Nei testi che parlano di lui si legge: Alfredo Pirri nasce a Cosenza il 25 gennaio 1957, vive e lavora a Roma. Il legame con la Calabria inizia e finisce qui. Nel suo curriculum c’è tutto il mondo, mostre, installazioni, opere, libri di un calabrese che ha un posto di rilievo nell’arte moderna, ma, a parte una fugace apparizione nel 1994 a Cosenza, manca la sua terra. Sua moglie, Valentina Valentini, che ora insegna alla Sapienza di Roma, ha lavorato per anni all’Unical realizzando il progetto del teatro dell’università. Arte, teatro, cinema: Anna e Chiara, le due figlie, si sono già ritagliate uno spazio nel film “La tigre e la neve” di Roberto Benigni. Dietro ci sono radici, c’è storia, c’è ricerca, c’è politica, davanti, come si conviene ad un artista, ci sono le opere. Opere importanti come “Un segno nel Foro di Cesare” a Roma con i suoi specchi che reinventano i Fori Imperiali. 

Partiamo dai colori. Il rosa.

«Una via intermedia per arrivare al rosso.  O, meglio, un rosso un po’ sbiadito. Potrebbe, però essere, e la cosa comincia ad interessarmi di più, l’ombra del rosso, un colore che uso molto, ma mai direttamente, utilizzo di più la sua ombra che si riverbera su una superficie bianca. Il rosa è un colore che mi piace molto, perché è come se fosse un’emanazione luminosa del suo colore principale e ne stempera la violenza e l’aggressività».

Il nero.

«Con il nero ho un rapporto conflittuale. Non vesto, per esempio, nero, come invece capita molto nel mondo dell’arte… quasi una rinuncia a vestirsi e allora si veste di nero. L’unica cosa del nero che mi interessa è quando diventa il tratto di un disegno. Ma il disegno non è quasi mai veramente nero, molto più spesso è grigio e si avvicina al nero senza esserlo».

Come per il rosso, anche per il nero l’attrae un suo derivato?

«Potrebbe essere così anche se il nero notoriamente, essendo privo di luce, è un corpo scuro che produce un’ombra che gli equivale».

Un colore che non è un colore: bianco.

«Accogliente, rappresenta tutte le superfici destinate ad accogliere qualcosa, colori, altre rappresentazioni. È come un’abitazione, una casa accogliente dove tutti vorremmo abitare. E poi è interessante perché è una casa che cambia continuamente abitanti. Su un foglio di carta con una gomma si può cancellare un tratto di matita e allora esso ridiventa bianco, così uno schermo cinematografico una volta che si spegne il proiettore torna ad essere bianco. Una metafora dell’accoglienza».

Passiamo ai materiali. Legno.

«Potremmo fare un elenco enorme perché mi interessano tutti. Non credo che un materiale abbia un significato specifico in sé che l’arte sta lì a rilevare. Credo invece che i materiali siano qualcosa di malleabile che si piega alle nostre esigenze. Vado sempre alla ricerca di nuovi materiali. Mi piacciono perché danno sempre la possibilità di realizzare qualcosa che si ha in mente, ma il pensiero è qualcosa di fluido, non aderisce al materiale».

Quando si è accorto che il suo destino era quello di fare l’artista?

«Se è una questione di destino dovrei dire sempre. Però di fatto un po’ è così perché non ho mai pensato di poter fare qualcos’altro. Sono cresciuto in un ambiente favorevole, i miei genitori per esempio che non solo non hanno impedito, ma hanno ritenuto naturale che io facessi quello che faccio. Mio padre Franco è un pittore di paesaggi, di nature morte, di animali, di uccelli. In più c’è da dire che ho fatto il liceo artistico a Cosenza».

Che nasceva in quegli anni.

«È nato con la nostra generazione. Io sono del 1957, quando dovevo andare al liceo il liceo artistico non c’era a Cosenza. È nato ad anno scolastico praticamente già avviato da cinque-sei mesi mentre ognuno di noi era già iscritto ad altre scuole. Quindi, fare l’artista o fare degli studi d’arte per tutti quelli che si sono iscritti alle prime classi in quegli anni era il risultato di una scelta, di una consapevolezza molto profonda. E molti di noi hanno continuato a fare architettura o teatro o sono diventati critici d’arte».

Non è la prima persona che mi parla del liceo artistico di Cosenza. È singolare che in una città viva e colta come Cosenza sia nata con ritardo una scuola destinata ai cultori dell’arte. Non le pare?

«Beh, sì. D’altra parte Cosenza è una città con molte stranezze. Ricordo da ragazzino, quando ero studente delle scuole medie e si facevano le battaglie per avere un’università che oggi c’è. In effetti c’era un grande desiderio di una scuola come il liceo artistico. Poi ci hanno aiutato anche i professori che erano tutti giovanissimi, appena diplomati d’Accademia. E allora a parte la bravura, c’era un entusiasmo che legava tutti, allievi e professori, in una specie di grande comunità».

