Luigi Necco il cittadino, io il contadino

Sapevo che da un momento all’altro sarebbe arrivata la notizia. Da settimane la figlia Alessandra ci diceva che le cose non andavano bene e ci sconsigliava di andare a trovarlo perché era in terapia intensiva al Cardarelli. E quando pochi giorni fa ci ha detto che gli avevano fatto un intervento chirurgico e che stava male, molto male, si era capito che le sue sofferenze stavano per finire.
Luigi Necco ci mancherà, mi mancherà molto. Da quattro mesi non eravamo più vicini di pianerottolo, ma, tragica ironia della sorte, eravamo di nuovo vicini perché la mia nuova abitazione è a cento metri dal Cardarelli. Ovviamente ci conoscevamo da tempo, mezzo secolo tondo tondo, ma da venticinque anni ci vedevamo praticamente ogni giorno. Avevamo firmato insieme il contratto di affitto a Villa Maio e lui per entrare e uscire da casa sua doveva passare per il cortile davanti alla mia cucina. Fino a qualche anno fa i suoi passaggi erano controllati. Non appena ne sentiva l’arrivo, Luna, la nostra cagnetta, abbaiava come con nessun altro, e non era amore: evidentemente tra loro non correva buon sangue e Luigi glielo aveva dovuto far capire. Ironia della sorte, e ora glielo confesso e gli chiedo scusa, quando fummo costretti ad abbatterla la seppellimmo a sua insaputa sotto un albero di arance del suo giardino.
Non devo rivelare a nessuno quanta vasta fosse la sua cultura. So solo che io, che pure parlo troppo, quando mi intrattenevo con lui rimanevo per lo più in silenzio perché era un piacere ascoltarlo. Sapeva tutto e non era solo sconfinatamente erudito, ma competente, raffinato e dotato di una visione autonoma sulle cose e sugli uomini. Ogni volta rimanevo impressionato dalla precisione del linguaggio: se avessi registrato quelle “conversazioni” avrei potuto trascriverle senza aggiungere o modificare nulla, neanche la punteggiatura.
Una serata bellissima nacque da un pretesto squisitamente culturale. Ero a Cefalonia, precisamente a Sami e avevo postato una foto. Lui mi scrisse subito che lì nei paraggi c’era la probabile tomba di Ulisse. Andai a visitarla, ne scrissi e mi impegnai a portare qualche bottiglia di Robola da bere insieme. Dopo qualche mese ci vedemmo da me a cena e invitai anche Enzo Ciaccio, il mio carissimo amico. Il buon vino, fresco al punto giusto, onorò la paiella di Anna, le alici indorate e fritte e il trionfo dei dolci, quelli portati da Enzo, e la torta a cinque cioccolati che preparai appositamente per lui. Ma il piatto più importante e buono fu lui. Parlò per ore, e neanche un accenno allo sport. Noi tutti a sentirlo estasiati, insaziabili, fino alle ore piccole. Date, persone, fatti, contesti storici, un’enciclopedia di vita e conoscenza, rielaborata dalla sua intelligenza, scorrevano davanti a noi. Quando pubblicai la foto, dalla Calabria si fece vivo un altro mostro sacro della televisione, Emanuele Giacoia, con il quale avevo lavorato gomito a gomito per anni in quella regione. Lui era a Avellino con Luigi e stavano entrando in macchina dopo la partita quando spararono a Luigi. Da decenni non si vedevano. E così nacque l’idea di farli incontrare in una serata da me. Purtroppo, per un motivo e per un altro, di rinvio in rinvio, quell’impegno non è stato onorato e qualche giorno fa, in occasione del suo compleanno, l’ho detto a Emanuele raccontandogli che Luigi era in ospedale e che non sarebbe stato più possibile vederci insieme. Non me lo perdono.
Ma Luigi non era solo l’immenso giornalista di nera, politica e vita, non solo il grande uomo di cultura o l’esperto di archeologia o il cronista e commentatore sportivo, era anche e soprattutto un napoletano. Ci lascia, in tempi di televisione inguardabile, il gioiello di una trasmissione su un canale privato, “L’emigrante”: le puntate sono cammei preziosi su Napoli da conservare gelosamente. Gli piaceva stare tra la gente, avrebbe vissuto con gioia davanti a un “basso”. Lo trovavi sul muretto del viale del parco a parlare per ore con chiunque passasse, o seduto nel negozio del tabaccaio di piazza Leonardo per chiacchierare con chi entrava e usciva. Gigioneggiava molto, sia chiaro, gli piaceva che fosse riconosciuto e ripagava la simpatia. La sua energia era impressionante. Fino a poche settimane fa, incurante del peso che l’opprimeva, era solito uscire dopo mezzanotte per andare a cene, incontri e chissà che altro. Amava la vita, divorava di nascosto (se possibile, anche a se stesso) le cassate di Bellavia.
Una mattina, mentre sistemavo la siepe del giardino lo intravidi tra le foglie del lauro ceraso. Più che una conversazione fu uno schioppettare di battute. Lui mi sfotteva dicendomi che ero un contadino e io replicavo che lui era un cittadino. Sì, un illustre cittadino di Napoli e, quindi, del mondo.

