Vera di nome e di fatto. Una vita da sindacalista da quando era ragazza e si batteva per i diritti delle raccoglitrici di olive, a oggi che è il segretario regionale della Cgil, il maggiore sindacato della Calabria. Vera Lamonica è esattamente il contrario di quello che si pensa debba essere una persona che ha bisogno del consenso: schiva, riservata, indifferente all’immagine, attenta alla sostanza. Lo è per carattere e per scelta e agli ideali ha piegato la sua vita e la famiglia, tant’è che oggi ha il cruccio di non aver seguito abbastanza i figli e il desiderio di riscattarsi quando diventerà nonna.

Lei ha origini contadine?

«Molto, molto umili. Mio padre è stato un operaio, emigrato».

Operaio, non contadino?

«Era figlio di contadini del Marchesato, di quelli interessati all’occupazione delle terre. Mio nonno era un concessionario di un pezzo di quella terra. Mio padre faceva il manovale. Era emigrato negli Stati Uniti perché stavano male».

Era emigrato da solo?

«Sì, la famiglia era rimasta qui». 

Che lavora faceva?

«L’edile».

Dunque, era un muratore?

«Manovale, manovale. Poi era stato male, è tornato qui a Nicastro ed è morto quando io avevo dieci anni. Mia madre si è trovata con tre bambini piccoli da mantenere per cui ha cominciato a lavorare. Faceva la bracciante agricola, raccoglieva l’uva, le olive, poi quando non c’era da lavorare nelle campagne faceva la collaboratrice familiare. Io ero la più grande di tre fratelli. Sono del 1956. Mio padre è scomparso nel 1966».

Erano anni di miracolo economico in Italia. In Calabria non si trovava un lavoro da manovale?

«Mio padre era emigrato prima, negli anni precedenti. In America stava bene, i problemi sono incominciati dopo la morte. Mia madre si è data da fare, ci ha fatto andare a scuola. Era una donna completamente analfabeta che però aveva l’idea che i figli dovevano fare una vita diversa dalla sua. Per puro caso è capitato che ero molto brava a scuola, avevo borse di studio, amavo studiare moltissimo, scelsi io il liceo classico per un’impuntatura. Avevo ideologizzato un po’ tutto». 

Ha fatto molti sacrifici?

«Sì, ho sempre lavoricchiato. Facevo la baby sitter, facevo tutto, mi arrangiavo. Importante è stato l’incontro con il movimento studentesco. Erano i primi anni Settanta. Lì, nel liceo abbiamo fatto alcune cose con il sindacato, a me interessava molto la condizione operaia».

Ma il liceo classico non era una scuola elitaria?

«Lo era, ma non per me. Ero diventata comunista già prima perché avevo avuto professori bravi».

Professori del liceo?

«Anche della scuola media. Ho cominciato a leggere».

Che cosa?

«Divoravo libri a quintali. Non ne avevo a casa, quindi i miei professori mi prestavano libri di continuo. Ho letto il “Manifesto” di Marx e Engels e “Stato e rivoluzione” di Lenin al quarto ginnasio, Gramsci al liceo, pentendomi perché poi per capirlo l’ho dovuto rileggere da grande. Amavo molto la letteratura, i grandi russi, i francesi, ho scoperto gli americani più tardi».

Come li sceglieva?

«Non li sceglievo io, me li davano».

Diceva prima che nel liceo vi occupavate molto di condizione operaia. Come mai?

«Allora c’erano i segantini, i ragazzini che lavoravano nelle segherie. Ma soprattutto c’era il fatto che il sindacato faceva le lotte bracciantili, delle raccoglitrici di olive che nella Piana rappresentavano l’occupazione femminile prevalente. Nel liceo facevamo assemblee invitando i rappresentanti sindacali».

Vien da pensare che a quel tempo l’interesse nelle scuole italiane per gli operai prese due strade: chi imboccò la via che portava alla sovversione e al terrorismo e chi, come nel suo caso, si impegnò nelle organizzazioni tradizionali del sindacato e della politica.

