Padre Pio, il libro secondo Roberto Losso

di Roberto Losso

È difficile da manegggiare l’ultimo libro di Matteo Cosenza («Padre Pio, il vero miracolo», Rogiosi Editore). Leggerlo non basta. Bisogna viverlo. Quasi fosse la rappresentazione riflessa di emozioni e sensazioni che, nel tempo, hanno attraversato anche la nostra esistenza. E bisogna, poi, inserirlo nel contesto più ampio di quello che normalmente si esplora scrivendo una recensione. Perché è la prosecuzione di un cammino di memoria e identità che affonda le proprie radici nelle vicende umane e politiche che l’Autore ha attraversato da protagonista. Ogni scritto, ogni articolo, ogni editoriale è un tassello di questo suo complicato percorso di vita e di pensiero. È necessario, quindi, mettere in fila tutti i suoi lavori, il suo impegno politico, la sua leadership nella gestione delle notizie. Avendo, peraltro, cura di soffermarsi sulla sua innata tendenza ad interpretare in maniera globale il ruolo di direttore inquieto e curioso. Ne ha dato testimonianza in una terra difficile come la Calabria, assolvendo alla triplice responsabilità di (1) raccontarla così com’era, (2) aiutarla a far crescere al proprio interno la speranza di un futuro migliore e (3) dare fiducia ad una “covata” di giovani giornalisti che, oggi, interpretano al meglio questa passione civile.
Da dove partire, allora? Dalla «dedica». A chi poteva pensare nella delicatezza e nell’emozione di ritrovare e mettere insieme tanti «ritagli» della meglio gioventù, nel mentre la pandemia si portava via una generazione di persone che hanno trasformato le macerie del dopoguerra in cattedrali di operoso benessere e pacifica convivenza? «A mia madre che avidamente leggeva i miei articoli, sperando, invano, che mi convertissi». Riecheggia pudica la compostezza dei sentimenti che il nostro Matteo conserva, sia pure nascondendoli, nel tramestio dei tempi che cambiano e che, spesso, ci spingono oltre i confini dell’umano divenire. Un percorso faticoso, quest’ultimo, che, comunque, arricchisce qualcosa che già c’è e che ha difficoltà a dispiegarsi compiutamente nella sua armonia spirituale. Perché, nel frattempo, le ingiustizie del mondo ci spingono a sporcarci le mani. Perché intorno a noi c’è tanto altro da fare. E perché, innanzi tutto, avvertiamo il peso della responsabilità sociale che appartiene agli uomini di buona volontà. Eppure, anche questo diverso approccio altro non è che una continua ricerca interiore di quel «soffio d’infinito» che è dentro di noi. E che può essere diversamente declinato e vissuto, esercitando la facoltà del libero arbitrio.

Fino a qualche tempo fa, ciò era motivo di solitudine. Non è più così. Dice, infatti, Papa Francesco nella sua conversazione con Austen Ivereigh («Ritorniamo a sognare – La strada verso un futuro migliore»): «Quello che vede le contrapposizioni come contraddizioni è un pensiero mediocre che si allontana dalla realtà. Lo spirito cattivo – lo spirito di conflitto, che compromette il dialogo e la fraternità – cerca sempre di trasformare le contrapposizioni in contraddizioni, pretendendo che scegliamo e riducendo la realtà in semplice coppia di alternative. È questo che fanno le ideologie e i politici senza scrupoli. Dunque, quando ci imbattiamo in una contraddizione che non ci consente di avanzare verso una soluzione, sappiamo di trovarci di fronte a uno schema mentale riduttivo e parziale che dobbiamo cercare di superare». Il «compito del conciliato- re», invece, è quello di «sopportare il conflitto e, attraverso il discernimento, guardare oltre le ragioni del disaccordo, aprire chi è implicato alla possibilità di una nuova sintesi, che non distrugga nessuno dei due poli, ma conservi in una nuova prospettiva ciò che è buono e valido di entrambi».

Eccolo, dunque il «vero miracolo». Gioioso e fraterno. La comprensione, l’incontro, la contaminazione. Sono questi, appunto, i sentimenti che ritroviamo nel libro di Matteo Cosenza. Sentimenti, peraltro, che non nascono da una circostanza o da un momento di personale sconforto. Gli articoli che lo compongono, infatti, sono frutto e conseguenza del suo essere giornalista. Non dipendono, pertanto, dallo smarrimento che può nascere dentro di noi, quando affrontiamo questioni che diventano ferite. Matteo Cosenza era lì, perché il direttore de “Il Mattino” decise che fosse proprio lui a raccontare Padre Pio nel trentennale della scomparsa. Era un lavoro come un altro. Poteva scadere nel folklore, ove gli fosse mancato il senso dell’equilibrio o l’umanità necessaria per rendersi conto che tanta gente avvertiva come un valore profondo la beatitudine del Frate e dei luoghi che lo circondavano. Anche lui l’ha respirata, quella bellezza spirituale. Ed è riuscito a trasmetterla ai suoi lettori. Così com’era. Sottraendosi alla tentazione di metterci del suo, d’inventarsi suggestioni, di manipolare i ragionamenti di persone come Renzo Piano. Osservava la realtà e ne scriveva. Laicamente. Non senza emozione, però. Ce ne accorgiamo, leggendolo. C’è, infatti, una metrica nel suo racconto che va oltre il mestiere e le capacità personali. Così, spesso diventa poesia alta e solenne.

È lo stesso modo di scrivere che ho avuto modo di apprezzare in un altro suo libro, il “Compagno Saul” (Rubbettino Editore, 2013), «con la “ù” rigorosamente accentata», scrive il giornalista e scrittore Luigi Vicinanza nella prefazione. Perché anche lì Matteo Cosenza commuove e si commuove, pur nel rigore della ricostruzione storica e politica che, a volte, diventa anch’essa preghiera laica davanti alla complessità di un personaggio che ha riempito di sé la storia sociale del suo tempo. Anzi. Sembra quasi che ci sia una continuità umana e morale tra il libro che racconta la vita di un comunista all’antica, il compagno Saùl di Castellammare di Stabia, e quello che vaga alla ricerca del «miracolo vero» di Padre Pio di Pietrelcina. C’è, in entrambi, un lungo gravoso viaggio nei luoghi inesplorati delle grandi scelte di vita e delle capacità di viverle con coerenza e fino in fondo.

