Da anni nel portafogli di mia moglie c’è la foto di un ragazzo. Si chiamava Marco Altomare, aveva diciassette anni, faceva il rapinatore ma la fedina penale era ancora pulita, i carabinieri lo inseguirono e lo uccisero in via Vicinale Piscinola mentre scappava insieme a un complice a bordo di Bmw rubata. Era stato un suo studente alla “Carlo Levi” di Scampia. Lo conoscevano bene le mie figlie essendo andate più volte in quella scuola media in occasione delle innumerevoli iniziative didattiche che i docenti organizzavano. Ed anche io posso dire di conoscerlo perché a casa mia se ne parlava spesso mentre si pranzava per decantarne l’intelligenza e gli sforzi che si facevano per liberare lui e altri suoi coetanei dai rischi del mondo di fuori. La sua morte fu un lutto familiare e mi toccò rincuorare più volte mia moglie che riteneva quel tragico epilogo anche un fallimento della sua missione educatrice. Ma, le dicevo, si sbagliava perché non solo la scuola, non solo la famiglia, non solo la società, non solo lo stato, ma solo lo sforzo corale di tutti questi soggetti poteva sradicare il male che naturalmente rischiava di infettare tanti ragazzi innocenti.

Il murale di Ugo ai Quartieri Spagnoli mi ha fatto ricordare Marco e sollecitato una domanda: poteva avere anche lui analogo tributo pubblico? E che cosa avrei pensato? O, meglio, mi sarei indignato come ho fatto ora? Vedere il mondo solo in bianco e nero non è quasi mai, se non mai, il metodo giusto di valutare, per cui anche in questo tormentato caso prudenza e ragionamento sono necessari. Si parla per Ugo come per Marco di ragazzi che sono in ogni caso vittime, perché prima ancora di accertare se ci sia stato un eccesso da parte dei tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica, cosa che va fatta con rigore come è necessario in un paese in cui il diritto è sacro, sappiamo bene che colpe certe ricadono sul contesto familiare, ambientale, sociale in cui sono cresciuti. Dico banalità ma non c’è nulla di più vero e spesso tragico della banalità.

Dunque, non era nel Dna di Ugo e Marco diventare rapinatori, considerare la prepotenza e la violenza valori, immaginare il proprio futuro di piccoli o grandi boss agiati e rispettati, come non è merito del Dna essere persone perbene, morigerate e educate bensì di chi aiuta a vivere e crescere con i valori corrispondenti. Pertanto ricordare con rispetto i caduti di una guerra nella quale giovanissime vite sono state spinte si può dire da quando sono nate e poi alimentate con il latte dell’illegalità, dell’abuso e del reato, è un modo non solo per restare umani ma anche per chiedersi e tentare di capire il perché.

L’immagine di quel ragazzo su un muro si presta a questa sola lettura? Se così fosse resti lì. Ma, decontestualizzata, essa diventa, se non da subito, nel tempo il simbolo di un sacrificio, di un eroe, di un mito, di un esempio. Ci sono, e ci devono essere, ben altri modi per dimostrare che quella morte non possa essere archiviata come un incidente di percorso, ed è troppo facile per tutti lasciare che quel volto assolva da responsabilità collettive. Per capirci io su quella parete disegnerei il viso sorridente di Giancarlo Siani, uno che ha sacrificato la propria vita per combattere l’illegalità e chi mandava e manda i “muschilli” al macello. La foto di Ugo, come quella di Marco, la lascerei all’affetto e al ricordo di chi ha spazio nel portafogli.

 

Arcolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’11 novembre 2020

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