipazione.
A Castellammare molti si stanno chiedendo da dove riprendere un cammino
virtuoso. L’impresa è molto complicata. Lo Stato, anche con lo scioglimento del
consiglio comunale, interviene quasi sempre a cose fatte, sta ai cittadini trovare la
strada e imboccarla liberandosi dei lacci della nostalgia e sfruttando con equilibrio e
rispetto lo straordinario patrimonio ambientale e culturale che ancora si ritrovano. E
sarà dura a Torre Annunziata che, attaccata a Castellammare, vede anch’essa
lacerata la sua bandiera. Forse è tempo di farne di nuove.
*Articolo pubblicato il 25 febbraio 2022 sul Corriere del Mezzogiorno
Padre Pio, il libro visto da Franco Laratta
L’arroganza di far tacere le ambulanze
Chi scrive convive da tempo con la dolente sinfonia delle sirene. Affacciandosi su una strada che collega i maggiori ospedali di Napoli e del Sud il noto e ormai familiare suono segnala il passaggio, spesso faticoso, delle ambulanze con il loro carico di sofferenza e di speranza. In tempi normali. Da un anno, capirete, la musica è cambiata, naturalmente d’intensità e durata. L’orecchio vigile si è abituato a intuire l’andamento della pandemia. In certi giorni e in certe ore non occorrono le statistiche per capire che non va bene. La pena è grande soprattutto quando, ancora nel buio che non cede alla luce, il suono fa pensare a chi è dentro quel veicolo, in primo luogo il paziente, che forse sta per intraprendere l’ultimo doloroso viaggio e, con la fame di aria che lo angustia, ipotizza questo lugubre scenario senza neanche il conforto di una moglie o di un figlio, ma anche agli altri viaggiatori che, per quanto allenati per professione, faticano a nascondere la solidarietà e anche la preoccupazione per il contagio.
Chi scrive farebbe a meno di questa colonna sonora e potrebbe tranquillamente trasferirsi in quartieri e strade meno… rumorose. Ma sa che si è parte di una comunità, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ed è grato a un paese che ha tra i suoi comandamenti lo stato sociale, la cura della salute, l’assistenza ai più fragili e deboli, ai malati di ogni ceto e condizione, e la prevenzione delle malattie. Pur con tutti gli errori, i ritardi, le storture, le intromissioni affaristiche, deprecabili e intollerabili ma che non ledono il principio su cui si fonda la sanità pubblica. E quelle sirene suonano le note di questa religione civile. Meglio non sentirle, soprattutto perché si spera che non ce ne sia la necessità, ma ci sono e siano benedette.
Ora, come si fa a digerire l’oscena provocazione di quegli scooter che minacciosamente gironzolano, come sentinelle della quiete camorristica, attorno alle ambulanze! Questo cancro che vive intorno e insieme a noi, con la sua metastasi devastante, ce ne fa vedere di tutti i colori. L’elenco è lungo ed è a tutti noto. Spazi pubblici occupati e inviolabili, stese, spaccio, pizzo, guerre tra i clan e tutto il vocabolario della sopraffazione spicciola e organizzata. L’ostentazione del potere è emblematica in murales e altarini che, trasformando giovani delinquenti in eroi, condannano questi per la seconda volta: non solo per essere stati allevati, incolpevoli, in un ambiente che non gli offriva molte scelte, ma anche per assegnargli da morti un marchio atroce e indelebile. E tralasciamo l’altra faccia della medaglia: lo stucchevole spettacolo delle autorità, dal ministro al magistrato e al prefetto, impotenti a imporre il ripristino del decoro prima ancora che della legalità a un Comune che scarica sui condomini il cerino acceso della responsabilità di rimuoverli. Tralasciamo? Si fa per dire.