Ma chi era Saùl? Ne parla in terza persona, Matteo Cosenza: «Più volte il Pci nazionale gli chiese di candidarsi al parlamento o, quanto meno, di trasferirsi a Napoli per assumere un ruolo di primo piano nella segreteria del partito. Rifiutò. Pensava, infatti, di essere più utile nella “sua” fabbrica e nella “sua” città. Il suo rifiuto fu categorico anche quando, nel 1976, il segretario della federazione di Napoli, Andrea Geremicca, si recò personalmente a Castellamare per convincerlo a lasciare i cantieri. Erano preoccupati per il suo stato di salute. Un medico anch’egli comun sta, il cardiologo Remo Raddi, li aveva informati riservatamente che il compagno Saul aveva il cuore malandato. Niente da fare. Restò al suo posto. Fino al momento dell’ultimo saluto, che gli rivolse Giorgio Napolitano, il 12 gennaio del 1981, in Piazza Spartaco “davanti ad una folla straripante – oltre diecimila persone – che non riusciva a ripararsi da una pioggia inclemente che accompagnò l’intera cerimonia». Quel Saùl era suo padre. Eppure, nel libro, e solo sul finire del racconto, si lascia andare ad un momento di intimità chiamandolo “papà”. Liberandosi di una commozione così intensa da richiamare quella ugualmente penetrante che traspare dal suo incontro con Padre Pio e con il suo popolo. Ne scrive estasiato Monsignor Giancarlo Bregantini nella prefazione. Un motivo in più per leggere l’ultimo libro di Matteo Cosenza con il necessario «stupore» del cuore e della mente.

*Rcensione pubblicata sul “Quotidiano del Sud” il 29 novembre 2022

Ugo Piscopo, dalla scuola a Marx

Con Ugo Piscopo potevi conversare su qualsiasi argomento, anche quelli per te semisconosciuti o appresi superficialmente, e ascoltarlo con ammirazione senza che ti facesse sentire un ignorante, e non perché non lo fossi ma perché lui socraticamente ti sollecitava, e non te lo dava a vedere, a trovare la verità dentro te stesso e a rendertene conto. Nella penultima chiacchierata alla sua domanda “che stai facendo?” colsi l’occasione per fargli dire qualcosa sulla Bibbia, a cui, dopo averne leggiucchiato qua e là per una vita, avevo deciso di dedicare uno studio approfondito: con pacatezza mi fece ragionare sulla necessità di storicizzare il tempo del Vecchio Testamento piuttosto che rilevarne, come io facevo, soprattutto il messaggio devastante che scaturiva da stragi, eccidi e sacrifici nel nome di Dio. Cambiando argomento, esattamente nell’ultima telefonata, mi “educò” con il solito tratto pacato, direi più che signorile, su una mia a suo parere eccessiva infatuazione per la “Recherche” di Proust, lettura che finalmente, avendola sempre rinviata, avevo fatto con piacere immenso non so se più per gli argomenti, la memoria soprattutto, o per la scrittura fatta di periodi sterminati esattamente all’opposto di quanto mi avevano insegnato per fare il mio mestiere che preferisce se non pretende frasi non lunghe, bensì asciutte e concentrate. La prese alla larga e mi raccontò di gruppi napoletani intitolati a lui che si riunivano quasi in una setta (in senso buono) per leggere e commentare lo scrittore. In parole povere raffreddò il mio entusiasmo benché io continui a ritenere quella lettura una delle più interessanti della mia vita.
Che cosa è stato Piscopo? Si fa prima a dire che cosa non è stato. Ha suonato per l’intera vita tutti, o quasi, i tasti del piano e lo ha fatto continuando a svolgere in maniera professionale la funzione pedagogica nella scuola e dintorni, forse il centro vero della sua missione esistenziale. La scuola in primo luogo dove il suo passaggio in molteplici vesti, anche quattro anni di insegnamento al liceo italiano di Tripoli, ha lasciato tracce importanti. Una missione che ha attraversato la sua vita fino agli ultimi giorni. Poco prima della sua scomparsa in un articolo su “Repubblica” sottolineò ancora una volta la centralità della scuola per Napoli e il Mezzogiorno: «Tutta la società meridionale, non soltanto la scuola, deve essere chiamata in causa per innalzare il livello culturale dei giovani del Mezzogiorno sapendo che dove la società è in via di imbarbarimento non vi può essere una scuola viva e costruttiva».
Insegnare, organizzare la scuola per farla funzionare al meglio, approfondire tutte le materie per cui aveva interesse, produrre libri e saggi, scrivere per i giornali, tradurre, scrivere testi teatrali, critico d’arte, consulente editoriale e poi la poesia, l’università, i convegni. Come facesse è difficile capire anche perché in ognuno dei campi in cui si dava da fare primeggiava con la parola e con i documenti – i suoi libri costituiscono da soli una biblioteca – si può dire definitivi su tanti argomenti e personalità. Una personalità, come altre venute dall’aree interne delle regioni meridionali, che ha pesato in vita e il cui valore è ancora più rilevante dopo la morte visto che non ha ricevuto i riconoscimenti che avrebbe meritato in vita.
Tanti anni fa portava i suoi articoli alla redazione napoletana di “Paese Sera” nell’Angiporto Galleria di fronte al San Carlo. La sua firma già allora dava lustro al giornale. Spaziava in mondi vari, da quelli noti delle sue attività ma anche su altri sui quali stava lavorando e di cui dava anticipazioni. Ci si poteva anche sorprendere nel constatare che una persona così mite e dolce fosse tanto ferma, precisa e non indulgente nel trattare temi anche spinosi. Poi si capì che non poteva essere diversamente se era capace da preside di far funzionare perfettamente scuole spesso difficili da governare. Diventammo amici e lui scherzava anche sulle nostre troppo differenti sagome specie quando stavamo in piedi uno di fronte all’altro.
