Questa è una Calabria da esportazione. I filari di viti coprono duecento ettari, anche dal promontorio più alto lo sguardo non può contenerli tutti, si distinguono alcune zone coltivate a ulivo e una spirale dove sono concentrati quasi duecento vitigni autoctoni ritrovati meticolosamente in tutto il territorio calabro e su cui è in corso un’attività di ricerca di cui presto si apprezzeranno importanti risultati. Nicodemo Librandi innesta spesso le quattro ruote motrici del Grand Vitara e ci fa salire e scendere per impervi percorsi che lui solo intravede e percorre con consumata abilità. Questo di Casabona è il pezzo più grande dell’azienda di famiglia, altri centonove ettari coltivati sono distribuiti tra Cirò, Melissa e Strongoli. L’annata è buona, la produzione sarà più contenuta ma la qualità del vino sarà eccezionale. Qui ogni acino è sotto controllo e ha una storia e un nome. Nulla è lasciato al caso, la natura fa il suo millenario corso pronta a regalare tesori a condizione che l’uomo sappia assecondarla senza violentarla anzi esaltandone la bellezza e la prodigalità. Se poi c’è anche una scientifica visione organizzativa il miracolo è servito.

Professore, che c’entra la matematica con il vino?

«Mio padre aveva una piccola azienda agricola e con sacrificio mi fece laureare in matematica. Dopo di che la mia passione per la terra mi ha portato a scegliere. Dunque, che c’entra la matematica con il vino? Io dai miei studi ho un vantaggio soprattutto nell’organizzazione. È come quando facevo geometria al liceo scientifico e non riuscivo a risolvere un problema: mi calmavo, mi chiedevo quali erano i dati e quali le incognite e procedevo. Questo tipo di ragionamento l’ho portato in azienda. Cosa devo fare? Il vino? Per farlo bisogna avere le uve e le attrezzature. Detta così è molto semplice».

Suo padre era un coltivatore diretto di Cirò. Quanti figli?

«Sei. Antonio che ha iniziato l’attività di imbottigliamento dei prodotti della piccola terra di mio padre. Lui, il primo figlio maschio seguito da tre femmine, è del 1932: quando doveva dedicarsi agli studi c’era la guerra per cui, per la paura che potesse succedergli qualcosa, lo fecero restare in azienda fino al militare a vendere i prodotti che faceva mio padre e poi man mano ha iniziato la commercializzazione del vino. Io sono nato nel 1945 e un altro fratello è nato nel 1946».

Lei dove ha studiato?

«Ero portato particolarmente per le materie scientifiche, poco per il disegno. Volevo fare il liceo scientifico che allora non c’era nemmeno a Crotone. Un amico che insegnava a liceo dei Salesiani a Taranto mi convinse a preferirlo a quello di Catanzaro. Quanto all’università ho fatto il biennio di ingegneria a Bologna, poi ho iniziato a seguire scienza delle costruzioni, chimica e meccanica applicata alle macchine. Essendo un irrequieto non riuscivo a seguire tutte le lezioni, mi sono trasferito a Roma dove più che lo studente facevo il venditore di vino».

E la laurea?

«Dissi a mio padre che non volevo studiare e preferivo occuparmi del vino. Lui ci rimase male: fai quello che vuoi, ma visto che sei stato pure in collegio la soddisfazione della laurea ce la devi dare. E così mi sono laureato in matematica».

Ha insegnato?

«L’ho fatto perché sono stato quasi costretto. Ho insegnato al liceo scientifico di Cirò Superiore fino al 1989, ma non riuscivo a conciliare le due attività. Mio fratello si interessava delle banche e dell’amministrazione, io fin dal 1971, quando mi sono laureato, della produzione e della commercializzazione».

Nel 1989 cosa successe?

«Andai in crisi. Avevo fatto ventiquattro ore e mezza di lavoro continuo in cantina durante la vendemmia perché si erano ammalati uno dopo l’altro i cantinieri. Alle otto e dieci del mattino mi sono sentito male e ho pensato all’infarto. Fui ricoverato a Catanzaro ed ebbi una forma di ischemia abbastanza grave. Dopo tre mesi feci la prova da sforzo ma quando il medico mi disse che non avevo avuto nulla, era stata tanta la paura che svenni. E decisi che non potevo più conciliare scuola e azienda e quindi mi licenziai».

Le piaceva insegnare?

«Mi piaceva stare con i giovani. Però, sa come succede nei paesi, raccomandazioni, qualcuno dava fastidio, i contenuti dell’insegnamento si erano svuotati almeno rispetto alla formazione rigorosa che avevo avuto io ai Salesiani: tanto per dire, io all’esame di maturità facevo la metrica del latino. Era cambiato tutto».