«Ero iscritta alla Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci. In quegli anni ho fatto anche l’esperienza dell’Udi, l’Unione Donne Italiane, a Lamezia e a Catanzaro eravamo trecento iscritte. Il pensiero della differenza è venuto dopo, allora ragionavo in termini sociali. La condizione delle donne per me era quella delle operaie. Poi il sindacato mi ha chiesto di dare una mano perché c’erano le lotte delle raccoglitrici».

Per fare cosa?

«I picchetti, andare a trovare a casa le raccoglitrici. Scoprii il sindacato e da lì non mi sono più mossa. Ho rinunciato a frequentare l’università, è stata una scelta».

La dignità del lavoro, è facile richiamare una figura mitica come Giuseppe Di Vittorio che aveva insegnato ai braccianti di Cerignola a non togliersi il cappello davanti ai padroni.

«Io ho preso da mia madre. Lei era una persona che anche nei periodi più difficili della nostra famiglia – ma questo non lo scriva -, quando eravamo piccoli e lei lavorava notte e giorno, ci diceva: se uno vi offre una caramella voi dite “l’ho già mangiata”. Cioè, mia madre aveva una grande dignità, era una donna non forte, perché era fragile per tanti aspetti, però aveva questo senso della dignità che ci ha trasmesso. Poi c’era la cultura di sinistra: lasciamo stare gli schematismi, gli ideologismi e le cose che poi con gli anni abbiamo messo in discussione, però era una grande risorsa di identità».

Nella casa di un operaio che a malapena aveva la quinta elementare era facile trovare anche tremila libri.

«Si compravano a rate, soprattutto quelli degli Editori Riuniti».

Sua madre come giudicò il suo impegno politico?

«Era spaventata. Al ritorno dal mio primo comizio in una campagna elettorale quando avevo diciotto anni, trovai le persiane chiuse, ma non lo scriva».

Perché chiede di non scrivere queste cose?

«Ma perché non interessano alla gente».

Questo lasciamo deciderlo alla gente. Torniamo a sua madre.

«Il suo sogno è che io facessi l’insegnante e mi sposassi. La sua aspirazione sociale era questa. E quindi quando ho incominciato a fare politica, a farlo da comunista – ero una delle poche donne a esporsi, c’era solo una parlamentare donna a Lamezia, Graziella Riga, un mito, era pure giovane e bella – mia madre ne fece un dramma. Questo accelerò anche inconsapevolmente la mia decisione di sposarmi. Lei non accettava. Prima di morire, qualche anno fa, mi ha detto: ma quando ti trovi un lavoro normale? Vedi, quella insegna, torna a casa alle due, sta con i figli e tu sempre in giro».

Che ricorda delle lotte delle raccoglitrici?

«Quelle lotte mi segnarono. Non tanto lo scontro sindacale tipico, quello che mi colpì non era il salario, che ovviamente era il motivo delle lotte, ma i dettagli, cioè il rapporto che c’era tra i padroni e le lavoratrici. Per esempio, una mi raccontò che quando raccoglievano le fragole, stando chinate come per le olive, passava il figlio del padrone e toccava il sedere. Oppure si andava a fare l’assemblea nell’azienda e non le trovavi perché come arrivavi sparivano nei filari, dove si nascondevano terrorizzate. Piccole cose, che messe insieme ti davano il senso di una condizione. Vivevo queste cose con rabbia, ero esaltata e adesso mi rendo conto quanto questo fosse semplificatorio, ma per me era una condizione inaccettabile che mi provocava indignazione. Avrei fatto qualunque cosa. Andavamo a fare i picchetti alle quattro del mattino». 

Aveva anche qualche soddisfazione?