Quanto alla sua immensa produzione non mi avventuro in giudizi critici, perché non è il mio mestiere, ma da osservatore diligente posso tranquillamente ricordare che in determinate materie i suoi lavori sono stati fondamentali, valga per tutti la sua ricostruzione del futurismo e del peso che ha avuto nella cultura italiana. E poi straordinario fu il suo rapporto con i territori, la natia Irpinia, Napoli che lo adottò, la Calabria… «che per me – scrisse nella prefazione, perfino profetica, del libro dal titolo felicemente virgiliano “Calabri me rapuere” – è una monumentale enciclopedia della complessità e della latenza della storia, scritta a più mani in prevalenza con la collaborazione anche di chi non sapeva né scrivere né leggere nel senso suggerito da queste due parole oggi. Scrivere e leggere, nel caso dell’enciclopedia Calabria, invece, come mi hanno insegnato coi fatti i miei nonni materni, presso cui sono nato e cresciuto nella prima e nella seconda infanzia in Irpinia, vuol dire entrare attivamente nella costruzione dell’esistente, cercare di interpretarlo e di viverlo in proprio, modificandolo, se possibile, lasciandovi il segno della partecipazione e della variazione anche di aspetti minori o giudicati minori. Continuare ad esserci, anche quando materialmente la nostra piccola fragile vicenda personale fisicamente si è spenta».
Su un punto voglio soffermarmi: la sua visione politica. «Caro Karl, complimenti e auguri. Quanti mai possono vantare una tale longevità, esclusi i patriarchi della Bibbia?». È l’incipit dell’epistola a Marx, “un antenato fra noi”, che scrisse quattro anni fa in occasione dei duecento anni dalla nascita. Un documento straordinario (la bibliografia occupa quasi metà del testo… così lavorava il Nostro) in cui ci sono analisi critica, visione storica, passione politica. Scrive: «Quante volte è stata diffusa e celebrata enfaticamente la tua scomparsa, puntualmente smentita poi dai fatti… Ogni volta, però, quesiti e contatti vengono cercati per aspetti e problemi non ripetitivi di quelli che hanno tenuto banco nel periodo precedente, ma per raccogliere suggerimenti a spiegarsi le distonie scottanti proprie delle situazioni in svolgimento sul terreno dell’attualità. Questa volta, ad esempio, oggi, la tua presenza, anche d’impulso della ricorrenza dei tuoi duecento anni dalla nascita, ma non solo, è inquisita per riscontrare conferme sulla tenuta dell’utopia, sulla irrinunciabile necessità di prendere posizione a favore della salvaguardia dell’ambiente e del riscatto dei marginali e dei dannati della Terra, il cui numero è in continua crescita».
Da qui Piscopo muove la sua indagine che passa al setaccio in poche ma dense pagine l’immensa produzione scientifica dando conto di tutte le posizioni sui temi posti da Marx in un mondo nel quale è perfino in discussione l’esistenza di una classe operaia, caposaldo dell’analisi del filosofo di Treviri. Si parte da un dato attuale: «il 99 per cento della popolazione mondiale possiede appena l’1 per cento dei beni disponibili, contro una nettissima minoranza di plutocrati, che dispone del restante 99 per cento dei beni del pianeta». Comunismo, anticomunismo, crollo del Muro di Berlino connotano la storia del Novecento, poi una navigazione a vista «fino al successo di un pervasivo potere globale, che, come osserva Bauman, dopo aver spodestato ed esposto a ludibrio la Politica, è venuto manipolando l’individuo per farne un soggetto appagato, anzi felice della sua schiavitù, svuotandolo di ogni pulsione vitale, di ogni proiezione verso l’appropriazione critica di sé e della relazionalità col mondo».
Piscopo fa i conti con il presupposto dell’analisi marxiana, la “scientificità”, su cui basa la scommessa profetica sul futuro, «una certezza, che certezza non è, in quanto ciò che è scientifico non può essere una certezza scientifica mai». Marx «chiude le porte agli svolgimenti preterintenzionali o intenzionali del reale, che, talora in maniera devastante, intervengono puntualmente a tradurre le intenzionalità in accadimenti di altro profilo» senza dare ascolto a Hegel, Kant, Vico e prima ancora ad Aristotele e ai filosofi greci, lui «ha puntato sulla funzione della classe operaia come una clava o machete per abbattere il muro delle ingiustizie e della disumanità e ha disegnato per sé e per tutti un avvenire senza più contraddizioni». La conclusione di questo saggio, qui solo sintetizzato, parte dall’ieri, si ancora all’oggi e guarda al domani: «Così non è stato, così non sarà, anche perché la nostra realtà ha avuto e continua ad avere cambiamenti e trasformazioni travolgenti. Ad esempio, la classe operaia è venuta sempre più riducendosi, mentre grossi e inaspettati problemi stanno investendo ad ampie latitudini un’umanità sempre più in sofferenza. È a questa crisi che bisogna rispondere in collaborazione fra tutti, nel segno della laicità, della libertà, del pluralismo, ma anche con la determinazione che tu proponi nel tuo sogno utopico di palingenesi. Ecco perché tu sei ancora con noi».
Torno al privato perché questo documento mi coglie negli affetti. Cinque anni prima gli chiesi di leggere il manoscritto del mio libro, “Il compagno Saul”, sulla vita di mio padre, un operaio del cantiere navale di Castellammare divenuto un’icona del Pci. Non so se il mio genitore avrebbe apprezzato le conclusioni della “lettera”, ma sta di fatto che Piscopo, con la sua amichevole disponibilità, fu felice di questa richiesta e, in tempi piuttosto brevi, mi fece riavere il testo con correzioni sulla forma e nessuna sulla sostanza. Quando me lo consegnò si complimentò anche e soprattutto, accompagnandolo con un sorriso indimenticabile, sottolineò il valore di mio padre: «Matteone, hai fatto bene a scriverlo». Frase che, con il senno di poi, mi piace associare a quel commiato con l’autore de “Il capitale”: «…tu sei ancora con noi».
Si è capito che questo mio è un tributo prima all’amico e dopo all’immenso studioso, uomo di cultura, operatore culturale, educatore, poeta e tanto altro ancora della cui amicizia, ripeto, e, spesso, collaborazione, ho goduto per oltre mezzo secolo. Un’amicizia cementata anche da episodi che sono incisi nella storia della mia famiglia. Quarantasette anni fa, nei primi giorni di maggio, mia moglie, insegnante precaria, era supplente all’Ottavo Liceo Scientifico di Napoli il cui preside era Piscopo. Lei era ormai agli ultimi giorni di gravidanza e continuava ogni giorno a recarsi con treni, bus e piedi da Castellammare al Parco San Paolo, anche perché a quel tempo non esistevano paracaduti. Lui un giorno le disse: «Vada a casa altrimenti lo chiamiamo Ottavino». Sorrisero tutt’e due. Due giorni dopo nacque Valentina.
*Articolo pubblicato sul numero 1/2022 della “Rivista calabrese di storia del ‘900” diretta da Vittorio Cappelli