Ma questa contro le sirene è una performance che va oltre. Perfino peggio delle violenze ricorrenti negli ospedali da parte di parenti contro medici, infermieri e dipendenti sanitari, perché queste, pur nella loro odiosa manifestazione, potrebbero… ripetiamo, potrebbero avere una spiegazione vuoi per una malintesa cattiva assistenza vuoi per comportamenti ritenuti inadeguati. Le sirene che danno fastidio sono un gradino in più in questa escalation. E, mentre rappresentano l’ostentazione di un potere supremo, sono anche autolesioniste perché un intralcio, che sia quello di strade invase da auto selvaggiamente parcheggiate o di un’azione per silenziare le ambulanze, potrebbe eventualmente ritardare l’assistenza anche alle famiglie dei camorristi. O in quel caso si puniranno gli autisti delle ambulanze perché non si sono fatti sentire a sufficienza? Si sa, prepotenza e stupidità vanno a nozze.
*Articolo pubblicato il 3 febbraio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno
Piazza Spartaco, cento anni fa la strage
Ci sono date che segnano la storia e ci sono luoghi in cui eventi significativi assumono valenza che supera i propri confini, come Castellammare dove in tempi non lontanissimi anche un’elezione locale poteva indicare una tendenza nazionale tant’è che in qualche partito si analizzavano con attenzione i dati per capire dove stesse andando il Paese. Ora accade che si debbano celebrare a distanza di un giorno ben due centenari: la nascita del Pci che il 21 gennaio 1921 si scindeva dal Psi e, il giorno prima, i fatti di Piazza Spartaco, vale a dire l’assalto dei fascisti provenienti da tutta la provincia al Comune amministrato da qualche mese dai socialisti. Fu, questo, l’episodio meridionale che faceva il paio con quello avvenuto due mesi prima a Bologna dove la neonata giunta di sinistra era stata battezzata con scontri, morti e l’assalto al Municipio sempre da parte dei fascisti.
A Castellammare il giorno dopo la strage, mentre era ancora in corso la caccia a quelli che avevano difeso Palazzo Farnese, fioccheranno le adesioni al partito che in quelle ore vedeva la luce nel teatro San Marco di Livorno. Chi coniò l’appellativo “Stalingrado del Sud” evidentemente pensava a questi trascorsi. Che ora si riassumono nella perfetta sincronia dell’anniversario del Pci e di quello degli scontri di Piazza Spartaco.
Antonio Barone, il compianto professore di lettere del liceo classico e poi convinto dall’autore di questo articolo a divenire lo storico del movimento operaio stabiese, ha ricostruito quelle vicende non edulcorando “gli errori, le ingenuità, le mosse affrettate”, si direbbe “infantili” secondo la lettura leniniana, che l’amministrazione socialista compì nei primi passi della sua attività, soprattutto in materia di politica sociale, che aveva allarmato la piccola e media borghesia locale, soprattutto i “bottegai”. Ma la delibera che, come un provvidenziale pretesto, provocò la reazione, aveva essenzialmente un valore simbolico: cambiare il nome di piazza Municipio, che fino a quel momento non ne aveva, in piazza Spartaco. Il riferimento era alla lega di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht intitolata allo schiavo romano, emblema del coraggio proletario. Il consiglio comunale votò il provvedimento il 18 gennaio, in due giorni i fascisti di Napoli e provincia organizzarono una marcia su Castellammare con l’obiettivo manifesto di arrivare davanti al Municipio e cancellare con qualsiasi mezzo l’onta.
Come una tragedia annunciata gli eventi si susseguirono in una giornata campale. Mentre il corteo dei fascisti proveniva dal cantiere navale, una folla di socialisti era davanti al Municipio ed altri erano all’interno. Lo scontro sarebbe stato inevitabile se polizia e carabinieri non avessero impedito il contatto, ma ciò non avvenne. Volarono oggetti, si verificarono sfondamenti, a nulla valse il tentativo di evitare che accadesse il peggio da parte del vicesindaco Pasquale Cecchi (sarà il primo sindaco comunista venticinque anni dopo) sceso da Palazzo Farnese.