* Ricordo di Luigi Necco in occasione della morte il 13 marzo 2018

Perchè sono Italiano

Sono italiano perché da bambino mi dicevano che lo ero.
Sono italiano perché sulla carta geografica, che la maestra aveva alle sue spalle, l’Italia mi sembrava una persona di famiglia.
Sono italiano perché Antonio Gramsci raccontava la storia dell’albero del riccio in una lettera dal carcere al figlio Delio.
Sono italiano perché quando facevo politica il mio partito comunista era italiano.
Sono italiano perché una volta all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli misi a tacere il generale Broglio che parlava male dei suoi connazionali.
Sono italiano perché la pasta con le melanzane mi fa sognare e le lasagne verdi mi commuovono.
Sono italiano perché, nella notte della veglia per i venticinque anni dalla morte di Padre Pio, sul sagrato gelido della chiesa di San Giovanni Rotondo scoprivo una per una le coperte e raccoglievo le storie di fede di italiani e italiane di Genova e di Catanzaro, di Padova e di Matera, di Cuneo e di Catania.
Sono italiano perché è vero che il Sud fu maltrattato dai piemontesi ma è vero pure che lo maltrattavano ancora prima i Borbone.
Sono italiano perché venti anni fa nel parco dell’albergo di Stresa trovammo la fiancata dell’auto rigata: era targata Napoli.
Sono italiano perché Bossi è padano.
Sono italiano perché Cesare Pavese e Leonardo Sciascia erano italiani.
Sono italiano perché Fabrizio De Andrè ha gradito il café di don Raffaé.
Sono italiano perché Sergio Leone ha fatto i western meglio degli americani.
Sono italiano perché, a Pisa a quindici anni, piazza dei Miracoli mi sembrò finta tanto era vera e vera tanto era inventata.
Sono italiano perché dalla collina di Coreca ho visto il sole tramontare dietro Stromboli.
Sono italiano perché a quattordici anni scappai a Torino con la voglia di lavorare e mi aiutò Pino Clemente, ritrovato per caso, che era tanto povero da dormire nelle case di don Orione, e me lo nascondeva perché si vergognava.
Sono italiano perché a piazza della Loggia non trattenevo le lacrime e la rabbia davanti alle bare di otto italiani di Brescia uccisi da una bomba dei neofascisti.
Sono italiano perché Papa Montini pregò “in ginocchio” gli “uomini delle Brigate Rosse” affinché liberassero Aldo Moro.
Sono italiano perché a quindici anni andai al congresso nazionale della Fgci a Reggio Emilia e soprattutto mi spinsi fino a Campegine per abbracciare papà Alcide Cervi novantenne e farmi raccontare la vita dei suoi sette figli fucilati dai fascisti.
Sono italiano perché pur essendo napoletano non so cantare.
Sono italiano perché nel cantiere di Castellammare di Stabia venivano varate le navi più belle del mondo.
Sono italiano perché lavorare stanca ma senza lavoro si finisce nella disperazione.
Sono italiano perché a cena da “Ciccio di Pozzano” Pier Paolo Pasolini si preoccupava del cibo che servivano a Ninetto Davoli.