E si dedicò solo all’azienda che comunque aveva seguito da vicino dal 1971.

«Sì, mi ero occupato della commercializzazione prima in Calabria, poi avevo conosciuto i distributori della Wodka Wiborowa, che allora si beveva come acqua e a cui diedi la rappresentanza per tutto il nord. Avevo un buon mercato nella zona di Roma che avevo già seguito molto bene. L’azienda ha avuto una crescita molto veloce».

Quando c’è stata la svolta, il decollo?

«Più che il momento di svolta, si deve parlare del modo di organizzare il lavoro. La carta vincente è stato l’investimento nella commercializzazione, che abbiamo fatto di persona. Dopo il lavoro in Italia, io mi sono spostato all’estero in un’epoca in cui gli unici vini meridionali che si vedevano erano quelli dei Mastroberardino, che ritengo dei maestri: Walter Mastroberardino l’ho visto in Sicilia a commercializzare i suoi prodotti. Andare sul mercato impone regole precise».

Di che tipo?

«Non puoi dire, per esempio, che il Cirò è il miglior vino del mondo e che non si vende perché gli altri non lo capiscono. Il mercato mi ha imposto di essere critico verso il mio prodotto. Così nacque la prima esigenza: un enologo serio. Andai a Lecce e convinsi Severino Garofano, un irpino che all’inizio non voleva prenderci in considerazione perché eravamo piccolini. Sul mercato vedevo le manchevolezze del prodotto e in azienda lavoravamo per superarle. Anche all’estero non andavo dai paesani, che pure erano grandi bevitori di vino, perché io dovevo stare sul mercato internazionale e i difetti me li avrebbe detti un distributore e non l’amico conterraneo. Quando i prodotti non andavano bene siamo rimasti indietro, appena i prodotti hanno incominciato ad avere quel grado di piacevolezza o di internazionalità, c’è stata la crescita. E questa è stata sempre caratterizzata, anche adesso, dal fatto che la nostra commercializzazione è più ampia della nostra produzione. Abbiamo 359 ettari di terreno, io sono carente nella produzione tanto è vero che siamo al sessanta per cento di nostro, l’altro quaranta – il Cirò – è coperto, con un rapporto consolidato nel tempo e seguendo le nostre indicazioni, da circa 120 produttori. Dall’anno scorso abbiamo portato le nostre tecniche nei terreni dei nostri produttori, per coinvolgerli in un discorso di qualità».

Sul vostro sito c’è la cartina del mondo con l’indicazione dei luoghi che servite. Ma davvero arrivate in tanti posti?

«Certo. In Germania siamo presenti capillarmente come in Italia, lì abbiamo il venti per cento della nostra attività, la Germania io l’ho girata palmo a palmo dormendo in macchina e mangiando panini. Andiamo in Corea, in Russia, in Giappone…».

A Tokyo una bottiglia di Duca Sanfelice quanto costa?

«Sa che non lo so. Sicuramente costa molto perché i giapponesi sanno apprezzare. L’anno scorso ho fatto dei seminari dal sud al nord del Giappone parlando della Calabria. Quest’anno parleremo di cucina e dei prodotti che lì conoscono benissimo come la ‘nduja, la cipolla rossa di Troppa e il peperoncino. In Corea stanno facendo uno spot pubblicitario sul peperoncino che si sposa molto bene con il Duca Sanfelice».

Quanti figli?

«Io ne ho due, di trentuno e trent’anni, mio fratello cinque di cui due già lavorano in azienda». 

I suoi che fanno?

«Raffaele è laureato alla Bocconi in economia politica ed è in azienda. Il secondo, Paolo, dopo due anni di legge, si è laureato in filosofia. Sono anche nonno, e mio figlio lo ha chiamato come me facendomi emozionare».

Lei matematico, suo figlio filosofo, in questa terra non guasta.

«Certo. Paolo è venuto in azienda anche se non era proprio d’accordo perché c’erano già il fratello e i cugini. Ha aggiunto che lui si interessa di filosofia, gli ho risposto che io sono laureato in matematica. Ha fatto un master di enologia, e ora si occupa di campagna e mercati in Canada, America, Giappone. Tutt’e due i miei figli conoscono bene l’inglese, io ne conosco solo qualche parola giusto per orientarmi in aeroporto. Raffaele è stato sei mesi a Dublino, Paolo ha fatto il cameriere a Seattle».

Cameriere, e come mai?

«L’ho chiesto a un amico ristoratore proprio per fargli imparare l’inglese. L’ha preso come lavapiatti, poi l’ha promosso cameriere perché è stato bravo».