“È lui chi parla”

Un tempo c’era il Grand Tour e Napoli era il luogo privilegiato di studiosi, intellettuali, scrittori, artisti, filosofi, pittori. Grande e vera capitale europea, la città affascinava il mondo e diventava laboratorio di studio, di ricerca, di produzione culturale. Mi ci ha fatto pensare la morte di Percy Allum, un inglese che non ha viaggiato da “turista” verso Napoli ma qui vi si è insediato per decenni, quasi una vita intera, lavorando, producendo, insegnando, vivendo. Un Grand Tour diverso, più attuale e moderno, sicuramente molto incisivo se si pensa alla qualità e quantità delle prestazioni del politologo di Reading.
Questa mattina ho trascorso molto e proficuo tempo a leggere i documentati e stimolanti ricordi di persone che lo hanno conosciuto, per tutti cito Ernesto Mazzetti , Mauro Calise e Luciano Brancaccio. Mi ci sono ritrovato avendo avuto anche io la fortuna di frequentare da vicino e per lungo tempo Percy. Erano gli anni indimenticabili della “Voce della Campania” e lui era una presenza non dico quotidiana ma quasi all’undicesimo piano di via Cervantes 55. Scriveva per il periodico, per anni anche con una rubrica con tanto di fotina, ma soprattutto l’aveva scelto – credo come aveva fatto o continuava a fare per “Nord e Sud” di Francesco Compagna – come sede per lavorare, telefonare, scrivere. Si era diventati naturalmente amici tanto che in redazione qualcuno scherzava con il suo italiano ancora impreciso e gli telefonava anonimamente da un’altra stanza per sentirsi rispondere alla domanda se fosse Percy Allum: “è lui chi parla”.
Per dirla tutta, vedemmo nascere in quelle stanze molto del libro che lo rese celebre, “Potere e società a Napoli nel dopoguerra”, il ponderoso volume edito da Einaudi che, dato dopo dato, numeri alla mano, biografie sviscerate, relazioni ricostruite, parentele passato al microscopio, restituì all’opinione pubblica il complesso palazzo del potere di Lauro e, soprattutto, dei Gava. Ce ne regalò un pezzo importante con il suo capitolo, il ventisettesimo della “Storia della Campania” che realizzammo a fascicoli con il giornale, “La Campania: politica e potere 1945-1975”.
Ha scritto tanto altro ancora, ha insegnato per anni anche al nostro “Orientale”, avendo sempre un piede qui e un altro in Inghilterra, da dove non cessava mai di tenere lo sguardo verso di noi spesso “dipingendo immagini di Napoli”. Figura poliedrica e a volte anche eccentrica, un inglese-napoletano dal ciuffo svolazzante, ha conquistato a suo modo un posto significativo nella storia culturale e, direi, politica della città. Alla quale è rimasto sempre legato. In un’intervista di qualche anno fa ne diede un’ennesima prova, quando a Giovanni Santaniello che gli chiedeva, a proposito di Castellammare, se «oggi non è più tempo di quei “vicerè” e di quel sistema di potere contro cui tanto ha scritto: non ci sono più né Lauro, né Silvio né Antonio Gava…», rispose: «Negli anni Sessanta si sperava che un partito progressista al posto della Dc potesse cambiare le cose. Invece, mi rendo conto che il vecchio ha annullato il nuovo o che il nuovo è stato annullato dal vecchio…». Chissà che non avesse ragione.
*29 aprile 2022

In quella Fiat 850 con Pio La Torre

IN QUELLA FIAT 850 CON PIO LA TORRE
Più di mezzo secolo fa la mia giovinezza era dedicata quasi esclusivamente alla politica. Passione e militanza, impegno e partecipazione, anche tanta – a quell’età è quasi naturale – partigianeria ai limiti della faziosità. Stavo, stavamo, tanti ragazzi e ragazze, da una parte, ci interessavamo della nostra città, dell’Italia, del mondo e anche quello che avveniva dall’altra parte del pianeta ci riguardava. Errori? Una caterva. Ma io non rimpiango nulla anzi ho nostalgia di quel mondo, non solo per l’età che non c’è più, ma anche e soprattutto perché ci sentivamo parte dell’umanità e del mondo. E io e gli altri compagni facevamo di tutto, ci svegliavamo di notte per andare a scrivere sui muri della città slogan sull’ultimo evento che ci aveva scosso, a Pasquetta mentre tutti andavano ai boschi di Quisisana per trascorrere ore liete noi, sempre di notte, disegnavamo con pittura bianca raffazzonata le strade d’accesso con frasi di impegno politico, realizzavamo giornali, organizzavamo convegni e dibattiti, facevamo venire in città il fiorfiore degli intellettuali (Pasolini, Rosi, Zangrandi…), occupavamo spiagge indebitamente privatizzate, facevamo comizi, cortei, volantinaggi, accendevamo confronti e alimentavamo polemiche. Vivevamo la nostra giovinezza in questo modo.
Perché mi è venuto alla mente questa memoria straordinaria, lontanissima, irripetibile, anche a suo modo pesante? Perché mi toccò, ed io me l’accaparrai prepotentemente, anche il compito di andare spesso a Napoli a prelevare dalla stazione o dalla federazione del partito o dall’albergo il compagno autorevole che doveva tenere un comizio a Castellammare e quasi sempre dovevamo fare anche il percorso all’incontrario. Io e Franco Perez, l’unico tra di noi che avesse un’auto, una Fiat 850 di colore celestino, lo consideravamo un privilegio. Franco aveva l’età della patente, io neanche quella. E così viaggiavamo con i dirigenti del partito, discutevamo con loro, respiravamo, mi consenta Gaber, il sentimento dell’appartenenza ai massimi livelli: Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Giorgio Napolitano…
Scrivo di questo perché vedo che oggi si ricorda che quarant’anni fa Pio La Torre fu ucciso dalla mafia. Chi sia stato questo grande italiano non devo ricordarlo io. Un martire dell’Italia repubblicana, protagonista di iniziative che hanno segnato la sua storia, a cominciare dal motivo per cui la mafia ne decretò la morte: con le sue leggi furono messe le mani sui patrimoni dei mafiosi dando una svolta alla lotta fino ad allora flebile se non peggio dello Stato al crimine organizzato che funestava la Sicilia (e altre regioni meridionali). Una foto della sua auto crivellata di proiettili ritrae anche magistrati e poliziotti (Chinnici, Falcone, Cassarà) che saranno uccisi da Cosa Nostra.
Ecco, io e Franco andammo a prelevare La Torre all’albergo Mediterraneo a Napoli, lo conducemmo a Castellammare e poi lo riportammo a Napoli dopo il comizio. Non sapevamo quale fosse il reale valore del “nostro” dirigente, sapevamo soprattutto che era un siciliano. “Com’è la situazione a Castellammare?”. Entrò subito in argomento e io, che non aspettavo altro, risposi. Dialogammo da Napoli fin nei pressi del Miramare dove parcheggiammo, ma continuammo sul lungomare che percorremmo fino alla Cassa Armonica, salimmo sul palco e lui dopo che io lo presentai iniziò il comizio. Certo, tanti slogan (dagli oratori pretendevamo anche questo) ma soprattutto ragionamento, concretezza, analisi della realtà, i compiti del partito, l’invito finale a sostenere la causa. Poi facemmo il percorso all’incontrario e finalmente parlò quasi solo lui, che era felice di com’era andato il comizio anche perché Castellammare era considerata a livello nazionale una “piazza” importante. Con Franco, al ritorno, commentammo a lungo quest’esperienza manifestando ambedue la stima e l’ammirazione per un comunista tutto sostanza che avevamo avuto la fortuna di conoscere così da vicino.
Da quel momento seguii per anni con attenzione l’attività di La Torre e ovviamente provai un dolore immenso quando dalla Sicilia arrivò la brutta notizia. Ma ormai avevo anche capito che quella fine per lui era una delle possibilità reali sul suo cammino di riscatto. Un grande siciliano, un grande italiano. E posso dire anche qualcosa di più personale perché in quell’auto ci diede un altro, non secondario, segno del suo valore: la funzione pedagogica della politica che si espresse con quella disponibilità a dialogare con dei ragazzi con rispetto e curiosità. Il mio partito e i miei dirigenti erano anche questo.
* 30 aprile 2022