Sono italiano perché quando vidi Maradona entrare la prima volta al San Paolo fui certo che era un italiano dei quartieri di Napoli.
Sono italiano perché il “mio” paesino abruzzese fu raso al suolo dai tedeschi e gli abitanti non lo vollero più ricostruire.
Sono italiano perché in Irpinia vidi Antonella Chieffo che raccoglieva oggetti e ricordi tra le macerie della casa distrutta dal terremoto pensando di doverla ricostruire, come poi fece.
Sono italiano perché mi sono sentito sempre un cittadino del mondo.
Sono italiano perché una mattina mi sono svegliato al “Tragara” di Capri, sono uscito in pigiama sul balcone disegnato da Le Corbusier e ho mangiato un cornetto caldo guardando i Faraglioni che erano lì sotto.
Sono italiano perché mi ruppi il legamento mediale in Valtellina e l’albergatore si mise alla guida della mia auto il giorno di Capodanno e mi portò alla stazione di Milano dove caricò me, ingessato, la mia famiglia e l’auto sul treno per Napoli per poi tornarsene con un altro treno a Val di Dentro. E quando gli chiesi che cosa gli dovevo mi rispose: «Nulla. Lei non avrebbe fatto lo stesso per me?».
Sono italiano perché a Reggio Calabria ho visto i ragazzi che dicevano con gioia no alla ‘ndrangheta.
Sono italiano perché le poesie a memoria non mi piacevano ma Leopardi mi toccava il cuore.
Sono italiano perché ho per amico il trentino padre Giancarlo Bregantini che diffonde dalle Alpi alla Sicilia la poesia della fede, che a me manca.
Sono italiano perché ero così piccolo da non capire, ma sentii che a casa c’era un grande dolore per la tragedia di Superga e amai il Torino pur non diventandone tifoso.
Sono italiano perché parlo italiano nella mia terra e napoletano quando sono al Nord.
Sono italiano perché dopo ogni comizio davamo la pasta di Gragnano a Giorgio Amendola.
Sono italiano perché grazie ai patrioti del Risorgimento e ai partigiani della Resistenza vivo in un paese, nonostante tutto, ancora libero.
Sono italiano perché Michele Tito mi aveva assunto al Corriere della Sera, ma, tornato a Napoli, lo richiamai per dirgli che non abbandonavo la mia terra.
Sono italiano perché sono venuto a lavorare in Calabria, più a sud del sud dove sono nato, perché amo e odio questa terra, che è la mia terra.
Sono italiano perché l’Italia è tutta bella ma la Calabria lo è ancora di più.
Sono italiano perché stravedo per Sharon Stone ma Monica Bellucci è la fine del mondo.
Sono italiano perché non mi vergogno di usare, per non sporcare la cravatta, anche il cucchiaio quando mangio gli spaghetti.
Sono italiano perché qualche volta mi viene voglia di non fare la fila.
Sono italiano perché non sempre rispetto il codice della strada, ma non me ne vanto.
Sono italiano perché mi piace Alberto Sordi e Totò mi fa impazzire.
Sono italiano perché nessuno tocchi la mia famiglia ma rispetto quelle degli altri.
Sono italiano e di mamme ce n’è una sola e la mia è la più bella.
Sono italiano anche se non corro mai in soccorso del vincitore.

Sì, sono italiano.