Quel periodo – stiamo parlando degli anni Settanta – era anche molto vitale.

«Vitale ma non solo. Era una vitalità molto spinta dalla politica perché ognuno di noi, io stesso, ha fatto politica da giovanissimo e militava nei gruppi politici e nei partiti».

Lei dove militava?

«Nel gruppo Malatesta della Federazione anarchica italiana».

Anarchia, arte. A Cosenza c’erano i situazionisti che in quel periodo rappresentavano un significativo punto di riferimento se si pensa al loro discorso sull’arte.

«Io militavo in un gruppo più formalizzato, però l’interesse più grande lo avevo proprio per i situazionisti che erano tutti più anziani di me. Arrivavano informazioni fresche dalla Francia, dall’estero, molti testi. L’interesse artistico si poteva legare ad una visione politica e sociale. Direi che l’idea di una politica estetica o di un’estetica che avesse uno sbocco politico era per me abbastanza importante».

Poi?

«Passando il tempo, pur rimanendo questo sfondo, la questione artistica ha sempre preso più prevalenza staccandosi da quella politica, e non solo, ma anche da un’estetica diffusa che oggi alimenta le tematiche artistiche più giovani».

Fino a quando resta a Cosenza?

«Inizio una serie di spostamenti. A Brera ho fatto gli esami di ammissione all’Accademia di belle arti. Poi mi sono spostato a Firenze finendo l’ultimo anno, da qui mi sono trasferito a Roma. Per un breve tempo sono ritornato a Cosenza per rioccuparmi in un certo senso di politica e di estetica rimettendo in piedi l’Arci che era scomparsa, poi sono ritornato di nuovo a Firenze, a Milano e definitivamente a Roma».

Non trovava pace.

«Tutto il periodo di studi ero alla ricerca di un’accademia ideale fino a quando non mi sono accorto che quest’accademia non esisteva e che l’unica accademia possibile è la frequentazione del mondo dell’arte e degli artisti».

Facciamo un passo indietro, al periodo dell’Arci a Cosenza. Come lo ricorda?

«Fu interessante. Abbiamo provato innanzitutto a costruire delle strutture perfino stabili, come il teatro dell’Acquario, alla cui nascita ho contribuito. Persone magari di Cosenza e che abitavano in giro si sono trovate a collaborare per mettere in piedi un’iniziativa culturale. Ricordo con enorme piacere Giampaolo Principe che è stato per noi un grandissimo amico ed era un cantante, un grande esperto di musica contemporanea, amico di John Cage e Silvano Bussotti, ed è stata anche una delle prime persone a sparire per via dell’Aids. Diciamo che prima il sequestro di Aldo Moro e poi l’arrivo dell’Aids hanno decisamente contribuito a mutare tutto il paesaggio culturale creando un clima di cupezza, di violenza, di aggressività, di tristezza, che prima non c’era. Tutto questo è accaduto anche a Cosenza oltre che nel resto del mondo».

Questa cupezza l’ha portata a lasciare l’impegno politico?

«È stata una scelta consapevole se si può dire, ma forse non c’è mai un momento in cui si sceglie. Ero alla ricerca di un mestiere ma non mi era assolutamente chiaro cosa fosse il mestiere dell’arte. Per esempio, a Milano ho fatto il grafico per due anni in situazioni formative molto particolari, a contatto con ambienti inimmaginabili. In uno studio disegnavo a mano il catalogo Vestro, oppure le prime pagine del giornale del Totip, “Il cavallo”. Erano tentativi che coniugavano l’arte con la grafica e con una certa socialità, ma tutto questo mi è venuto a noia molto presto».

Il piacere di disegnare completamente un giornale l’ha provato?

«L’abbiamo fatto un giornale mentre eravamo all’Accademia insieme a ex compagni di scuola, come il critico d’arte Francesca Alfano Miglietta, e Cesare Fullone. Il giornale si chiamava “Intervallo” e ha avuto anche un certo successo. Una bellissima rivista d’arte fatta a Cosenza, era distribuita gratuitamente e poi è diventata addirittura una piccola iniziativa editoriale, pubblicava contributi importanti, pensi che nel comitato di redazione c’era Filiberto Menna, che per me è stato più di un amico: anche il primo testo a una mia mostra personale è a firma sua».

Capisco che con i napoletani e i salernitani – Menna lo era – ha avuto proficui rapporti. Nel suo itinerario c’è una presenza importante alla Certosa di Padula organizzata da Achille Bonito Oliva.