«Due denotazioni – scrive Barone – lacerano l’aria. Il giovane maresciallo dei carabinieri, Clemente Carlino, si accascia a terra in una pozza di sangue, fulminato da un colpo alla fronte». Il seguito fu una vera e propria guerra con il Municipio che diventò un Forte Apache, in una confusione non più governabile. Il bilancio finale sarà di cinque morti (anche tre operai) oltre il carabiniere Carlino e di oltre cento feriti.
I socialisti, c’era anche il nonno di chi scrive, resistettero dentro il municipio fino alle 18, quando, dopo l’arrivo di rinforzi di cinquanta carabinieri e cinquanta guardie regie da Napoli, decisero la resa. Qualcuno riuscì a dileguarsi mentre si procedeva all’arresto di 150 persone. Fermi e arresti proseguirono nelle strade della città mentre veniva invasa la Camera del Lavoro, i cui dirigenti riuscirono a indire uno sciopero generale per il giorno dopo. Barone conclude così la cronaca della giornata: «Verso l’una di notte terminano i trasferimenti degli arrestati verso il carcere locale, mentre risuonano sul selciato i passi dei soldati in pattugliamento, in un’atmosfera di desolazione resa ancora più triste dal freddo e dalla pioggia che continua a cadere imperterrita senza riuscire a cancellare in piazza Spartaco le macchie di sangue di coloro che – come ricorderà tanti anni dopo l’indimenticabile compagno Luigi Di Martino – col martirio semplice, ma fulgido di gloria, diedero l’esempio di quanto amarono la libertà e i diritti del popolo». Nel processo, che si svolse nel febbraio 1922, tutti gli imputati furono assolti.
Si è detto degli errori “infantili”, ma quel consiglio comunale era stato liberamente eletto dai cittadini e democraticamente aveva approvato quella delibera che era nelle sue prerogative. Pur tuttavia le spiegazioni storiche sono più complesse come sottolineò Giorgio Amendola ricordando che il movimento operaio era, nelle sue varie componenti, impreparato a comprendere il fenomeno fascista e che la divisione nella sinistra era prevalente e fu decisiva per l’ascesa di Mussolini. Basti pensare alle assenti o tiepide reazioni ai fatti stabiesi. Il “Soviet”, il giornale del napoletano Bordiga, fresco di nomina a primo segretario del Partito Comunista Italiano, solo quindici giorni dopo vi dedicherà un articolo per scrivere: «Il Comune è ritornato alla borghesia: vi è il commissario prefettizio, il quale ha ripreso la pratica dei favori, delle protezioni, delle clientele. Bene, bene, bene! I lavoratori guardano e giudicano». Sarà invece una settimana dopo l’”Ordine nuovo” di Gramsci ad assegnare a Castellammare il ruolo nazionale più volte riconosciutole: «Senza esagerazione possiamo affermare che il movimento sindacale e politico stabiese è il migliore della Provincia e non indegno di essere ricordato affianco ai vecchi di classe italiana».
Ma c’è anche un’altra storia, molto italiana anche questa. Dopo l’assalto piazza Spartaco ritornò ad essere piazza Municipio. Nel dopoguerra una giunta di sinistra la intitolò nuovamente a Spartaco, un nome che non era più soltanto il modo per ricordare lo schiavo e la sua rivolta ma anche l’eccidio di quel lontano giorno. Durò non molto perché un’amministrazione democristiana, con un colpo di astuzia raffinata, cambiò di nuovo il nome chiamandola piazza Giovanni XXIII. E anni ancora dopo una nuova giunta di sinistra, non potendo ferire i sentimenti popolari verso il “papa buono”, denominò piazza Spartaco un’altra piazza della città. Ma gli stabiesi, più furbi di tutti, generalmente chiamano il luogo simbolo della loro città piazza Municipio.