*Editoriale pubblicato sul “Quotidiano della Calabria” il 17 marzo 2011 in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Il Gran Capitán e il mistero della madonna nera

Di Consalvo Fernandez di Cordova si è scritto tanto. La sua vita è un’epopea che dalla Spagna attraversa il Mediterraneo e si dipana nelle tormentate terre italiane, soprattutto in quel Meridione che nel lontano Cinquecento è un boccone succulento sulla tavola delle grandi potenze europee. È il tempo della cattolicissima Spagna e dell’Inquisizione che diffonde un acre odore di carne bruciata per mezza Europa, roba che con il senno di poi fa risultare angioletti anche i più feroci giustizieri dell’Isis. Il fatto è che quando si governa e si fanno guerre in nome di Dio il destino dell’uomo prima o poi diventa tragedia collettiva. Anche Consalvo, il grande condottiero, diede il suo contributo facendo arrostire e impalare i mori nel periodo della sua ascesa in Spagna, poi però, quando divenne viceré di Napoli, impedì che l’Inquisizione diffondesse più di tanto i suoi miasmi nelle nostre terre. Evidentemente presentiva che anche la sua amata Carlotta sarebbe finita su un rogo in quel di Seminara, nella profonda Calabria. Consalvo è soprattutto uno stratega militare che introduce nella guerra una tecnica che non solo consentirà alla Spagna di espandere la sua forza in ogni direzione ma che sarà studiata e adottata nel corso dei secoli a venire. Non a caso è a lui e a Cristoforo Colombo, per scenari e caratteristiche differenti, che la Spagna, dagli orizzonti vasti e dalle mire sconfinate, deve il dominio e l’egemonia di cui ancora si sentono tracce – vedi la sua lingua, che dopo il cinese è la più parlata – sul pianeta.

Si è scritto tanto, ripeto, ma mancava il romanzo che ben si attaglia alla sua vita appunto romanzesca. Ora questo libro c’è, ed è probabile che, come è accaduto per “Artemisia Sanchez”, anche questa nuova opera di Santo Gioffrè, “Il Gran Capitán e il mistero della Madonna Nera” (Rubbettino editore), finisca sullo schermo. E, se così sarà, ne potrà venir fuori un colossal alla vecchia maniera. La materia, come si è detto, è storia, storia nostra, europea e mediterranea, meridionale e napoletana, molto calabrese. E il libro, che si legge tutto d’un fiato, è già una perfetta sceneggiatura, precisa e feconda di avvenimenti e personaggi, condita e colorita di amori, sesso, vagine accoglienti e falli imperiosi e instancabili, supplizi atroci e crudamente descritti, tradimenti, campi di battaglia, misteri. Il fatto che anche io sia qui a parlarne credo sia dovuto alla mia recente attività in Calabria, che qui entra dalla porta principale nella grande storia, al mio vivere a Napoli, che compete con la prima nell’animo del Gran Capitán, e al mio essere stabiese, perché in un paio di pagine, con l’artificio di un incontro diplomatico, Gioffrè descrive il “mirabile scenario” di “Castel di bell’aria a Stabia”.   Soprattutto consiglio la seconda edizione che ha depurato e reso più fluido il racconto.

L’io narrante è lui, il Gran Capitán, don Consalvo Fernandez de Cordova, che racconta, con la sua lingua elegante e non fastidiosa benché aulica, al suo contabile Juan Franco la sua avventurosa esistenza che volge al termine. Ne scaturisce, inevitabilmente, una lettura partigiana di sé e degli avvenimenti che lo videro ad un passo dal diventare re di Napoli, compresi quelli che l’avrebbero visto protagonista di speculazioni e malversazioni. Credo che questa sia stata una felice soluzione trovata dall’autore: Gioffrè, nel romanzare una materia così viva e complessa, poteva rischiare di suo direttamente, ma delegando la piena responsabilità al protagonista del romanzo ha potuto dare libero sfogo, nell’ambito di un quadro storico definito e certo, alla fantasia che rende viva e palpitante una grande fase storica.
Viceré di Napoli, Consalvo, lo diventò sull’onda delle battaglie combattute nel nostro paese per conto della Spagna e dei suoi regnanti impegnati a fronteggiare la Francia che, ottimamente organizzata sui campi di battaglia, appariva invincibile. Se ne accorse Consalvo bevendo l’amaro calice della sconfitta in una battaglia che riteneva di aver vinto prima di combatterla. Alle porte di Seminara il suo esercito fu letteralmente annientato dal generale Robert Stuart d’Aubigny. Consalvo, ferito gravemente, vagò lungo il fiume Petrace e  si salvò per l’intervento di Carlotta, una bellissima calabrese, molto più giovane di lui, che aprì a lui il cuore e tutti i pertugi del suo bollente corpo e nel cui letto tornò innumerevoli volte per tutto il tempo che restò in Italia e fino alla morte tremenda, che lei e i suoi figli trovarono per la vendetta dei Baroni umiliati e spodestati dal Gran Capitán.
Gioffrè introduce un motivo che diventa titolo e trama sottile e profonda del romanzo. La Madonna Nera, meglio nota come la Madonna dei Poveri, che si trova nella basilica di Seminara a lei dedicata. Nella fantastica narrazione di Gioffrè, alla quale rimando affinché resti integro il piacere della scoperta, è lei, questa Madonna, che insieme al figlio avrà il volto scuro per volontà dello stesso Consalvo, che in essa aveva visto la madonna Nera di Montserrat, che ispira e guida le scelte del grande condottiero, che tale diventa dopo aver studiato i motivi della sua sconfitta militare nello scontro con il generale francese.