«Gli accordi. Quando si vinceva. Anche di mille lire perché allora si facevano quaranta giorni di sciopero per mille lire. La gratificazione per me era quando le lavoratrici stavano insieme. Erano diverse da quando le vedevi una per una. Cento di loro insieme che si dicevano: sì, mo’ ma che si pensano, noi andiamo avanti, facciamo lo sciopero. Ti accorgevi di far parte di loro. La cosa più difficile da ottenere era proprio quello, il senso del collettivo. Da sole si temevano, quando le mettevi insieme scattava la solidarietà».

Sconfitte?

«Quasi sempre». 

Veniva la demoralizzazione?

«Era tremendo. Ma allora io non cedevo allo sconforto. Tendevo a giustificare le lavoratrici e dicevo: ci riprendiamo, ci rifacciamo».

Intanto studiava.

«Mi sono sposata, ho fatto due figli. Dopo il liceo ho collaborato alla Cgil per qualche anno. Scelsi di restare in Cgil facendo l’università lavorando, e non so se lo rifarei. Mi sono laureata che avevo già due figli. E adesso, appena finisco, mi riscriverò».

Perché?

«Ho studiato lettere, ho fatto una scelta di piacere, l’ho vissuta come un hobby. Adesso col tempo non ce la faccio, ma prima o poi riprenderò. Scelsi lettere perché mi rifiutavo di vivere tutto come un lavoro e di diventare un po’ arida, tecnicista, economista. Invece io penso che c’è l’anima, non lo dico in senso cattolico. C’è l’anima nel senso che ci deve essere uno spazio di valori. Come dire? Devi dare un significato che va al di là, non sono le mille lire dell’accordo, è un’altra cosa. Perciò pensavo che bisognava ritagliarsi uno spazio culturale che prescindesse dal lavoro, proprio per evitare di diventare quello che molti sindacalisti erano, e non mi piaceva molto». 

In altre parole cercava il respiro culturale per spezzare la routine quotidiana?

«Sì. Io penso che a volte le figure letterarie rendono molto meglio della concretezza del rapporto quotidiano. Non credo che sulla condizione degli umili ci sia qualcuno che abbia scritto più e meglio della letteratura nostra anche meridionale».

L’impegno sindacale si trasformò in un lavoro quando diventò funzionaria.

«Donatella Turtura, dirigente nazionale della Federbraccianti, venne qua, mi conobbe. Non so perché mi hanno preso. Avevo un carattere molto, molto difficile. Quando venivano questi del nazionale, io li contestavo. Invece la Turtura fece pressioni perché io entrassi nella Cgil».

A quel tempo c’era un gruppo dirigente importante, Lama…

«Di grande valenza, quello della Federbraccianti in particolare. La Turtura è stata una grande dirigente, capace di individuare le persone e di portarle avanti. Poi ho chiuso quest’esperienza e sono passata ai disoccupati inventando le leghe dei disoccupati».

Come maturò quella scelta?

«Decidemmo che il sindacato si doveva occupare dei giovani. Cosa che se potessi, in forme diverse, farei anche adesso. Non ci riesco perché evidentemente non sono più giovane. Facemmo leghe con migliaia e migliaia di ragazzi. Molta della gente che lavora e che si trova al sindacato viene dall’esperienza delle leghe. Abbiamo fatto comitati per il lavoro, cooperative, di tutto».

In Calabria è forse la cosa più difficile affrontare il tema del lavoro.

«Certo, perché poi se non hai la risposta che succede? Lo stimolo era mettere insieme i giovani, dargli voce. C’erano anche i problemi, non solo le cose belle, ma c’era uno spirito positivo».

Che cosa non andava?

«Non c’era il lavoro. Al massimo contrattavi la stabilizzazione della 285. Il lavoro qui è girato sempre attorno all’impiego pubblico. È uno dei grandi problemi, anche di oggi perché in una situazione economica e di mercato come questa il rischio è sempre quello delle risposte assistenziali». 

Anche a Napoli si posero il problema quando nacquero i comitati dei disoccupati, ma poi l’esperienza si rivelò drammatica per la Cgil che fu occupata e devastata dagli stessi.