Castellammare, bandiere ammainate

In un giorno dominato dalla paura collettiva della guerra gli stabiesi, residenti e non,
sono costretti a vedersela con i guai della loro città. Amarezza e dolore i sentimenti
prevalenti per lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche.
E soffrono non di meno gli abitanti di Torre Annunziata e San Giuseppe Vesuviano,
nei quali arriva il commissario prefettizio. Un’onta pesante per tutti e che a
Castellammare connoterà nel tempo la storia un tempo gloriosa della città passata
nel volgere di qualche decennio dai fasti alle miserie. È evidente che non si è arrivati
a questo punto per un evento improvviso ma a conclusione di una serie di fattori di
decadenza civile e morale. Nessuno potrà gioirne perché un po’ tutti, chi con la
condivisione, chi con una debole opposizione, chi candidamente stava alla finestra
come se la sorte della propria città non lo riguardasse, ne portano in quote
ovviamente diverse la responsabilità.
Si vedrà meglio dalla lettura delle carte che cosa sia realmente accaduto a
Castellammare, quante e quali siano state le contaminazioni, le pressioni, gli accordi,
gli affari e chi e in quali sedi ne dovrà rispondere. La sintesi è che è stata scritta una
brutta pagina non solo della massima istituzione locale ma soprattutto della politica
perché è il suo decadimento che ha reso fragili le difese etiche, affievolito la
partecipazione e abbassato il livello del confronto fino alla compromissione
dell’interesse collettivo. La città ormai viveva di memoria del suo passato. Un tempo
lo scontro era stato anche durissimo, ma i partiti non erano un territorio riservato a
pochi come dimostravano le aspre contese che appassionavano e dividevano la città
ma la preservavano dalle ingerenze pericolose. Lo spartiacque era abbastanza netto
e potevi essere democristiano o comunista, liberale o socialista, repubblicano o
fascista (non ci si scandalizzi), ma da una parte c’era la città legale dall’altra il suo
contrario. Poi…
Con il terremoto del 1980 e i soldi della Ricostruzione avvenne la svolta decisiva. La
guerra di camorra lo testimoniò con le croci che riempirono ampi spazi del cimitero,
ma soprattutto fu evidente che i clan non vollero più stare fuori dalla porta. Certo,
dopo la storia non è stata lineare, Castellammare ha avuto buoni amministratori e
altri meno. Intanto cambiavano storia e geografia, lo Stato non garantiva più
l’apparato industriale e neanche le terme. Risultato: crisi doppia crisi, assenza di
un’alternativa percorribile, neanche il risanamento del Centro Antico da cui la città
sarebbe potuta ripartire. Addirittura con le Terme ormai fallite si continuava ad
assumere personale che non aveva nulla di cui occuparsi. Sullo sfondo la grande
partita del destino delle aree industriali della zona nord e gli appetiti su via De
Gasperi oggetto, tanto per cambiare, anche di inchieste giudiziarie. Ciliegina sulla
torta consigli comunali sciolti davanti al notaio, addirittura un paio di omicidi di
consiglieri comunali.
La crisi è diventata irreversibile da quando con i nuovi sistemi elettorali si vince
avendo più liste in una coalizione. A momenti c’erano più candidati che elettori.
Sulla carta questa poteva sembrare una buona occasione per allargare la

partecipazione ma invece si è solo abbassata la qualità della politica. E bastava
seguire da vicino una campagna elettorale per capire che cosa accadeva nel
“sottosuolo”. Anni fa chi scrive, sollecitato da un gruppo di stabiesi di antica
immacolatezza, si fece convincere a candidarsi. Il risultato era scontato e non fu
smentito dalle urne. Molti episodi da raccontare ma inutile tediare il lettore, solo
uno abbastanza emblematico. Una ventina di giorni prima del giorno del voto ci
recammo in un quartiere popolare nella zona di via De Gasperi. Bussammo a tutte le
porte di quei palazzi senza ascensori. Ci aprivano con il sorriso, si parlava sulla soglia,
molti ci facevano entrare e accomodare, discutevamo e ci offrivano il caffè.
Tornammo in quei palazzi e bussammo di nuovo nell’ultima settimana prima del
voto. Aprirono sì e no quattro cinque signore, che sbrigativamente, e non tutte,
presero il volantino e chiusero la porta. Che cosa era successo? Me lo spiegò un
vecchio commerciante della città: “Negli ultimi giorni sono scesi in campo i pezzi da
novanta”. Andò come diceva lui anche nel rione che era stato fino a qualche
decennio prima teatro di discussione e partecipazione.
A Castellammare molti si stanno chiedendo da dove riprendere un cammino
virtuoso. L’impresa è molto complicata. Lo Stato, anche con lo scioglimento del
consiglio comunale, interviene quasi sempre a cose fatte, sta ai cittadini trovare la
strada e imboccarla liberandosi dei lacci della nostalgia e sfruttando con equilibrio e
rispetto lo straordinario patrimonio ambientale e culturale che ancora si ritrovano. E
sarà dura a Torre Annunziata che, attaccata a Castellammare, vede anch’essa
lacerata la sua bandiera. Forse è tempo di farne di nuove.

*Articolo pubblicato il 25 febbraio 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

L’arroganza di far tacere le ambulanze

Chi scrive convive da tempo con la dolente sinfonia delle sirene. Affacciandosi su una strada che collega i maggiori ospedali di Napoli e del Sud il noto e ormai familiare suono segnala il passaggio, spesso faticoso, delle ambulanze con il loro carico di sofferenza e di speranza. In tempi normali. Da un anno, capirete, la musica è cambiata, naturalmente d’intensità e durata. L’orecchio vigile si è abituato a intuire l’andamento della pandemia. In certi giorni e in certe ore non occorrono le statistiche per capire che non va bene. La pena è grande soprattutto quando, ancora nel buio che non cede alla luce, il suono fa pensare a chi è dentro quel veicolo, in primo luogo il paziente, che forse sta per intraprendere l’ultimo doloroso viaggio e, con la fame di aria che lo angustia, ipotizza questo lugubre scenario senza neanche il conforto di una moglie o di un figlio, ma anche agli altri viaggiatori che, per quanto allenati per professione, faticano a nascondere la solidarietà e anche la preoccupazione per il contagio.

Chi scrive farebbe a meno di questa colonna sonora e potrebbe tranquillamente trasferirsi in quartieri e strade meno… rumorose. Ma sa che si è parte di una comunità, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ed è grato a un paese che ha tra i suoi comandamenti lo stato sociale, la cura della salute, l’assistenza ai più fragili e deboli, ai malati di ogni ceto e condizione, e la prevenzione delle malattie. Pur con tutti gli errori, i ritardi, le storture, le intromissioni affaristiche, deprecabili e intollerabili ma che non ledono il principio su cui si fonda la sanità pubblica. E quelle sirene suonano le note di questa religione civile. Meglio non sentirle, soprattutto perché si spera che non ce ne sia la necessità, ma ci sono e siano benedette.