Rinato grazie alle cure e alle amorevoli prestazioni di Carlotta, Consalvo riflette sui motivi della cocente sconfitta ed elabora una tecnica militare, il cosiddetto tercio spagnolo che si rifaceva alla legione romana, che attuerà da quel momento in poi sui campi di battaglia, passando di vittoria in vittoria, fino alla sconfitta a Cerignola e sul Garigliano del generale francese che l’aveva umiliato a Seminara. Scrive Giuseppe Galasso: «Per Napoli quella guerra significò la conferma dell’ incapacità del Regno di resistere alle offese esterne. Era stato così nel 1266, nel 1442, nel 1494; sarebbe stato così nel 1707, nel 1734, nel 1799, nel 1806, nel 1821, nel 1860: una serie impressionante di cedimenti che dovrebbe dare molta materia di riflessione agli allegri revisionisti della storia italiana. Significò anche l’inizio del legame napoletano con la Spagna, durato per duecento anni: un terzo dell’ intera esistenza del Regno tra l’avvento degli Angioini e la caduta dei Borboni».

Il 16 maggio 1503 Consalvo entrò in una Napoli acclamante, preceduto dall’accordo con i rappresentanti della città. Fu viceré e fece molto sentire la sua mano nel governo del regno, soprattutto ai Baroni che lo tenevano sotto torchio e senza speranza. Ma il suo cruccio fu di non diventare re. Lo poteva diventare, ma non accadde sia per le grandi manovre di «monarchi insolenti – fa dire Gioffrè a Consalvo –  che erano sicuri che il proprio io corrispondesse a Dio» e che si giocavano con cinica spregiudicatezza i destini del mondo conosciuto a quel tempo come una partita a scacchi tra un letto e un convivio, sia per i tradimenti e le congiure dei Baroni che così consumarono la loro vendetta. Consalvo rimane «a guardare quelle teste coronate ed a pensare quanto inutile fosse stata l’immensa strage di Cavalieri e Fanti, in tutti i campi di battaglia», e li bolla pensando «ai miei soldati morti e mangiati dai cani perché…(quelle teste coronate) potessero dirsi Re, senza che mai avessero annusato l’odor del sangue, impastato con la terra, sotto cumuli di cadaveri».

Il legame tra Consalvo e Napoli fu molto saldo, come testimoniò la folla che lo accompagnò al porto per salutarne la partenza e il ritorno in Spagna. Machiavelli parla esplicitamente di ingratitudine quando scrive: «Ne’ nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a’ Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d’armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove poco tempo poi inonorato, morì».