«Da noi la storia è molto diversa perché qui non sono mai nati comitati spontanei, questi sono stati una creazione della Cgil. Noi stimolavamo, che poi abbiamo fatto bene o fatto male lasciamolo decidere agli storici. L’altra differenza è che in Calabria il rapporto con la politica è stato sempre molto, molto invasivo. I disoccupati qui non hanno mai avuto un’organizzazione “contro” ma “per”.  La 285 interessava 15-20mila giovani. Quel movimento ha prodotto dei risultati».

Che fine fece quell’esperienza delle leghe?

«Col tempo è morta, non c’era la maturità organizzativa per andare avanti».

Dopo che fece?

«Per alcuni mesi feci un’esperienza confederale perché c’era una crisi nel gruppo dirigente del sindacato. La confederazione mi sembrava una sovrastruttura, a me piaceva stare con la gente, fare contrattazione. Così mi mandarono a dirigere la funzione pubblica».

Un altro settore cruciale in Calabria.

«Io non capivo nulla di diritto amministrativo, non avevo mai visto una delibera. Mi misi a studiare i Cassese e a girare per gli ospedali. Dopo tre anni diventai il segretario della funzione pubblica, fui la prima donna ad avere una responsabilità del genere. Durò solo tre anni, perché poi dopo l’elezione di Pignataro a segretario regionale della Cgil entrai nella segreteria regionale dove sono stata otto anni».

Poi Pignataro è andato in Parlamento e lei è diventata segretario regionale.

«Dopo una spaccatura interna pesante in Cgil».

Ha pesato il fatto di essere donna in questa elezione?

«Pesa sempre. Chi dice il contrario è ipocrita». 

Per passare l’esame le donne devono dare sempre qualcosa in più?

«Intanto è questo. L’altro è che ti chiedono un prezzo altissimo». 

Quale?

«Non è quello di stare dentro l’organizzazione. Quando ho fatto la Federbraccianti mi sono occupata anche dei forestali, era l’epoca in cui fu occupato l’aeroporto, non ho mai avuto problemi con i lavoratori, anche con i forestali, quelli più tosti. Non mi sono mai sentita minorata perché donna. Anche in altro senso il problema non c’è: penso a chi dice che sei promossa proprio perché donna. Questi sono falsi problemi».

I problemi veri?

«È che tu ogni mattina ti chiedi se il prezzo che paghi vale la pena. C’è un prezzo altissimo. Per esempio, se tu scegli di fare figli è un dramma».

Quanti anni hanno i suoi figli?

«Flavio ha 26 anni, Annalisa 23. Li ho cresciuti da sola perché ho divorziato. Penso che le difficoltà le hanno pagate soprattutto loro, perché ho dato poco. Ho un grandissimo senso di colpa. Il lavoro assorbe troppo, e non è giusto». 

Hanno sofferto?

«Ora che sono grandi lo capisco». 

Le rinfacciano qualcosa?

«Non amano il mio lavoro. Sono fuori tutti e due, e io sono felice che siano fuori. Li ho incoraggiati a non restare in Calabria. L’una studia relazioni internazionali a Bologna ed è appassionata di cooperazione per cui vorrebbe diventare una specie di missionaria laica, l’altro fa il dottorato di ricerca in ingegneria in Spagna, a Valencia. Mi mancano da morire, ma sono contenta. Preferisco che stiano fuori perché per quello che faccio sto più tranquilla. Inoltre voglio che allarghino gli orizzonti. E poi loro vivono il rapporto con il mio lavoro in modo molto conflittuale».

Sono di sinistra?

«Tutti e due. Alla mia sinistra. La femmina è più verdeggiante. Con lei mi sento tre-quattro volte al giorno, col maschio un po’ meno».

Insomma hanno preso dalla mamma?

«Sì. Annalisa è esterofila, ha la passione per le lingue».

È un destino per la Calabria che i giovani debbano andarsene?

«Nel caso mio è diverso. Io ho una struttura familiare piccola, non ho molti parenti. Loro hanno praticamente solo me».

