In altri tempi nemmeno tanto lontani, e non solo nel Sud, sarebbe finita all’indice. Ma i tempi sono cambiati e anche il Sud non è più lo stesso, lo dimostra la sua vicenda di donna libera e consapevole, incurante delle maldicenze e dei luoghi comuni e amante appassionata della vita. È questa sua libertà il tema della conversazione. I fatti clamorosi che l’hanno vista protagonista in Calabria e in Italia sono noti, e lei, Eva Catizone, pur avendo indubbiamente pagato un prezzo anche per quelle sue scelte personali coraggiose fino al limite della spregiudicatezza, rivendica il suo tempo ritrovato e guarda avanti. Di Nicola Adamo preferisce non parlare, è piuttosto concentrata sul futuro del loro figlio Filippo, che assomiglia al padre come una goccia d’acqua, né ama dire del suo nuovo amore, un giovane attore cosentino, anche perché è una storia privata che tale deve restare come tale probabilmente sarebbe rimasta quella con Adamo se non ci fossero stati innegabili risvolti pubblici.

La sua famiglia era radicata tra Catanzaro e Cosenza?

«Il nucleo originario era di Reggio, poi si trasferisce a Catanzaro, mio padre era catanzarese di nascita poi trasferito a Cosenza. In realtà i miei erano originari di Palermo dove c’è ancora una splendida cappella affrescata da Mattia Preti».

Suo padre che tipo era?

«Particolare, eccentrico, per i suoi tempi molto moderno. Fu tra i primi in Italia ad occuparsi di diagnosi prenatale. Era un medico per il quale veniva prima di tutto la medicina».

Prima della famiglia?

«È stato un padre molto presente, anche con le asprezze che i padri hanno. Io e lui eravamo molto uniti. Poi lui è venuto a mancare in un modo molto singolare, morì in un incidente pochi giorni dopo la mia elezione a sindaco. Sono quelle strane cose che segnano le persone».

Ha preso da lui il suo carattere libero?

«Era libero, molto libertino. Ho preso questo da lui, alcune frequentazioni mi vengono da lui, per esempio quella con Franco Piperno che era suo amico». 

Quindi, il rapporto con Piperno non le viene dal suo primo marito?

«Sono due cose separate. Il mio ex marito era ed è amico di Franco, però la mia frequentazione con lui risale agli anni Settanta. Ero una bambina e ricordo perfettamente le cene che venivano fatte a casa mia. Anzi credo che in quegli anni siamo stati oggetto anche delle attenzioni delle forze dell’ordine perché nell’agenda di Fiora Pirri, che in quel momento era la moglie di Piperno, furono trovati i nostri numeri di telefono: c’era sempre una camionetta sotto casa nostra. Mio padre era anche cugino di Riccardo Misasi. La sua era una famiglia fortemente democristiana, mentre la tradizione riformista era più rappresentata da mia madre, che è parente dei Carci. Quindi, la mia era una famiglia che da una parte parteggiava per Misasi, dall’altra per Mancini».

Dell’accusa a Piperno di essere un terrorista cosa pensava?

«Io mi stavo laureando, lui era appena rientrato dalla latitanza in Canada. Non poteva frequentare l’università. Infatti venne alla mia festa di laurea ma non poté assistere alla mia discussione della tesi». 

Scusi l’insistenza, che pensava di Piperno terrorista?

«Non c’ho mai creduto. Anche perché avevo con lui una frequentazione quotidiana, casalinga. E poi la quantità e il tenore delle accuse – una quarantina di omicidi, se non ricordo male – erano veramente paradossali». 

Lei faceva parte di quella generazione di Arcavacata che tante attenzioni attirò su di sé.