E forse è questa ingratitudine che spinge Gioffrè a ritenere che il ritorno in Spagna del Gran Capitán, a cui fu costretto per non ostacolare i giochi delle grandi monarchie europee, segnò la fine di un sogno, se si può dire, di autonomia del Meridione. Tesi ardita, ma da lui motivata soprattutto con il legame fatto di carne e di fede che Consalvo stabilì con il Sud e soprattutto con la Calabria. E qui, più che la Madonna Nera, una delle tante sparse nella regione, in Italia, in Europa e nel mondo, è Carlotta la straordinaria protagonista del romanzo. Lei è dominatrice e pecora, un corpo accogliente e sempre pronto, ma anche colta e avveduta, fidata. E da lei il condottiero prende amore, sesso, intelligenza, consigli. Ed è lei che viene punita, con una vendetta trasversale feroce, per colpire lui. Una metafora, probabilmente, che tiene Santo Gioffré saldamente ancorato alla sua città natale, Seminara, e al suo presente, una ricerca non a caso chiusa alla maniera di Proust, sebbene Consalvo non ritrovò il suo tempo e continuò, come dice, la sua navigazione «tra un tempo sparito ed un altro smarrito…».

Da Voltaire a Baudelaire tra vampiri e jettatori

«Non si sentiva parlare che di vampiri fra il 1730 e il 1735: se ne scopriva dappertutto, gli si tendevano agguati, gli si strappava il cuore, li si bruciava. Qualcosa di simile a quanto era capitato agli antichi martiri cristiani. Più se ne bruciavano e più se ne trovavano. Si ebbe la prova che i morti mangiano e bevono. La difficoltà era se a nutrirsi era l’anima o il corpo. Fu deciso che erano tutti e due: le vivande delicate e poco sostanziose, come meringhe, panna montata e frutti canditi, andavano all’anima; il roast-beef al corpo. Mentre i vampiri menavano la bella vita in Polonia, in Ungheria, nella Slesia, nella Moravia, in Austria e nella Lorena, non si avevano notizie di vampiri nelle città di Londra e di Parigi. Debbo ammettere che in queste due città ci fossero speculatori, strozzini e altri affaristi che succhiavano il sangue del popolo, e in pieno giorno, ma non erano certo morti, benché indubbiamente corrotti. Le vere sanguisughe non abitavano nei cimiteri, ma in palazzi assai confortevoli».

Così parlò Voltaire quasi tre secoli fa ironizzando sulle teorie del filosofo Dom Calmet che nei vampiri trovava “una prova irrefutabile della resurrezione”. Si deve pensare che i vampiri non siano mai morti – del resto per natura sono morti-non morti, morti-vivi – se i loro gemelli, gli zombie, per quanto teatralmente acconciati, sabato prossimo sfileranno in via Toledo.

Gioirà Vito Teti che ha appena ripubblicato, con sostanziosi ampliamenti, aggiornamenti e note a piè di pagina che di fatto costituiscono un secondo volume, il suo libro “Il vampiro e e la melanconia” (Donzelli Editore, pagg. 382, euro 34). Libro attuale se è vero che l’epidemia settecentesca produce ancora i suoi frutti, non ha mai cessato di farlo come documenta la sua puntuale e vasta ricognizione delle forme e dei caratteri che, dalla letteratura al cinema, dalla psicologia all’antropologia, dal teatro e ora alle “maschere” napoletane, raccontano un fenomeno che accompagna il rapporto dell’uomo con la morte e con la vita nonostante le differenze di cui le più vistose: i vampiri si nutrono di sangue e gli zombie di carne umana, i vampiri sono eleganti  e perversamente belli e gli zombie orrendi e mostruosi.

A Teti, autorevole antropologo di una scuola che nel Mezzogiorno ha annoverato Ernesto de Martino, Alfonso Mario Di Nola e Luigi Lombardi Satriani, interessa ricostruire il rapporto, richiamato nel titolo, tra il vampiro e la melanconia, perché «il vampiro è mutevole, cangiante, errante, ambiguo e dovunque si trasferisca, dovunque si nasconda, si presenta con un’insopprimibile melanconia». Scrive Baudelaire: «Sono del mio cuore il vampiro,/ – uno di quei grandi derelitti/ condannati all’eterno riso/ e che non possono più sorridere!». «È – chiarisce Teti – la melanconia dell’individuo che si avverte condannato a una “non morte” e a una “non vita”, di chi non può vivere una “vita normale” e di chi non può morire una “morte normale”, di chi deve vegliarementre gli altri riposano».