Eppure sono troppi che non vedono una prospettiva reale di futuro in questa terra. Un genitore che non voglia veder scappare i propri figli si dà da fare per trovare loro una sistemazione. Ma è una sistemazione che uccide la speranza…

«E che chiude… Così uccidono le persone. I ragazzi vengono uccisi, per stare al termine usato da lei, ancora prima, quando devono piegarsi e dire grazie. Allora preferisco, con tutta la sofferenza che c’è in questa espressione – e mi creda che è vera, perché essendo sola i figli li vorrei vicino – che siano fuori piuttosto che debbano dire grazie a qualcuno e debbano chiedere qualcosa a qualcuno e non fondarsi sui loro meriti e le loro capacità, se le hanno. Io non chiederò mai, né per i miei figli né per nessun altro, niente a nessuno perché non lo sopporto culturalmente. Il male maggiore che si sta facendo ai giovani calabresi è questo. La colpa maggiore che ha questa politica è che si ammazza la dignità e, con questo, l’orgoglio, l’idea del futuro, un’idea civica diversa, un’etica, un modo di stare insieme diverso. Poi viene tutto il resto, il malaffare».

Il sindacato che fa?

«Il sindacato purtroppo rappresenta poco i giovani. Questo è il dramma della Cgil. Noi rappresentiamo i precari, quindi quelli che già hanno un percorso collettivo. Uno dei miei assili è se si possano individuare i canali per entrare in contatto con loro».

Se non si rappresentano i giovani, non si rappresenta il futuro.

«Appunto. Mi ha fatto molto piacere che nello sciopero generale ultimo c’erano tantissimi giovani, e non erano gli studenti perché le scuole erano chiuse. Vuol dire che c’è una domanda verso di noi che noi non riusciamo a tradurre in fatto organizzativo».

Ha ricordato lo sciopero generale contro un governo regionale sulla carta amico. Che è successo?

«C’è stata un’esperienza deludente della giunta regionale sia per quello che ha prodotto sia rispetto alle attese. Avevamo passato cinque anni infernali con il centrodestra, la base della Cgil ha spinto e sostenuto il centrosinistra. Quello che è accaduto dopo è stato assolutamente distante da queste attese. Oggettivamente il bilancio di giunta è stato magro. Adesso abbiamo un tavolo, dove si incomincia a discutere. Io non amo la politica com’è oggi».

In che senso?

«È tradizione che i segretari regionali della Cgil passino a fare politica. Io penso che condizione della mia libertà è dire che oggi e sempre non intendo far politica. Secondo: è una politica che non mi piace, perché è una politica per chi ha, per chi deve gestire potere, è una politica senza partecipazione, che non ha a cuore l’interesse collettivo perché è una politica corrotta». 

Corruzione, l’altra piaga della società calabrese è la delinquenza organizzata.

«Credo che questo sia il problema più grande della Calabria, sempre sottovalutato, secondo me molto più grosso di quanto ne abbiamo percezione. È un condizionamento pesante, vero, che rischia di permeare tutta la società. L’incontri sempre, spesso non sai di incontrarlo. Sono sotto shock per l’arresto di un delegato della Cgil nell’inchiesta sui lavori dell’A3. Mi sono detta: se si arriva a tanto, cosa c’è di più di quello che vediamo? Ci vuole sicuramente qualcosa di più della repressione, occorre una rivolta morale e culturale della politica, delle istituzioni. Ha ragione il prefetto De Sena: se il piccolo comune non comincia a far funzionare i servizi e a porsi l’obiettivo di dare risposte collettive e non individuali, noi non ne verremo mai fuori. La chiave è questa. Fin quando non ottengo giustizia dal tribunale, fin quando per avere una visita specialistica mi rivolgo a chi sa e a chi può, fin quando per il lavoro devo raccomandarmi, non c’è futuro. C’è bisogno di ricostruire un’idea di Stato che storicamente è un problema della Calabria e del Mezzogiorno».

