Con Ugo Piscopo potevi conversare su qualsiasi argomento, anche quelli per te semisconosciuti o appresi superficialmente, e ascoltarlo con ammirazione senza che ti facesse sentire un ignorante, e non perché non lo fossi ma perché lui socraticamente ti sollecitava, e non te lo dava a vedere, a trovare la verità dentro te stesso e a rendertene conto. Nella penultima chiacchierata alla sua domanda “che stai facendo?” colsi l’occasione per fargli dire qualcosa sulla Bibbia, a cui, dopo averne leggiucchiato qua e là per una vita, avevo deciso di dedicare uno studio approfondito: con pacatezza mi fece ragionare sulla necessità di storicizzare il tempo del Vecchio Testamento piuttosto che rilevarne, come io facevo, soprattutto il messaggio devastante che scaturiva da stragi, eccidi e sacrifici nel nome di Dio. Cambiando argomento, esattamente nell’ultima telefonata, mi “educò” con il solito tratto pacato, direi più che signorile, su una mia a suo parere eccessiva infatuazione per la “Recherche” di Proust, lettura che finalmente, avendola sempre rinviata, avevo fatto con piacere immenso non so se più per gli argomenti, la memoria soprattutto, o per la scrittura fatta di periodi sterminati esattamente all’opposto di quanto mi avevano insegnato per fare il mio mestiere che preferisce se non pretende frasi non lunghe, bensì asciutte e concentrate. La prese alla larga e mi raccontò di gruppi napoletani intitolati a lui che si riunivano quasi in una setta (in senso buono) per leggere e commentare lo scrittore. In parole povere raffreddò il mio entusiasmo benché io continui a ritenere quella lettura una delle più interessanti della mia vita.
Che cosa è stato Piscopo? Si fa prima a dire che cosa non è stato. Ha suonato per l’intera vita tutti, o quasi, i tasti del piano e lo ha fatto continuando a svolgere in maniera professionale la funzione pedagogica nella scuola e dintorni, forse il centro vero della sua missione esistenziale. La scuola in primo luogo dove il suo passaggio in molteplici vesti, anche quattro anni di insegnamento al liceo italiano di Tripoli, ha lasciato tracce importanti. Una missione che ha attraversato la sua vita fino agli ultimi giorni. Poco prima della sua scomparsa in un articolo su “Repubblica” sottolineò ancora una volta la centralità della scuola per Napoli e il Mezzogiorno: «Tutta la società meridionale, non soltanto la scuola, deve essere chiamata in causa per innalzare il livello culturale dei giovani del Mezzogiorno sapendo che dove la società è in via di imbarbarimento non vi può essere una scuola viva e costruttiva».
Insegnare, organizzare la scuola per farla funzionare al meglio, approfondire tutte le materie per cui aveva interesse, produrre libri e saggi, scrivere per i giornali, tradurre, scrivere testi teatrali, critico d’arte, consulente editoriale e poi la poesia, l’università, i convegni. Come facesse è difficile capire anche perché in ognuno dei campi in cui si dava da fare primeggiava con la parola e con i documenti – i suoi libri costituiscono da soli una biblioteca – si può dire definitivi su tanti argomenti e personalità. Una personalità, come altre venute dall’aree interne delle regioni meridionali, che ha pesato in vita e il cui valore è ancora più rilevante dopo la morte visto che non ha ricevuto i riconoscimenti che avrebbe meritato in vita.
Tanti anni fa portava i suoi articoli alla redazione napoletana di “Paese Sera” nell’Angiporto Galleria di fronte al San Carlo. La sua firma già allora dava lustro al giornale. Spaziava in mondi vari, da quelli noti delle sue attività ma anche su altri sui quali stava lavorando e di cui dava anticipazioni. Ci si poteva anche sorprendere nel constatare che una persona così mite e dolce fosse tanto ferma, precisa e non indulgente nel trattare temi anche spinosi. Poi si capì che non poteva essere diversamente se era capace da preside di far funzionare perfettamente scuole spesso difficili da governare. Diventammo amici e lui scherzava anche sulle nostre troppo differenti sagome specie quando stavamo in piedi uno di fronte all’altro.
Quanto alla sua immensa produzione non mi avventuro in giudizi critici, perché non è il mio mestiere, ma da osservatore diligente posso tranquillamente ricordare che in determinate materie i suoi lavori sono stati fondamentali, valga per tutti la sua ricostruzione del futurismo e del peso che ha avuto nella cultura italiana. E poi straordinario fu il suo rapporto con i territori, la natia Irpinia, Napoli che lo adottò, la Calabria… «che per me – scrisse nella prefazione, perfino profetica, del libro dal titolo felicemente virgiliano “Calabri me rapuere” – è una monumentale enciclopedia della complessità e della latenza della storia, scritta a più mani in prevalenza con la collaborazione anche di chi non sapeva né scrivere né leggere nel senso suggerito da queste due parole oggi. Scrivere e leggere, nel caso dell’enciclopedia Calabria, invece, come mi hanno insegnato coi fatti i miei nonni materni, presso cui sono nato e cresciuto nella prima e nella seconda infanzia in Irpinia, vuol dire entrare attivamente nella costruzione dell’esistente, cercare di interpretarlo e di viverlo in proprio, modificandolo, se possibile, lasciandovi il segno della partecipazione e della variazione anche di aspetti minori o giudicati minori. Continuare ad esserci, anche quando materialmente la nostra piccola fragile vicenda personale fisicamente si è spenta».