Irrazionale, inconscio, magia, potenze nascoste in una città “patria dello spirito” come Napoli, dove trovi più fantasmi che vampiri, la melanconia può assumere il volto dello jettatore. Teti torna indietro nel tempo, a un’opera del 1857 che «narra la potenza distruttrice ed eversiva dello sguardo»: “Jettatura” di Théophile Gautier. Nel celebre racconto di Paul, giunto a Napoli dall’Inghilterra per incontrare la fidanzata Alicia e accompagnato da una fama di jettatore che troverà tragiche conferme, lo scrittore ci dice che «erano soprattutto straordinari i suoi occhi… Allor che non erano particolarmente fissi su qualcosa, appariva in essi una vaga malinconia, una tenerezza languente in un’umida luce; se si fissavano su qualche persona o su qualche oggetto, le sopracciglia si ravvicinavano, si contraevano, scavando una ruga perpendicolare sulla fronte; le pupille grigie diventavano verdi, si picchiettavano di punti neri, si striavano di fibbrille gialle; lo sguardo diventava acuto, quasi micidiale…».

E Napoli torna come “luogo di esotismo e magia” in “Varney il vampiro, ovvero il festino di sangue”, di Preskett Prest e J. M. Rymer nel quale il melanconico Varney anticipa la disperazione di celebri vampiri della letteratura contemporanea e del cinema (si pensi al “Nosferatu” di Herzog) quando per porre fine alla sua drammatica condizione, «stanco e disgustato da una vita di orrore», decise di distruggersi gettandosi “nella bocca infuocata” del Vesuvio evocando le pratiche delle aeree europee dell’epidemia vampirica, il fuoco purificatore quando non bastavano il paletto conficcato nel petto, la croce e l’aglio. Teti ci ricorda che i morti ci parlano sempre. Come i luoghi, anche quando – e qui la sua calabresità è evidente – sono vuoti come i paesini deserti delle montagne appeniniche: continuano a vivere se solo noi ci prestiamo ad ascoltarli.

Occhio e malocchio, ci sarà ancora spazio per la materia nella città del Totò jettatore: tra tre mesi all’ex base Nato di Bagnoli si terrà il ”Napoli Horror Festival”. Il precedente, nell’agosto 1985 a Padova, ebbe grande successo, in particolare la “festa horror” che gli organizzatori definirono “un carnevale col diavolo”.

Ma dove e chi è oggi il diavolo? Ecumenicamente, dopo aver rievocato “i fiumi di sangue” che, nel nome della giustizia, i dittatori hanno sparso in Russia e nel mondo, Amos Oz si chiede: «Certo, Wall Street è un vampiro che ciuccia il sangue del mondo, e allora? Con il sangue versato nessuno ha mai cacciato via i vampiri, anzi li ingrassi, li nutri con altro sangue innocente!».

L’Ulisse che è in noi

Non mi aveva convinto. So che lo scrittore ha licenza di osare, ma Bussi ha osato fino all’inverosimile, miscelando tempi e persone, luoghi e fatti con una disinvoltura molto evidente al primo impatto. Un’operazione ardita, quasi temeraria, quella, dopo ventisette secoli, di rimettere Ulisse in navigazione, di giocare con il suo genio multiforme, con la sua astuzia proverbiale, con la sua sete insaziabile di conoscenza, con la sua “mente colorata”. Un modo per rispondere a una domanda sottintesa: che cosa farebbe oggi se fosse ancora tra noi? che cosa tenterebbe di scoprire e conoscere in un mondo così profondamente mutato? rimpiangerebbe il suo, di mondo, o si troverebbe a suo agio nel nostro? E sarebbe anche un modo per proseguire la ricerca, mai conclusa, dell’Ulisse che è in ognuno di noi.