Inizialmente operavate a Cirò. Com’è avvenuta l’espansione?

«Su consiglio di Garofano prendemmo un terreno a Strongoli dove iniziammo a produrre grandi vini utilizzando anche vitigni internazionali come il Cabernet Sauvignon, che, contaminato con il Gaglioppo, ci consentì di produrre il Gravello, che già dalla prima annata, nel 1988, ebbe il riconoscimento al concorso internazionale di Verona quando era una cosa seria. Quando sentii – e non me l’aspettavo – che premiavano “un vino importante del Sud” e inquadrarono il Gravello, mi stava venendo un infarto».

Ma com’è che ha tanti marchi?

«C’era un abuso del Cirò, tutti lo producevano ma se metteva le botti una a fianco dell’altra ognuna conteneva un prodotto diverso dall’altra. Diciamo che non c’era e non c’è il rispetto della tipicità del prodotto. Per cui, dovendo vendere il vino e lavorando sulla qualità, mi sono dovuto inventare i marchi. All’inizio è stato abbastanza difficile, adesso sta andando bene».

Prima introduceste i vini internazionali, poi siete passati ai vitigni autoctoni. Perché?

«Ad una fiera internazionale di Bruxelles assaggiando venticinque qualità diverse di Cabernet prodotti in tutto il mondo, dal Cile all’Ungheria, pensai al Cirò e ai vitigni esistenti in Calabria e di cui si era persa memoria. Così nacque il primo campetto sperimentale nel 1993 con il Magliocco, la Marcigliana e il Mantonico. Fatte le prime vinificazioni, la qualità del vino mi piaceva moltissimo. Il vecchio enologo Garofano non ci credeva, nel 1997 decisi che non avrei più impiantato vitigni internazionali tranne quelli che servivano per la commercializzazione del Critone e di altri vini».

Come andò a finire con Garofano?

«Lui era un grande assaggiatore, a livello di palato era insuperabile ma nella vigna non dava nessun contributo, e con un’azienda così cresciuta avevo bisogno sia dell’assaggiatore ma soprattutto dei consigli e delle direttive da dare. Per cui andai al nord, mi piacevano molto i vini che faceva Donato Lanati, vini che erano eleganti. E poi Lanati era additato come lo scienziato del vino, aveva un laboratorio, aveva un’equipe. Confessò di non conoscere i vini calabresi ma si mostrò entusiasta del mio progetto di una produzione autosufficiente e lo definì così: mi fa sangue. Aggiunse che lui si sarebbe avvalso della consulenza del professore Attilio Scienza. E così si avviò la ricerca sui vitigni autoctoni con i primi campi sperimentali in questo territorio di Casabona».

Un modo per stare al passo con il grande fenomeno della cultura del vino che da anni fa tendenza. Le pare?

«Sicuramente. Pensi, infatti, allo sforzo di dare un taglio culturale alla nostra attività. Prezzi, qualità, ma non bastava più. Ho pensato alla storia. Il vino più antico del mondo, ma chi te lo dice? Ho conosciuto l’architetto Marinella De Bonis di Cosenza che mi chiedeva informazioni su Cirò per un lavoro che stava facendo sui vini autoctoni. Più tardi mi disse che voleva farmi vedere il lavoro e mi chiese di far correggere la bozza al professore Scienza. E questi sfogliando il testo “Terre d’uva”, rimase colpito dall’enorme quantità di vitigni autoctoni calabresi: nel testo erano elencate 706 varietà di uva che venivano anticamente coltivate. Mi propose di fare un giro e ad agosto siamo partiti da Verbicaro fino ad arrivare a Monte San Giovanni: cinque giorni durante i quali abbiamo selezionato tutte le uve che ci sono sembrate diverse, le abbiamo portato qui e nel 2003 abbiamo fatto un campo di ricerca a spirale con 189 varietà».

La ricerca a che ha portato?

«Lo studio del Dna ci ha dimostrato che ci sono oltre 75 varietà uniche, vale a dire che non hanno riscontro nella tavola base mondiale della vite. Su questo stiamo facendo uno studio con il Cnr di Torino. Ed è la prima volta che in Calabria si sta realizzando una ricerca sistematica sulle nostre colture. Per noi lavorano specialisti di tutte le materie. L’anno scorso abbiamo presentato i primi vini sperimentali, stiamo selezionando i vitigni giusti, penso che nel giro di tre anni avremo già la moltiplicazione di queste piante. È un lavoro massacrante ma di grande soddisfazione».

La ricerca è un vostro fiore all’occhiello ed è un patrimonio per questo territorio nel quale peraltro si sono create tante occasioni di lavoro.