Su un punto voglio soffermarmi: la sua visione politica. «Caro Karl, complimenti e auguri. Quanti mai possono vantare una tale longevità, esclusi i patriarchi della Bibbia?». È l’incipit dell’epistola a Marx, “un antenato fra noi”, che scrisse quattro anni fa in occasione dei duecento anni dalla nascita. Un documento straordinario (la bibliografia occupa quasi metà del testo… così lavorava il Nostro) in cui ci sono analisi critica, visione storica, passione politica. Scrive: «Quante volte è stata diffusa e celebrata enfaticamente la tua scomparsa, puntualmente smentita poi dai fatti… Ogni volta, però, quesiti e contatti vengono cercati per aspetti e problemi non ripetitivi di quelli che hanno tenuto banco nel periodo precedente, ma per raccogliere suggerimenti a spiegarsi le distonie scottanti proprie delle situazioni in svolgimento sul terreno dell’attualità. Questa volta, ad esempio, oggi, la tua presenza, anche d’impulso della ricorrenza dei tuoi duecento anni dalla nascita, ma non solo, è inquisita per riscontrare conferme sulla tenuta dell’utopia, sulla irrinunciabile necessità di prendere posizione a favore della salvaguardia dell’ambiente e del riscatto dei marginali e dei dannati della Terra, il cui numero è in continua crescita».
Da qui Piscopo muove la sua indagine che passa al setaccio in poche ma dense pagine l’immensa produzione scientifica dando conto di tutte le posizioni sui temi posti da Marx in un mondo nel quale è perfino in discussione l’esistenza di una classe operaia, caposaldo dell’analisi del filosofo di Treviri. Si parte da un dato attuale: «il 99 per cento della popolazione mondiale possiede appena l’1 per cento dei beni disponibili, contro una nettissima minoranza di plutocrati, che dispone del restante 99 per cento dei beni del pianeta». Comunismo, anticomunismo, crollo del Muro di Berlino connotano la storia del Novecento, poi una navigazione a vista «fino al successo di un pervasivo potere globale, che, come osserva Bauman, dopo aver spodestato ed esposto a ludibrio la Politica, è venuto manipolando l’individuo per farne un soggetto appagato, anzi felice della sua schiavitù, svuotandolo di ogni pulsione vitale, di ogni proiezione verso l’appropriazione critica di sé e della relazionalità col mondo».
Piscopo fa i conti con il presupposto dell’analisi marxiana, la “scientificità”, su cui basa la scommessa profetica sul futuro, «una certezza, che certezza non è, in quanto ciò che è scientifico non può essere una certezza scientifica mai». Marx «chiude le porte agli svolgimenti preterintenzionali o intenzionali del reale, che, talora in maniera devastante, intervengono puntualmente a tradurre le intenzionalità in accadimenti di altro profilo» senza dare ascolto a Hegel, Kant, Vico e prima ancora ad Aristotele e ai filosofi greci, lui «ha puntato sulla funzione della classe operaia come una clava o machete per abbattere il muro delle ingiustizie e della disumanità e ha disegnato per sé e per tutti un avvenire senza più contraddizioni». La conclusione di questo saggio, qui solo sintetizzato, parte dall’ieri, si ancora all’oggi e guarda al domani: «Così non è stato, così non sarà, anche perché la nostra realtà ha avuto e continua ad avere cambiamenti e trasformazioni travolgenti. Ad esempio, la classe operaia è venuta sempre più riducendosi, mentre grossi e inaspettati problemi stanno investendo ad ampie latitudini un’umanità sempre più in sofferenza. È a questa crisi che bisogna rispondere in collaborazione fra tutti, nel segno della laicità, della libertà, del pluralismo, ma anche con la determinazione che tu proponi nel tuo sogno utopico di palingenesi. Ecco perché tu sei ancora con noi».
Torno al privato perché questo documento mi coglie negli affetti. Cinque anni prima gli chiesi di leggere il manoscritto del mio libro, “Il compagno Saul”, sulla vita di mio padre, un operaio del cantiere navale di Castellammare divenuto un’icona del Pci. Non so se il mio genitore avrebbe apprezzato le conclusioni della “lettera”, ma sta di fatto che Piscopo, con la sua amichevole disponibilità, fu felice di questa richiesta e, in tempi piuttosto brevi, mi fece riavere il testo con correzioni sulla forma e nessuna sulla sostanza. Quando me lo consegnò si complimentò anche e soprattutto, accompagnandolo con un sorriso indimenticabile, sottolineò il valore di mio padre: «Matteone, hai fatto bene a scriverlo». Frase che, con il senno di poi, mi piace associare a quel commiato con l’autore de “Il capitale”: «…tu sei ancora con noi».
Si è capito che questo mio è un tributo prima all’amico e dopo all’immenso studioso, uomo di cultura, operatore culturale, educatore, poeta e tanto altro ancora della cui amicizia, ripeto, e, spesso, collaborazione, ho goduto per oltre mezzo secolo. Un’amicizia cementata anche da episodi che sono incisi nella storia della mia famiglia. Quarantasette anni fa, nei primi giorni di maggio, mia moglie, insegnante precaria, era supplente all’Ottavo Liceo Scientifico di Napoli il cui preside era Piscopo. Lei era ormai agli ultimi giorni di gravidanza e continuava ogni giorno a recarsi con treni, bus e piedi da Castellammare al Parco San Paolo, anche perché a quel tempo non esistevano paracaduti. Lui un giorno le disse: «Vada a casa altrimenti lo chiamiamo Ottavino». Sorrisero tutt’e due. Due giorni dopo nacque Valentina.
*Articolo pubblicato sul numero 1/2022 della “Rivista calabrese di storia del ‘900” diretta da Vittorio Cappelli