Il vostro segretario nazionale, Guglielmo Epifani, è venuto allo sciopero regionale. Una scelta di campo?

«Epifani si è speso personalmente sulla Calabria, come aveva fatto Cofferati. Il fatto è che in Calabria non viene più nessuno. Nessuno vuole sporcarsi le mani con la Calabria. Epifani ha condiviso con noi il percorso che ci ha portato allo sciopero, ne ha appoggiato le motivazioni, ha continuato a seguirci dopo, è vicino ai nostri problemi. E c’è di più: se io, mio malgrado perché non era questo il sogno della mia vita, sono qui è perché Epifani l’ha voluto. Io sono stata proposta da lui. E quasi imposta».

Ma qual è il sogno della sua vita?

«In primo luogo voglio essere nonna, per fare quello che non ho fatto con i miei figli perché non c’ero quando gli è spuntato il dentino, quando era il compleanno. Vorrei godermi i nipotini e poi dedicarmi alla filosofia orientale perché quella occidentale la conosco».

I filosofi che ha amato di più?

«Sono ferma a quando avevo diciotto anni: Schopenhauer. Però, amo anche James, mi piace molto Sant’Agostino». 

Nella terra della Magna Grecia chi mette sull’Olimpo?

«Eraclito». 

Perché?

«Mamma mia, perché panta rei, perché è il mondo, è la vita, è l’universo».

Altri amori?

«La scienza, la fisica. Adoro Einstein e Heisenberg».

Ha tempo per leggere?

«Da un anno sono obbligata a letture legate alla mia attività, come Gallino o Bauman. Non ho tempo per il resto».

Ottimista per il futuro della Calabria?

«Economicamente e culturalmente sì, perché la collocazione nel Mediterraneo è davvero strategica. Ma c’è bisogno di una classe dirigente, e non parlo solo di quella politica. Serve un grande scatto di generosità, ognuno deve guardare a quello che c’è dopo. Questa classe dirigente ha fallito, ne occorre un’altra».

Le donne possono essere una risorsa per la Calabria?

«Sulle donne si è retta e si regge questa regione, pensi al loro ruolo nell’emigrazione e al lavoro nei campi. Una volta ero contro le quote rosa perché mi sembrava una cosa da Wwf, oggi non la penso più così perché mi sono convinta che la presenza delle donne va imposta, altrimenti continueremo ad essere solo delle aggiunte».

Sulla tomba del padre di chi le parla, un operaio del cantiere navale di Castellammare di Stabia, è incisa la frase più significativa pronunciata da Giorgio Napolitano nell’orazione funebre: la moralità operaia. Per lei che cos’è la moralità operaia?

«È un modo di stare al mondo, coinvolge l’insieme della vita. Vuol dire dignità, sobrietà, non avere bisogno della grande casa o del grande vestito per stare bene. Vuol dire sobrietà nei consumi e nello stile di vita. Vuol dire concretezza del vivere, legarsi alla terra come materialità del vivere. Vuol dire saper distinguere i bisogni veri da quelli presunti senza farsi contaminare dalle mode. Ho insegnato ai miei figli per principio di non usare i vestiti firmati, glieli compravo anche se costavano di più, ma gli dicevo: se ti piace prendilo ma non perché è Nike. E poi penso che moralità operaia significhi anche un modo di stare con gli altri. Per esempio, rispettare le persone per quelle che sono e non per quello che hanno. A me piace guardare le persone negli occhi, conoscerle come persone. Io che dico sempre quello che penso, e perciò durerò poco nel mio lavoro, risulto antipatica, ma penso che nella moralità operaia ci sia molto il senso della franchezza, qualche volta della rudezza, e questo vuol dire autenticità. La civiltà delle immagini dove tutto è quello che sembri, mi dà fastidio. E poi nella moralità operaia c’è il dovere, prima ci sono le cose che devo, poi forse il resto, di sicuro non c’è la costruzione del personaggio nel teatrino dei nostri giorni. La vera vita è la vita vera».