«La Calabria ha un’immagine negativa. Qui da noi arrivano da tutto il mondo, e da un lato mi fa piacere e dall’altra mi dà fastidio, perché io sono un calabrese orgoglioso, sentirmi dire: anche in Calabria avete queste realtà. L’estensione, la produzione e la ricerca sono un dato importante non solo a livello regionale, e poi almeno un paio di centinaia di persone lavorano con noi, a parte l’indotto. C’è un’altra riflessione da fare: dall’agricoltura scappano tutti perché questa risulta molto staccata dalla commercializzazione, però in cantina ho operai specializzati che a livello di preparazione non hanno nulla da invidiare a chi si qualifica enologo».

Quanto ha contato l’unità della famiglia nei vostri successi?

«Come lei sa, quest’intervista l’avrei voluta fare insieme a mio fratello. È molto importante la famiglia. Eravamo sei figli, ora purtroppo siamo in cinque, però mia madre Teresa, senza mai imporre nulla, ci costringeva con modi garbati a restare tutti insieme nelle ricorrenze. Quando abbiamo comprato questa azienda di Casabona, a mio fratello ho detto: noi possiamo avere qualsiasi discussione, ma quando io sbaglio tu devi fare quello che facevi quando ero piccolo, mi devi prendere a schiaffi…».

Siete riusciti a trasferire ai figli quest’idea dell’unità della famiglia?

«Quando da una piccola realtà ci siamo trasformati in una grande azienda abbiamo pensato al futuro creando due società, una spa agricola e una spa viticola. La separazione oltre ad essere funzionale alle dimensioni dell’azienda consente di dare ruolo ai componenti della famiglia. Se non riuscissimo a trasferire ai figli le nostre motivazioni e i sacrifici fatti, noi saremmo dei falliti».

Sua moglie si occupa di vino?

«Ha fatto un corso di sommelier, ma noi siamo un po’ meridionali per cui mia moglie e mia cognata, che hanno insegnato, hanno fatto molto per l’accoglienza in famiglia, curando le pubbliche relazioni e dando anche un taglio culturale all’azienda. Abbiamo la Casetta, un centro culturale dove periodicamente si fanno degli incontri, sul vino, sull’olio, sull’agricoltura».

Com’è nata la produzione dell’olio?

«Tanti anni fa andando fuori mi chiedevano l’olio, e facevo spesso brutte figure. Adesso apprezzano l’olio di qualità che produciamo in Calabria. Dopo la vigna abbiamo pensato agli uliveti che coprono cento ettari e abbiamo applicato gli stessi standard di qualità».

Abbiamo passato in rassegna quasi tutta la famiglia. Potremmo inserire anche degli altri componenti, dei parenti un po’ particolari. Ecco dei nomi, a lei un pensiero su ognuno di loro. Magno Megonio.

«Nella nostra azienda abbiamo, a proposito di vini, delle piramidi. Fino ad ora in testa c’è il Gravello, io vorrei vedere all’apice il Magno Megonio, che è il frutto di una nostra intuizione. È ottenuto da un vitigno nostro, il Magliocco, che si può coltivare solo in Calabria. Perché questo nome? In considerazione dell’amore per la nostra terra. Magno Megonio è il primo personaggio di cui si ha una traccia scritta sul vino calabrese, era un centurione romano che ha lasciato agli antichi abitanti di Strongoli una vigna e diecimila sesterzi, com’è documentato da una colonna marmorea. Motivo storico e orgoglio calabrese».

Cirò.

«È un figlio a cui si è particolarmente legati e lo vorresti più bello di quello che è».

Asylia.

«È un raccomandato che mi sta dando grande soddisfazione. Asylia è ottenuto da Gaglioppo, io non volevo fare un altro Cirò perché la doc Melissa è simile al Cirò, e non volevo cannibalizzare il Cirò. Avendo però un vigneto dell’area del Melissa, l’ho fatto come una volta si faceva il Cirò: dopo due giorni di macerazione veniva vinificato e lasciato fermentare. Un vino moderno a cui sono affezionato».

Terre Lontane.

«Partiamo dal nome. Ero arrivato con una Fiat 131 a Copenaghen, guardai la cartina geografica e mi dissi: come sono lontano dalla Calabria. È un rosato che nasce da un matrimonio tra Gaglioppo e Cabernet».

Un altro matrimonio: Gravello.

«Mi ha fatto piangere quando ho avuto il primo riconoscimento. Ci ha dato l’immagine dei produttori di qualità. Mi è particolarmente caro».

Efeso.