Ora, come si fa a digerire l’oscena provocazione di quegli scooter che minacciosamente gironzolano, come sentinelle della quiete camorristica, attorno alle ambulanze! Questo cancro che vive intorno e insieme a noi, con la sua metastasi devastante, ce ne fa vedere di tutti i colori. L’elenco è lungo ed è a tutti noto. Spazi pubblici occupati e inviolabili, stese, spaccio, pizzo, guerre tra i clan e tutto il vocabolario della sopraffazione spicciola e organizzata. L’ostentazione del potere è emblematica in murales e altarini che, trasformando giovani delinquenti in eroi, condannano questi per la seconda volta: non solo per essere stati allevati, incolpevoli, in un ambiente che non gli offriva molte scelte, ma anche per assegnargli da morti un marchio atroce e indelebile. E tralasciamo l’altra faccia della medaglia: lo stucchevole spettacolo delle autorità, dal ministro al magistrato e al prefetto, impotenti a imporre il ripristino del decoro prima ancora che della legalità a un Comune che scarica sui condomini il cerino acceso della responsabilità di rimuoverli. Tralasciamo? Si fa per dire.

Ma questa contro le sirene è una performance che va oltre. Perfino peggio delle violenze ricorrenti negli ospedali da parte di parenti contro medici, infermieri e dipendenti sanitari, perché queste, pur nella loro odiosa manifestazione, potrebbero… ripetiamo, potrebbero avere una spiegazione vuoi per una malintesa cattiva assistenza vuoi per comportamenti ritenuti inadeguati. Le sirene che danno fastidio sono un gradino in più in questa escalation. E, mentre rappresentano l’ostentazione di un potere supremo, sono anche autolesioniste perché un intralcio, che sia quello di strade invase da auto selvaggiamente parcheggiate o di un’azione per silenziare le ambulanze, potrebbe eventualmente ritardare l’assistenza anche alle famiglie dei camorristi. O in quel caso si puniranno gli autisti delle ambulanze perché non si sono fatti sentire a sufficienza? Si sa, prepotenza e stupidità vanno a nozze.

*Articolo pubblicato il 3 febbraio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

Piazza Spartaco, cento anni fa la strage

Ci sono date che segnano la storia e ci sono luoghi in cui eventi significativi assumono valenza che supera i propri confini, come Castellammare dove in tempi non lontanissimi anche un’elezione locale poteva indicare una tendenza nazionale tant’è che in qualche partito si analizzavano con attenzione i dati per capire dove stesse andando il Paese. Ora accade che si debbano celebrare a distanza di un giorno ben due centenari: la nascita del Pci che il 21 gennaio 1921 si scindeva dal Psi e, il giorno prima, i fatti di Piazza Spartaco, vale a dire l’assalto dei fascisti provenienti da tutta la provincia al Comune amministrato da qualche mese dai socialisti. Fu, questo, l’episodio meridionale che faceva il paio con quello avvenuto due mesi prima a Bologna dove la neonata giunta di sinistra era stata battezzata con scontri, morti e l’assalto al Municipio sempre da parte dei fascisti.

A Castellammare il giorno dopo la strage, mentre era ancora in corso la caccia a quelli che avevano difeso Palazzo Farnese, fioccheranno le adesioni al partito che in quelle ore vedeva la luce nel teatro San Marco di Livorno. Chi coniò l’appellativo “Stalingrado del Sud” evidentemente pensava a questi trascorsi. Che ora si riassumono nella perfetta sincronia dell’anniversario del Pci e di quello degli scontri di Piazza Spartaco.

Antonio Barone, il compianto professore di lettere del liceo classico e poi convinto dall’autore di questo articolo a divenire lo storico del movimento operaio stabiese, ha ricostruito quelle vicende non edulcorando “gli errori, le ingenuità, le mosse affrettate”, si direbbe “infantili” secondo la lettura leniniana, che l’amministrazione socialista compì nei primi passi della sua attività, soprattutto in materia di politica sociale, che aveva allarmato la piccola e media borghesia locale, soprattutto i “bottegai”. Ma la delibera che, come un provvidenziale pretesto, provocò la reazione, aveva essenzialmente un valore simbolico: cambiare il nome di piazza Municipio, che fino a quel momento non ne aveva, in piazza Spartaco. Il riferimento era alla lega di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht intitolata allo schiavo romano, emblema del coraggio proletario. Il consiglio comunale votò il provvedimento il 18 gennaio, in due giorni i fascisti di Napoli e provincia organizzarono una marcia su Castellammare con l’obiettivo manifesto di arrivare davanti al Municipio e cancellare con qualsiasi mezzo l’onta.

Come una tragedia annunciata gli eventi si susseguirono in una giornata campale. Mentre il corteo dei fascisti proveniva dal cantiere navale, una folla di socialisti era davanti al Municipio ed altri erano all’interno. Lo scontro sarebbe stato inevitabile se polizia e carabinieri non avessero impedito il contatto, ma ciò non avvenne. Volarono oggetti, si verificarono sfondamenti, a nulla valse il tentativo di evitare che accadesse il peggio da parte del vicesindaco Pasquale Cecchi (sarà il primo sindaco comunista venticinque anni dopo) sceso da Palazzo Farnese.

«Due denotazioni – scrive Barone – lacerano l’aria. Il giovane maresciallo dei carabinieri, Clemente Carlino, si accascia a terra in una pozza di sangue, fulminato da un colpo alla fronte». Il seguito fu una vera e propria guerra con il Municipio che diventò un Forte Apache, in una confusione non più governabile. Il bilancio finale sarà di cinque morti (anche tre operai) oltre il carabiniere Carlino e di oltre cento feriti.

I socialisti, c’era anche il nonno di chi scrive, resistettero dentro il municipio fino alle 18, quando, dopo l’arrivo di rinforzi di cinquanta carabinieri e cinquanta guardie regie da Napoli, decisero la resa. Qualcuno riuscì a dileguarsi mentre si procedeva all’arresto di 150 persone. Fermi e arresti proseguirono nelle strade della città mentre veniva invasa la Camera del Lavoro, i cui dirigenti riuscirono a indire uno sciopero generale per il giorno dopo. Barone conclude così la cronaca della giornata: «Verso l’una di notte terminano i trasferimenti degli arrestati verso il carcere locale, mentre risuonano sul selciato i passi dei soldati in pattugliamento, in un’atmosfera di desolazione resa ancora più triste dal freddo e dalla pioggia che continua a cadere imperterrita senza riuscire a cancellare in piazza Spartaco le macchie di sangue di coloro che – come ricorderà tanti anni dopo l’indimenticabile compagno Luigi Di Martino – col martirio semplice, ma fulgido di gloria, diedero l’esempio di quanto amarono la libertà e i diritti del popolo». Nel processo, che si svolse nel febbraio 1922, tutti gli imputati furono assolti.