«Sì, ma ancora prima. A Firenze ho raggiunto un altro compagno di classe, Giancarlo Cauteruccio, che allora aveva una compagnia teatrale che esiste tuttora, la Krypton, che mi aveva chiamato per fare delle scenografie: abbiamo fatto uno spettacolo, l’Eneide, con cui siamo andati in giro in tutto il mondo, compresa New York, dove eravamo insieme ad altre compagnie con cui eravamo fratelli di sangue come “Falso movimento” di Mario Martone, a proposito di napoletani, e “La gaia scienza” di Giorgio Barberio Corsetti».

Il teatro conta molto anche nel suo album di famiglia. Sua moglie ha promosso la nascita dei teatri universitari in Calabria. Cosentina anche lei?

«Sì, l’ho conosciuta proprio al teatro durante la prima dello spettacolo “L’Eneide” al Fabbricone a Prato».

Anche le sue figlie Anna e Chiara calcano le scene, hanno nel loro carnet due ruoli in un film di Benigni.

«A loro piace la danza e tutto il resto. Io guardo a loro con uno sguardo impegnato ma fino a un certo punto».

Con Roberto Benigni lei ormai ha un sodalizio artistico, le sue opere sono spesso parte integrante delle opere del regista.

«Più che altro è un amico».

Lui è un amico di molti cosentini. Penso al suo manager Lucio Presta.

«Roberto mi ha parlato dei suoi spettacoli a Cosenza. Credo che sia rimasto molto colpito, poi lui ha una grande abilità nell’imparare i dialetti per cui già è capace di parlare in dialetto. Conosce più parole calabresi di quante ne conosca io».

Lei che rapporto ha con la sua città?

«Vengo poco purtroppo, mi piacerebbe venire di più, tra l’altro a Cosenza abitano ancora mio padre e mia madre con i quali per fortuna mantengo ancora un rapporto se non altro tramite Valentina che li vede più di me. I rapporti con Cosenza sono legati soprattutto all’atmosfera, non ho più tanti amici come prima, per cui le poche volte che ci vengo alla fine mi accorgo di non incontrare quasi nessuno se non Massimo Celani. Però, mi piace molto soprattutto tornare nei bar che frequentavo, per esempio il Renzelli che è sempre stato un punto di riferimento per molti giovani extraparlamentari e giovani intellettuali in genere che venivano ad incontrarsi e ad ascoltare i discorsi, mezze prediche e mezzo insegnamento, delle persone più grandi».

L’ultima volta che è venuto a Cosenza?

«Un mesetto fa».

Impressioni?

«Una città dinamica, accadono anche molte cose, il problema è che queste cose non riescono a radicarsi, a mutare veramente il volto della città. Forse perché muta tanto in continuazione mentre invece è più importante che lasci il segno qualcuna delle cose che accadono, anche semplici come un locale che apre o una mostra. Penso a quella di Jannis Kounellis, una mostra tanto bella e tanto generosa che dovrebbe dare l’indicazione di quanto potrebbe essere vitale un luogo se ci fosse la volontà di farne qualcosa di veramente importante».

Quando lei è andato a Palazzo Arnone c’erano visitatori?

«No, però ci sono stati i custodi, gentilissimi, che mi hanno fatto entrare a orario praticamente scaduto. Anche se francamente io non ho mai visto una mostra con un custode che ti si appiccica alle costole e ti parla dicendo “questo è bello, questo è brutto”. È abbastanza curioso, facevano come a casa loro: da una parte un tratto di gentilezza e da un’altra il parlarti all’orecchio».

Che idea si è fatta della mostra?

«Molto forte. Conosco molto bene Kounellis personalmente, e penso che all’interno del suo percorso questa opera sia basilare e che i cosentini debbano non solo essere orgogliosi ma dovrebbero tornare a vederla più volte. Comunque spero che sia anche uno stimolo per chi gestisce lo spazio a rendere continuative queste iniziative. Quest’opera può essere importantissima nel percorso di Kounellis però se va via il suo lavoro e non rimane neanche quasi la memoria o la voglia di continuare, per Cosenza non voglio dire sia stata inutile però di fatto non è una cosa positiva».

La sera dell’inaugurazione Kounellis disse che è sua intenzione continuare a lavorare in Calabria. Sarebbe un peccato sciupare quest’opportunità. Non le pare?

«Purtroppo quello dello spreco è il vizio più grande del Meridione d’Italia, che di per sé è una terra sciupona e che non fa tesoro delle cose che custodisce. Anche questa, diciamo, ha una forma di bellezza, però oltre questa forma di bellezza c’è qualcosa di terribile perché tutto va perso».

Vedendo le sue opere ho pensato a due luoghi e mi sono chiesto che cosa avrebbe potuto ideare lei. Glielo chiedo. Piazza Plebiscito a Napoli che ogni fine anno diventa un luogo dell’arte mondiale, iniziò Mimmo Palladino con la “Montagna di sale”, lei ne farebbe una di specchi?