E per chiudere una terza nota molto personale. Quando si inaugurò al Corso Vittorio Emanuele la nuova sezione del Pci non fu difficile convincere il pittore stabiese, Antonio Gargiulo, a realizzare un affresco nel salone delle riunioni che ricordasse quel pezzo straordinario di storia cittadina e italiana. Ha resistito, la sua opera, a molti cambi di denominazione, questa volta del partito e non di una piazza, e sta ancora là. Non sapendo come andrà a finire non sarebbe inopportuno che si ponesse un vincolo a quel dipinto anche perché la politica è una cosa e la storia un’altra.
*Articolo pubblicato il 19 gennaio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno
Per Ugo invece del murale meglio la memoria privata
Da anni nel portafogli di mia moglie c’è la foto di un ragazzo. Si chiamava Marco Altomare, aveva diciassette anni, faceva il rapinatore ma la fedina penale era ancora pulita, i carabinieri lo inseguirono e lo uccisero in via Vicinale Piscinola mentre scappava insieme a un complice a bordo di Bmw rubata. Era stato un suo studente alla “Carlo Levi” di Scampia. Lo conoscevano bene le mie figlie essendo andate più volte in quella scuola media in occasione delle innumerevoli iniziative didattiche che i docenti organizzavano. Ed anche io posso dire di conoscerlo perché a casa mia se ne parlava spesso mentre si pranzava per decantarne l’intelligenza e gli sforzi che si facevano per liberare lui e altri suoi coetanei dai rischi del mondo di fuori. La sua morte fu un lutto familiare e mi toccò rincuorare più volte mia moglie che riteneva quel tragico epilogo anche un fallimento della sua missione educatrice. Ma, le dicevo, si sbagliava perché non solo la scuola, non solo la famiglia, non solo la società, non solo lo stato, ma solo lo sforzo corale di tutti questi soggetti poteva sradicare il male che naturalmente rischiava di infettare tanti ragazzi innocenti.
Il murale di Ugo ai Quartieri Spagnoli mi ha fatto ricordare Marco e sollecitato una domanda: poteva avere anche lui analogo tributo pubblico? E che cosa avrei pensato? O, meglio, mi sarei indignato come ho fatto ora? Vedere il mondo solo in bianco e nero non è quasi mai, se non mai, il metodo giusto di valutare, per cui anche in questo tormentato caso prudenza e ragionamento sono necessari. Si parla per Ugo come per Marco di ragazzi che sono in ogni caso vittime, perché prima ancora di accertare se ci sia stato un eccesso da parte dei tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica, cosa che va fatta con rigore come è necessario in un paese in cui il diritto è sacro, sappiamo bene che colpe certe ricadono sul contesto familiare, ambientale, sociale in cui sono cresciuti. Dico banalità ma non c’è nulla di più vero e spesso tragico della banalità.
Dunque, non era nel Dna di Ugo e Marco diventare rapinatori, considerare la prepotenza e la violenza valori, immaginare il proprio futuro di piccoli o grandi boss agiati e rispettati, come non è merito del Dna essere persone perbene, morigerate e educate bensì di chi aiuta a vivere e crescere con i valori corrispondenti. Pertanto ricordare con rispetto i caduti di una guerra nella quale giovanissime vite sono state spinte si può dire da quando sono nate e poi alimentate con il latte dell’illegalità, dell’abuso e del reato, è un modo non solo per restare umani ma anche per chiedersi e tentare di capire il perché.
L’immagine di quel ragazzo su un muro si presta a questa sola lettura? Se così fosse resti lì. Ma, decontestualizzata, essa diventa, se non da subito, nel tempo il simbolo di un sacrificio, di un eroe, di un mito, di un esempio. Ci sono, e ci devono essere, ben altri modi per dimostrare che quella morte non possa essere archiviata come un incidente di percorso, ed è troppo facile per tutti lasciare che quel volto assolva da responsabilità collettive. Per capirci io su quella parete disegnerei il viso sorridente di Giancarlo Siani, uno che ha sacrificato la propria vita per combattere l’illegalità e chi mandava e manda i “muschilli” al macello. La foto di Ugo, come quella di Marco, la lascerei all’affetto e al ricordo di chi ha spazio nel portafogli.
Arcolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’11 novembre 2020