Si è detto degli errori “infantili”, ma quel consiglio comunale era stato liberamente eletto dai cittadini e democraticamente aveva approvato quella delibera che era nelle sue prerogative. Pur tuttavia le spiegazioni storiche sono più complesse come sottolineò Giorgio Amendola ricordando che il movimento operaio era, nelle sue varie componenti, impreparato a comprendere il fenomeno fascista e che la divisione nella sinistra era prevalente e fu decisiva per l’ascesa di Mussolini. Basti pensare alle assenti o tiepide reazioni ai fatti stabiesi. Il “Soviet”, il giornale del napoletano Bordiga, fresco di nomina a primo segretario del Partito Comunista Italiano, solo quindici giorni dopo vi dedicherà un articolo per scrivere: «Il Comune è ritornato alla borghesia: vi è il commissario prefettizio, il quale ha ripreso la pratica dei favori, delle protezioni, delle clientele. Bene, bene, bene! I lavoratori guardano e giudicano». Sarà invece una settimana dopo l’”Ordine nuovo” di Gramsci ad assegnare a Castellammare il ruolo nazionale più volte riconosciutole: «Senza esagerazione possiamo affermare che il movimento sindacale e politico stabiese è il migliore della Provincia e non indegno di essere ricordato affianco ai vecchi di classe italiana».

Ma c’è anche un’altra storia, molto italiana anche questa. Dopo l’assalto piazza Spartaco ritornò ad essere piazza Municipio. Nel dopoguerra una giunta di sinistra la intitolò nuovamente a Spartaco, un nome che non era più soltanto il modo per ricordare lo schiavo e la sua rivolta ma anche l’eccidio di quel lontano giorno. Durò non molto perché un’amministrazione democristiana, con un colpo di astuzia raffinata, cambiò di nuovo il nome chiamandola piazza Giovanni XXIII. E anni ancora dopo una nuova giunta di sinistra, non potendo ferire i sentimenti popolari verso il “papa buono”, denominò piazza Spartaco un’altra piazza della città. Ma gli stabiesi, più furbi di tutti, generalmente chiamano il luogo simbolo della loro città piazza Municipio.

E per chiudere una terza nota molto personale. Quando si inaugurò al Corso Vittorio Emanuele la nuova sezione del Pci non fu difficile convincere il pittore stabiese, Antonio Gargiulo, a realizzare un affresco nel salone delle riunioni che ricordasse quel pezzo straordinario di storia cittadina e italiana. Ha resistito, la sua opera, a molti cambi di denominazione, questa volta del partito e non di una piazza, e sta ancora là. Non sapendo come andrà a finire non sarebbe inopportuno che si ponesse un vincolo a quel dipinto anche perché la politica è una cosa e la storia un’altra.
*Articolo pubblicato il 19 gennaio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

Per Ugo invece del murale meglio la memoria privata

Da anni nel portafogli di mia moglie c’è la foto di un ragazzo. Si chiamava Marco Altomare, aveva diciassette anni, faceva il rapinatore ma la fedina penale era ancora pulita, i carabinieri lo inseguirono e lo uccisero in via Vicinale Piscinola mentre scappava insieme a un complice a bordo di Bmw rubata. Era stato un suo studente alla “Carlo Levi” di Scampia. Lo conoscevano bene le mie figlie essendo andate più volte in quella scuola media in occasione delle innumerevoli iniziative didattiche che i docenti organizzavano. Ed anche io posso dire di conoscerlo perché a casa mia se ne parlava spesso mentre si pranzava per decantarne l’intelligenza e gli sforzi che si facevano per liberare lui e altri suoi coetanei dai rischi del mondo di fuori. La sua morte fu un lutto familiare e mi toccò rincuorare più volte mia moglie che riteneva quel tragico epilogo anche un fallimento della sua missione educatrice. Ma, le dicevo, si sbagliava perché non solo la scuola, non solo la famiglia, non solo la società, non solo lo stato, ma solo lo sforzo corale di tutti questi soggetti poteva sradicare il male che naturalmente rischiava di infettare tanti ragazzi innocenti.

Il murale di Ugo ai Quartieri Spagnoli mi ha fatto ricordare Marco e sollecitato una domanda: poteva avere anche lui analogo tributo pubblico? E che cosa avrei pensato? O, meglio, mi sarei indignato come ho fatto ora? Vedere il mondo solo in bianco e nero non è quasi mai, se non mai, il metodo giusto di valutare, per cui anche in questo tormentato caso prudenza e ragionamento sono necessari. Si parla per Ugo come per Marco di ragazzi che sono in ogni caso vittime, perché prima ancora di accertare se ci sia stato un eccesso da parte dei tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica, cosa che va fatta con rigore come è necessario in un paese in cui il diritto è sacro, sappiamo bene che colpe certe ricadono sul contesto familiare, ambientale, sociale in cui sono cresciuti. Dico banalità ma non c’è nulla di più vero e spesso tragico della banalità.

Dunque, non era nel Dna di Ugo e Marco diventare rapinatori, considerare la prepotenza e la violenza valori, immaginare il proprio futuro di piccoli o grandi boss agiati e rispettati, come non è merito del Dna essere persone perbene, morigerate e educate bensì di chi aiuta a vivere e crescere con i valori corrispondenti. Pertanto ricordare con rispetto i caduti di una guerra nella quale giovanissime vite sono state spinte si può dire da quando sono nate e poi alimentate con il latte dell’illegalità, dell’abuso e del reato, è un modo non solo per restare umani ma anche per chiedersi e tentare di capire il perché.

L’immagine di quel ragazzo su un muro si presta a questa sola lettura? Se così fosse resti lì. Ma, decontestualizzata, essa diventa, se non da subito, nel tempo il simbolo di un sacrificio, di un eroe, di un mito, di un esempio. Ci sono, e ci devono essere, ben altri modi per dimostrare che quella morte non possa essere archiviata come un incidente di percorso, ed è troppo facile per tutti lasciare che quel volto assolva da responsabilità collettive. Per capirci io su quella parete disegnerei il viso sorridente di Giancarlo Siani, uno che ha sacrificato la propria vita per combattere l’illegalità e chi mandava e manda i “muschilli” al macello. La foto di Ugo, come quella di Marco, la lascerei all’affetto e al ricordo di chi ha spazio nel portafogli.