«Ero affascinata da quella generazione. Avevo deciso di laurearmi a Cosenza perché ero in controtendenza. Dalla Calabria si fuggiva, io invece pensavo, e penso, che se si vuole cambiare qualcosa bisogna rimanere in Calabria. Eravamo mosche bianche, il nostro ateneo era considerato il covo della sinistra antagonista, belligerante, insomma dei terroristi. Il Pci ci guardava con sospetto. C’era stata la perquisizione di Dalla Chiesa. Il clima era pesante. E c’era una distanza enorme dalla città come e più di adesso. Erano pochi i cosentini che frequentavano l’università, mio padre, Mancini…».

Pentita di essere rimasta qui?

«Assolutamente no. Ho fatto ottimi studi perché in un’università in cui purtroppo i professori erano di passaggio perché venivano a fare carriera, io fui fortunata perché ebbi ottimi docenti ed ebbi la possibilità di studiare all’estero, a Marsiglia e Parigi».

Giacomo Mancini, l’ha già citato un paio di volte. Un incontro importante?

«Fondamentale. Lo conoscevo da tanto perché c’erano legami, come spesso accade in questa città, tra le famiglie. La mamma del vecchio sindaco era amica di mia mamma. Facevamo dei bagni splendidi insieme a Sangineto. Poi all’improvviso venne questa sua idea di lanciarmi in politica. Avvenne qui in questa casa. Lui era stato eletto da qualche giorno, eravamo nel 1997, la seconda sindacatura. Nella prima, quella contrassegnata dalla vicenda giudiziaria, stavo nella segreteria di Franco Piperno, assessore alla cultura, ma durò poco perché Franco fu sospeso da Napolitano, allora ministro dell’interno». 

Torniamo al 1997.

«Sì, lui era stato appena eletto, questa casa aveva un uso pubblico perché sede della Fondazione Catizone, che poi da sindaco io ho sciolto, stavamo presentando un libro di Renato Nicolini. E lui mi disse che voleva coinvolgermi. Poi una mattina, ero a Corigliano, uscii per comprare i giornali e c’era una notizia con questa indiscrezione sul mio conto. Così iniziò».

Lei è stata molto a fianco di Mancini nei suoi ultimi anni. Che ricorda?

«Contrariamente all’immagine che se ne ha, era un personaggio con una carica umana pazzesca. Non mollava. Lo abbiamo visto in situazioni per lui molto pesanti, ma era un combattente, non si lasciava andare». 

Gli deve molto?

«Se io oggi ho un ruolo politico lo devo a lui perché lui ha intravisto in me non so che». 

L’aveva vista come sindaco?

«Lui mi aveva fatto diventare assessore ai fondi comunitari perché era affascinato dal fatto che io conoscevo le lingue, soprattutto il francese che era la lingua che parlava sua madre. Poi quando mi nominò assessore all’urbanistica mi disse per convincermi: uno che ha fatto l’assessore all’urbanistica può fare il sindaco».

Sindaco di Cosenza dopo Mancini. Una prima fase esaltante poi iniziarono le sue difficoltà. Ci fu un cambio di fase?

«Ci fu uno scontro tra modelli. Io difendevo l’autonomia municipale e la legge che dava grande potere ai sindaci. Invece si era entrati in una fase in cui grazie anche alla nuova legge elettorale si stava ridando potere ai partiti».

Ma quando incise la sua vicenda privata, l’annuncio che aspettava un figlio da Nicola Adamo?

«Penso che sia stata più utilizzata, strumentalizzata». 

Si disse che la sua caduta dipendeva anche da vendette personali?

«Sarebbe troppo riduttivo pensarlo».

Lei calcolò a cosa sarebbe andata incontro rivelando in un’intervista al “Quotidiano della Calabria” che aspettava un figlio?

«Quella fu una mia scelta. Ero sindaco, volli zittire tutte le piccole voci che ci sarebbero state e che si stavano già sollevando. Sa, questa è una città molto ipocrita come tutte le città di provincia. Pensai di doverlo fare perché accanto all’esperienza politica e all’incontro con Mancini mi stava capitando una delle cose più belle della mia vita e della vita di una donna: la maternità. Potendo spingerei le donne a fare figli. Oggi credo che c’è bisogno di più donne in politica ma anche che le donne indossino i panni delle donne».