«No, no, montagna proprio no. Francamente credo che quella piazza si presti relativamente poco ad essere invasa da volumi, quindi la “Montagna di sale” di Palladino era bella perché era un volume però allo stesso tempo era una forma nitida, precisa al centro della piazza. Non farei sicuramente qualcosa di invasivo, mi manterrei in un livello mimetico, sottolineando qualcosa dello spazio, la sua circolarità. Era molto bello il lavoro di Rebecca Horn».

I teschi mimetizzati nel pavimento della piazza che richiamavano le “cape di morte” della tradizione culturale napoletana.

«Sì, perché diceva qualcosa della città e di quello spazio, però cercava anche di integrarsi perfettamente».

Spostiamoci di qualche centinaia di chilometri. Calabria, il parco archeologico di Scolacium. Gormley vi installò le sagome umane, lei?

«Sono affascinato da questi posti speciali. Da qualche anno, direi da Padula in poi, mi sto appunto interrogando sulla questione dei luoghi destinati al culto e alla storia. L’ultimo recentissimo lavoro l’ho realizzato nei Fori Imperiali qui a Roma, nel Foro di Cesare che è il luogo fondativo della città. Sono luoghi che da un artista pretendono un impegno ben più grande di quello di una galleria o di qualsiasi spazio all’aperto, perché sono innanzitutto luoghi di confronto. Ho visto tutte le mostre fatte a Scolacium, a me piacciono, penso che i curatori siano stati molto bravi».

Lei è richiesto da tutte le parti, dalla Calabria l’hanno chiamata?

«Mai. Solo esperienze remote».

Ci pensa mai a questo silenzio?

«Potrei rispondere con una battuta che fortunatamente ho altri impegni che mi tengono occupato, ma ci penso perché mi piacerebbe se non altro far vedere quello che faccio a mia madre e a mio padre che non hanno mai visto una mia mostra».

Se la chiamassero?

«Se ci fossero le condizioni per un lavoro ben fatto mi piacerebbe».

Una volta si pensava all’artista che stava nel suo studio, anche grande, tra tele, pennelli, colori, modelli, nature morte, oggi si immaginano officine meccaniche, vetrerie, falegnamerie, idraulici, fabbriche di plastica. I costi di un’opera ben fatta, come dice lei, sono da capogiro.

«È vero. Sto preparando adesso una pubblicazione sul lavoro ai Fori Imperiali, e mi sono accorto che le persone da ringraziare, anche di quelle che a titolo volontario hanno collaborato, sono talmente tante che è necessario fare una pagina. Il gigantismo ormai quasi affligge l’arte dei nostri tempi, ma anche nel passato con la statuaria classica probabilmente sarà stato così. Oggi sicuramente è aumentato. Ma a me continuano ad interessare ancora molto l’intimità dello studio, al quale dedico sempre tutte le mattine della settimana, e anche una certa solitudine che riguarda sia la progettazione sia la realizzazione di quanto più è possibile riesca a fare con le mie mani».

Resta il fatto che le grandi opere richiedono sforzi immani e committenza adeguata, soprattutto pubblica.

«Diciamo che in Italia più che farle si parla di grandi opere. I politici si comportano in una maniera strana, più da artisti che da politici, e si finisce con la barzelletta dell’artista».

Mica è sempre così?

«Succede anche dell’altro. Ho lavorato quasi un anno a Roma in una sala di rianimazione dell’ospedale Santo Spirito destinata alle persone in coma. È interessante perché stiamo parlando di un’opera che non vede quasi nessuno, in un posto dove è vietato l’ingresso. Una specie di diorama, che si svolge su tutto il lato superiore di questa grande stanza del risveglio, nella parte in cui il soffitto tocca le pareti. È posizionata in maniera tale da essere percepita immediatamente da una persona che sta in un letto e apre gli occhi per la prima volta. Si alternano fasce di piume bianche dipinte di rosso che provocano delle ombre colorate, come dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata, di rosa, e degli acquerelli che rappresentano fasce d’acqua che precipitano dall’alto verso il basso. È un’opera dedicata all’aria e all’acqua, al vento e all’acqua, sensazioni primarie percepite da una persona che torna alla vita e, immagino, anche da un neonato. Il primario, quando gli esposi la mia idea, mi disse che tutti i macchinari che si vedono in giro in quella sala servono in fondo a dare l’aria e l’acqua, ossigeno e umidità, a quei corpi per tenerli in vita».

Che cos’è l’arte per lei?

«È quello che cerco di fare tutti i giorni. L’arte per me, ma credo anche per qualsiasi artista, sia l’abitudine di creare un’immagine e attraverso quest’immagine sperare di contribuire alla felicità altrui».