Innanzitutto era una persona buona. Lo so per me ma so che mai lo mosse un sentimento cattivo nei confronti di qualcuno. Scaturiscono da questa convinzione il dolore e le lacrime che, alla notizia che ci aspettavamo e che speravamo mai arrivasse, non sono stati trattenuti da quelli che, e sono un popolo, lo hanno conosciuto e frequentato nella sua lunga esistenza. Una vita pubblica, ecco l’altro elemento, perché lui le mani se le sporcava sempre riuscendo ad attraversare i mari spesso tempestosi della politica con una trasparenza, direi un’innocenza, che ti lasciava interdetto. Mi ricordava un suo grandissimo compagno e amico, il più amato in assoluto da lui, a me più che vicino, che con lo stesso candore si sporcava le mani senza che uno schizzo di polvere, il fango non era nell’ordine delle cose, potesse depositarsi sulla sua persona. E poi la cultura che dava sostanza e profondità alle prime due sue immense qualità. Una cultura fatta di curiosità e non di ostentazione, di competenza e non di presunzione, di specializzazione e di onnicomprensività.

Io lo conoscevo bene, Peppe Bruno, e lo piango non già per la sua morte, che è nell’ordine delle cose per noi di una certa età, ma per il modo atroce, sicuramente per le sofferenze anche se voglio sperare che, intubato e sedato per tanti giorni, non se ne sia accorto. Ma quando l’ho sentito prima che si infilasse nel tunnel senza uscita quei patimenti annunciati erano nella sua mente e nel suo cuore. “Ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene”. Me l’aveva detto tante volte ma questa volta, pur non sapendo ancora che il virus con la falce era già entrato nel suo corpo, ho sentito che c’era molto di più, c’era sicuramente l’angoscioso dolore per l’amata moglie allettata e priva di conoscenza da troppo tempo, per i figli, per i nipoti, anche per la loro sicurezza perché lui che di lavoro era riuscito a dispensarne tanto si era trattenuto dal favorire chi gli era più vicino. C’era, l’ho capito dopo, quasi un lascito, un testamento non scritto all’amico di una vita. Che qui io cerco di onorare.

Avevo quindici o sedici anni quando lo conobbi. Io già facevo politica e lui era con Alfonso di Maio, Giuseppe Ghiandi, Giovanni Fioretti, Mario Acerra, Renato Tito, uno stimato dirigente dello Psiup. Era naturale che quasi tutti loro confluissero nel Pci ma io non aspettai che Peppe venisse nella nostra casa perché fummo subito in sintonia. Grazie a tante battaglie, anche all’invenzione non coronata da fortuna della Consulta giovanile nella quale, mentre i partiti degli anziani litigavano, noi più o meno giovani discutevamo insieme per fare qualcosa indipendentemente dal fatto che fossimo comunisti, socialisti, repubblicani o democristiani. Per anni poi, per la comune militanza e frequentazione degli stessi spazi, ci vedevamo tutti i giorni. Lui era “attratto” soprattutto dal “compagno Saul”. Ovviamente lo coinvolsi nella realizzazione dei giornali che sfornavamo a pieno ritmo. E indimenticabili furono le “riunioni di lavoro” a casa mia per prima impostare i contenuti del numero del giornale da realizzare e poi per leggere, correggere e sistemare tutti insieme (c’erano con noi Antonio Barone, Franco Perez, Luigi Vicinanza, Enrico Fiore, Antonio Polito) gli articoli che sarebbero stati pubblicati. Facevamo notte e, come ho scritto di recente, Anna ci nutriva più che spartanamente perché non navigavamo nell’oro.

Fisicamente ci perdemmo quando decisi di interrompere l’attività politica e fare il giornalista a tempo pieno. Mio padre soffrì molto e Peppe, pur senza mai dirmelo, soffrì altrettanto anche per solidarietà con mio padre. Ed è stato molto tenero non molto tempo fa quando mi ha raccontato le chiacchierate che faceva con lui su di me, di come papà fosse addolorato e al tempo stesso orgoglioso. Non vado oltre perché l’emozione non me lo consente…

Fisicamente, dicevo, ma in realtà non ci siamo mai lasciati. Lui è stato una presenza costante della mia vita, un approdo dove trovare sincerità, franchezza, affetto, amicizia, stima, sentimenti tutti ricambiati con gli interessi. Neanche alcuni mesi fa, quando poteva accadere, ci fu un’ombra nel nostro rapporto. Mi riferisco ad un articolo che scrissi per il “Corriere del Mezzogiorno” su Castellammare e il suo declino. Qualcuno ricorderà che per qualche settimana si sviluppò una discussione pubblica molto intensa. Poiché io parlavo anche della situazione delle Terme, di cui lui era stato amministratore unico, e accadeva anche che, ma non io, si potesse fare di tutte le erbe un fascio, mi disse: “Ma mò la vogliamo finire?” La risata che seguì mi fece capire che c’era sì un appunto ma anche l’ammissione che qualche responsabilità poteva pure esserci. In realtà nel tramonto politico di una certa Castellammare le responsabilità sono state individuali, collettive e anche derivate da un mondo che cambiava (pensiamo solo alla scomparsa delle Partecipazioni statali su cui si reggevano quasi tutte le attività imprenditoriali comprese le Terme), ma qui non voglio parlare di questo piuttosto voglio ribadire quanto fosse limpido, aperto, sincero il rapporto tar me e Peppe. Ci dicevamo tutto, lui a me e io a lui, e posso dirvi che persone più oneste, belle e competenti ne ho incontrate poche nella mia vita.

Competente lo era. Quando entrò nell’Acquedotto di Napoli, allora nella sede di via Costantinopoli, era un fresco laureato in ingegneria. Ne divenne nel tempo uno stimato direttore e se il servizio idrico della nostra terra è sicuramente uno dei nostri vanti lo si deve anche al suo contributo, tanto apprezzato da avergli consentito di avere responsabilità pubbliche fino ad oggi anche dopo aver lasciato l’Arin, poi diventata Abc. Competente e colto, ma non lo esibiva. A mia memoria non ricordo un solo gesto di presunzione, di alterigia, di superbia. Compagno fino in fondo lo era anche in questo.

E poi che compagno! Dopo un mio intervento “fuori ordinanza” in un Comitato regionale del Pci particolarmente importante me lo dimostrò senza tentennamenti. Copio qui quanto ho scritto nel mio libro: “Quando tornai al mio posto capii che l’avevo fatta grossa. Le sedie accanto, davanti e dietro la mia furono libere per tutto il giorno fino alla conclusione della riunione, solo uno – e lo cito proprio perché fu un’eccezione – ogni tanto mi faceva compagnia non tanto per condivisione e antica amicizia quanto, pensai e penso, per solidarietà: Giuseppe Bruno, dirigente stabiese del partito”.

Questo era Peppe, questo era Peppe per me. E sono disperato perché non posso salutarlo per l’ultima volta almeno per ricambiargli il tributo che lui diede al “compagno Saul” che nel suo cuore considerava un padre e che per questo me lo ha fatto sentire fratello.