Come ha vissuto il clamore di quei giorni?

«Era agosto, così mi dissero. Gli spazi del privato furono invasi. La fuga degli amici, i giornalisti che piombavano da tutte le parti. Era agosto…».

Rifarebbe quell’intervista?

«Sì, perché l’ho vissuta come un atto di trasparenza. Ero giovane, ero donna, ero separata, affrontavo uno stato particolare. Facile immaginare che sarebbe successo in una città del Sud, in Calabria».

Come racconterà a suo figlio Filippo questa storia?

«Che lui è una persona molto particolare perché è nato da una storia bellissima».

Poco dopo diessini e socialisti le voltarono le spalle. Solo coincidenza?

«Il sistema si era incartato, incancrenito. Loro erano rigidi sulle loro posizioni, io non volevo cedere. So bene che avrei potuto salvarmi, ma avrei dovuto sacrificare Franco Piperno, e non me la sentivo».

Si oppose ai partiti, ora si trova nel Pdm di Loiero, di cui sta per diventare leader regionale. Non è un partito?

«Non da oggi ho pensato che l’approdo fosse il Partito Democratico, come luogo di contaminazione di diverse culture, una grande opportunità che il paese ha di costruire non un nuovo partito ma un partito nuovo. E poi questo può essere un freno alla belligeranza interna di una sinistra rissosa. Il Pdm è un cantiere».

Suo padre, Mancini, Piperno, presenze importanti della sua vita. E il suo ex marito?

«Condivido con Antonio Schiavelli un rapporto splendido. So di avere in lui uno dei miei migliori amici. Antonio oltre ad essere un imprenditore molto bravo è una persona di rara intelligenza».

E Nicola Adamo?

«Non mi faccia parlare di Nicola. Non ne parlo mai, non ne parlò più. Quella è un’esperienza dimenticata che mi ha dato una cosa veramente bella: mio figlio».

Lei ama molto la vita. La si vede in giro di festa in festa.

«Sono un animale sociale. Mi piace stare con gli altri».

Vive da sola?

«Vivo qui con mio figlio e mio fratello».

In questo momento ha qualche storia importante?

«Su questo eviterei di rispondere».

Ha detto prima che la vitalità l’ha presa da suo padre. 

«Sì. Questa è una terra chiara nei colori. Penso ci siano anche una serie di pregiudizi sui calabresi, che sarebbero persone arretrate, musoni, con il senso tragico della vita. Bisognerebbe lavorare di più sui colori in chiaro, sul sorriso piuttosto che non sul pianto. I calabresi, e più in generale i meridionali, sono gente che si piange addosso».

Come si fa a sorridere davanti al quadro deprimente della quotidianità?

«Innanzitutto ci vuole un rinnovamento delle classi dirigenti. Occorre spalancare le finestre dei partiti alle nuove energie».

Ma non c’è troppo politica? Come fanno i partiti ad aprire sè stessi?

«Questo capita in società strutturalmente deboli. Ma da questa impasse bisogna pure uscire. Chi ha deciso di restare qui ha il dovere di farlo».

Torniamo alla sua tesi di laurea. La dedicò al suo scrittore francese preferito, Marcel Proust. Tempo perduto o tempo ritrovato?

«Proust mi ha insegnato che non c’è mai un tempo perduto. C’è un tempo perduto ma soprattutto c’è un tempo che viene ritrovato. E il migliore dei romanzi è l’ultimo, il settimo, nel quale improvvisamente ritrova tutto un pezzo della sua vita. Nessun tempo penso sia perduto, c’è un tempo che passa, forse troppo in fretta, poi anche il tempo che apparentemente è perduto viene ritrovato».