 

Arcolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’11 novembre 2020

Peppe, nel nome del padre

Innanzitutto era una persona buona. Lo so per me ma so che mai lo mosse un sentimento cattivo nei confronti di qualcuno. Scaturiscono da questa convinzione il dolore e le lacrime che, alla notizia che ci aspettavamo e che speravamo mai arrivasse, non sono stati trattenuti da quelli che, e sono un popolo, lo hanno conosciuto e frequentato nella sua lunga esistenza. Una vita pubblica, ecco l’altro elemento, perché lui le mani se le sporcava sempre riuscendo ad attraversare i mari spesso tempestosi della politica con una trasparenza, direi un’innocenza, che ti lasciava interdetto. Mi ricordava un suo grandissimo compagno e amico, il più amato in assoluto da lui, a me più che vicino, che con lo stesso candore si sporcava le mani senza che uno schizzo di polvere, il fango non era nell’ordine delle cose, potesse depositarsi sulla sua persona. E poi la cultura che dava sostanza e profondità alle prime due sue immense qualità. Una cultura fatta di curiosità e non di ostentazione, di competenza e non di presunzione, di specializzazione e di onnicomprensività.

Io lo conoscevo bene, Peppe Bruno, e lo piango non già per la sua morte, che è nell’ordine delle cose per noi di una certa età, ma per il modo atroce, sicuramente per le sofferenze anche se voglio sperare che, intubato e sedato per tanti giorni, non se ne sia accorto. Ma quando l’ho sentito prima che si infilasse nel tunnel senza uscita quei patimenti annunciati erano nella sua mente e nel suo cuore. “Ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene”. Me l’aveva detto tante volte ma questa volta, pur non sapendo ancora che il virus con la falce era già entrato nel suo corpo, ho sentito che c’era molto di più, c’era sicuramente l’angoscioso dolore per l’amata moglie allettata e priva di conoscenza da troppo tempo, per i figli, per i nipoti, anche per la loro sicurezza perché lui che di lavoro era riuscito a dispensarne tanto si era trattenuto dal favorire chi gli era più vicino. C’era, l’ho capito dopo, quasi un lascito, un testamento non scritto all’amico di una vita. Che qui io cerco di onorare.

Avevo quindici o sedici anni quando lo conobbi. Io già facevo politica e lui era con Alfonso di Maio, Giuseppe Ghiandi, Giovanni Fioretti, Mario Acerra, Renato Tito, uno stimato dirigente dello Psiup. Era naturale che quasi tutti loro confluissero nel Pci ma io non aspettai che Peppe venisse nella nostra casa perché fummo subito in sintonia. Grazie a tante battaglie, anche all’invenzione non coronata da fortuna della Consulta giovanile nella quale, mentre i partiti degli anziani litigavano, noi più o meno giovani discutevamo insieme per fare qualcosa indipendentemente dal fatto che fossimo comunisti, socialisti, repubblicani o democristiani. Per anni poi, per la comune militanza e frequentazione degli stessi spazi, ci vedevamo tutti i giorni. Lui era “attratto” soprattutto dal “compagno Saul”. Ovviamente lo coinvolsi nella realizzazione dei giornali che sfornavamo a pieno ritmo. E indimenticabili furono le “riunioni di lavoro” a casa mia per prima impostare i contenuti del numero del giornale da realizzare e poi per leggere, correggere e sistemare tutti insieme (c’erano con noi Antonio Barone, Franco Perez, Luigi Vicinanza, Enrico Fiore, Antonio Polito) gli articoli che sarebbero stati pubblicati. Facevamo notte e, come ho scritto di recente, Anna ci nutriva più che spartanamente perché non navigavamo nell’oro.

Fisicamente ci perdemmo quando decisi di interrompere l’attività politica e fare il giornalista a tempo pieno. Mio padre soffrì molto e Peppe, pur senza mai dirmelo, soffrì altrettanto anche per solidarietà con mio padre. Ed è stato molto tenero non molto tempo fa quando mi ha raccontato le chiacchierate che faceva con lui su di me, di come papà fosse addolorato e al tempo stesso orgoglioso. Non vado oltre perché l’emozione non me lo consente…

Fisicamente, dicevo, ma in realtà non ci siamo mai lasciati. Lui è stato una presenza costante della mia vita, un approdo dove trovare sincerità, franchezza, affetto, amicizia, stima, sentimenti tutti ricambiati con gli interessi. Neanche alcuni mesi fa, quando poteva accadere, ci fu un’ombra nel nostro rapporto. Mi riferisco ad un articolo che scrissi per il “Corriere del Mezzogiorno” su Castellammare e il suo declino. Qualcuno ricorderà che per qualche settimana si sviluppò una discussione pubblica molto intensa. Poiché io parlavo anche della situazione delle Terme, di cui lui era stato amministratore unico, e accadeva anche che, ma non io, si potesse fare di tutte le erbe un fascio, mi disse: “Ma mò la vogliamo finire?” La risata che seguì mi fece capire che c’era sì un appunto ma anche l’ammissione che qualche responsabilità poteva pure esserci. In realtà nel tramonto politico di una certa Castellammare le responsabilità sono state individuali, collettive e anche derivate da un mondo che cambiava (pensiamo solo alla scomparsa delle Partecipazioni statali su cui si reggevano quasi tutte le attività imprenditoriali comprese le Terme), ma qui non voglio parlare di questo piuttosto voglio ribadire quanto fosse limpido, aperto, sincero il rapporto tar me e Peppe. Ci dicevamo tutto, lui a me e io a lui, e posso dirvi che persone più oneste, belle e competenti ne ho incontrate poche nella mia vita.

Competente lo era. Quando entrò nell’Acquedotto di Napoli, allora nella sede di via Costantinopoli, era un fresco laureato in ingegneria. Ne divenne nel tempo uno stimato direttore e se il servizio idrico della nostra terra è sicuramente uno dei nostri vanti lo si deve anche al suo contributo, tanto apprezzato da avergli consentito di avere responsabilità pubbliche fino ad oggi anche dopo aver lasciato l’Arin, poi diventata Abc. Competente e colto, ma non lo esibiva. A mia memoria non ricordo un solo gesto di presunzione, di alterigia, di superbia. Compagno fino in fondo lo era anche in questo.

E poi che compagno! Dopo un mio intervento “fuori ordinanza” in un Comitato regionale del Pci particolarmente importante me lo dimostrò senza tentennamenti. Copio qui quanto ho scritto nel mio libro: “Quando tornai al mio posto capii che l’avevo fatta grossa. Le sedie accanto, davanti e dietro la mia furono libere per tutto il giorno fino alla conclusione della riunione, solo uno – e lo cito proprio perché fu un’eccezione – ogni tanto mi faceva compagnia non tanto per condivisione e antica amicizia quanto, pensai e penso, per solidarietà: Giuseppe Bruno, dirigente stabiese del partito”.

Questo era Peppe, questo era Peppe per me. E sono disperato perché non posso salutarlo per l’ultima volta almeno per ricambiargli il tributo che lui diede al “compagno Saul” che nel suo cuore considerava un padre e che per questo me lo ha fatto sentire fratello.