«Anche qui c’è stata una nostra sfida. Nella vita sono modesto ma nel lavoro sono molto ambizioso. Ero in Bourgogne e assaggiai un bianco veramente importante. Comprai delle bottiglie e le portai a Lanati: un vino bianco importante me lo fai? Ogni anno lui veniva per la vendemmia del rosso e io sulla vigna avevo ancora Montonico, con cui facevo il passito. Mi ha detto: raccoglimi mezzi grappoli. E abbiamo fatto questo bianco. Lo mandai per l’assaggio a dei giornalisti. Un giorno mi chiamò Veronelli e mi disse: Nicodemo, alla terza bottiglia di Efeso mi sono inginocchiato. Non solo con i rossi ma anche con i bianchi la Calabria ha una potenzialità assoluta».

Facciamo una pausa con un passito: le Passule.

«È un frutto della commercializzazione, ce lo chiedevano i nostri distributori».

Prima di venire agli ultimi tre vini di famiglia, un cenno alla grappa.

«È nata anche questa per esigenze di commercializzazione quando, finita l’epoca degli amari, venne quella delle grappe».

Labella.

«Un vino allegro. Un frizzante, molto fresco, non lo esportiamo, lo vendiamo solo in Calabria».

Duca Sanfelice.

«È ottenuto da Gaglioppo. Molto buono il rapporto qualità-prezzo. Ed è il vino su cui stiamo studiando di più. Siamo alla ricerca di quel Gaglioppo che abbia un acino piccolo come quelli di una volta. Stiamo facendo una selezione accurata e uno studio importantissimo. Sarà il vino del futuro dell’azienda Librandi».    

E per finire il Critone.

«Noi abbiamo cominciato con il Cirò rosso e il Cirò bianco, e tutti gli altri vini li abbiamo voluti e fatti noi. Il Critone col Gravello  ci ha dato notorietà. Abbiamo utilizzato vitigni internazionali e abbiamo fatto uno Chardonnay in Calabria. Siamo partiti da ventimila bottiglia, ora ne facciamo trecentomila. Lo esportiamo in tutto il mondo, e viene apprezzato anche a Bolzano, che è tutto dire».

Un vino futuro?

«Uno spumante che andrà in vendita l’anno venturo, un bianco e un rosato».

Ha trovato già il nome?

«Ancora no. Vuole suggerirlo lei?».

Senza andare al nord, fermiamoci al sud, in Campania. Lì i vini costano moltissimo rispetto, per esempio, ai suoi. Da che dipende?

«È un problema di immagine dei prodotti calabresi. In Campania la storia del vino l’ha fatta Mastroberardino, che è stato il caposcuola e quelli che hanno fatto vino si sono riferiti al suo modello. In Calabria questo non c’è stato, anzi. Il Cirò Librandi è venduto a basso prezzo perché accanto al Librandi ci sono i Cirò da un euro e cinquanta. Io mi sono dovuto inventare i marchi, e il Cirò non è un marchio».

Librandi parla di Calabria, una Calabria da esportazione. Sente la responsabilità?

«In Calabria abbiamo le potenzialità di fare quello che vogliamo. La nostra azienda è cresciuta in fretta perché ce lo consente il territorio, ce lo consente il clima e ce lo consentono soprattutto i nostri emigranti che sono diventati i promotori più affezionati dei nostri prodotti quando ne hanno scoperto la qualità. Per la Calabria ho un grande rammarico. Settecento chilometri di costa, ricca di pesce, con la montagna in mezzo, con una varietà di prodotti unica. Si produce il castagno, a dieci chilometri, nella casa del sindaco di Longobardi, ho trovato un albero di banane con il frutto maturo. Come si fa a definire povera la Calabria? Mi arrabbio quando sento parlare così».

Siete un’eccezione o un modello?

«Come la mia azienda ce ne sono tante che sono cresciute e sono cresciute bene. Abbiamo aperto una strada. Nel mio campo la Calabria consuma il doppio di quanto produce, c’è tanto da fare».

Il vino preferito?

«Rosso… ma non vorrei far torto a nessuno».

Che cos’è per lei un bicchiere di vino?

«Quando bevo un bicchiere di vino sento un bisogno di riconoscimento verso chi lo ha prodotto e il piacere di sapere che è frutto di intuizione e di conoscenza. E so che è il giusto premio per il lavoro e l’attenzione di anni di un produttore. Pensi, un vino può essere grande intuendo il giorno della raccolta. Il mio piacere è il frutto di sacrifici di anni».

Suo nipote quanti anni ha?

«Tre anni. Gli ho fatto già piantare una vite, un selvatico che dovrà essere innestato. Gli auguro di fare un giorno vini più grandi di quelli che ho fatto io».