Poi l’ho riletto. Ma prima mi ha aiutato Pietro Citati con una pagina di grande profondità, come tante delle sue, che leggo con voi: «Come fare allora per capire l’Odissea? Dobbiamo capirla perché comprenderla significa comprendere l’Occidente, la Grecia, noi stessi. Ci sono due strade. La prima è quella che da tempo i migliori studiosi di oggi stanno seguendo. Come ogni grande libro, l’Odissea è un sistema di relazioni, dove le scene si illuminano a vicenda, i temi e le immagini ritornano o si oppongono o si rispecchiano; e non c’è niente di meglio che paragonare tra loro queste scene. Ognuna di esse illumina l’altra. La seconda strada è più ardua e può portare a fraintendimenti. Ma dobbiamo percorrerla se non vogliamo capire troppo poco. Noi tutti possediamo quella che si chiama “immaginazione oggettiva”. Bisogna leggere un testo, e poi rileggerlo, e poi rileggerlo ancora e ancora, fino a quando siamo completamente penetrati dentro di esso, diventando il “secondo Omero” sebbene il nostro corpo resti qui, in bilico tra l’anno duemila e il duemilauno (è il tempo in cui Citati scriveva queste cose). Allora – così continua – noi siamo Penelope, Ulisse, Polifemo: nessuna delle loro sensazioni e dei loro sentimenti ci sfugge. Come diceva Musil, esiste anche un’esattezza dell’anima».

Ecco, la rilettura, accurata come può esserla una seconda lettura, del libro di Bussi ha stimolato la mia “immaginazione oggettiva” e mi ha convinto che lui abbia fatto altrettanto, ma non una sola volta, prima di accingersi a questa impresa, sottolineo ardita, e poi di raccontarcela estraendo il buon vino da una vigna ben governata. Perché dietro questo “Ulisse e il cappellaio cieco” c’è una ricerca accurata, certamente antica, a partire dalle due opere di Omero e, anche, dall’Eneide di Virgilio, a memoria dei nostri anni scolastici, ma approfondita e rielaborata con puntualità e precisione. I rimandi sono chiari ed evidenti e sono sapientemente utilizzati per il racconto del nuovo viaggio.

Bussi gioca con la materia per piegarla al suo disegno. Si appella addirittura a Zeus perché incarichi Minerva di scendere su Itaca e convincere Ulisse a lasciare Penelope, il cui silenzio varrà più di un divorzio, Telemaco, che dovrà governare al suo posto, i suoi uomini e la sua terra. Decisione discutibile, considerato che il suo quotidiano lavoro di re per quanto alla lunga noioso era consono a uno che era tornato, dopo la distruzione di Troia, da un pellegrinaggio tumultuoso e tempestoso di dieci anni nel grande mare e che come primo compito, una volta a Itaca, aveva dovuto eliminare i Proci che avevano profanato la casa e insidiato sua moglie. 

Ma gli dei, guarda un po’ che si inventa Bussi, non comprendono quanto sta succedendo nel Mediterraneo e pretendono che lui vada a trovare per loro spiegazioni convincenti. Per aiutarlo gli mettono al fianco un vecchio cappellaio, cieco come Omero, che, a differenza del capostipite della letteratura occidentale che presumibilmente narrava fatti avvenuti, ha in un cappello la dote di guardare ciò che altri non vedono, vale a dire il futuro. Questi ha un nome simbolico, Yanis Varoufakis, che ha qualche familiarità con l’ex ministro greco tant’è che Bussi, ove mai ci fosse stato qualche dubbio, nella tappa di Cartagine, costringe Didone a chiedere: «ma è un economista?», e fa rispondere a Ulisse: «non lo è, eppure ha capacità straordinarie alle quali non riesco ad attribuire un nome ed un significato».

Ritorna, dunque, Ulisse, sui luoghi del poema omerico. Fa tappa a Lesbo, a Siracusa, a Ischia, a Napoli, si ferma alle Eolie, infine a Cartagine, poi, prima di attraversare finalmente le colonne d’Ercole, dove lo lasceremo, si ferma per una notte d’amore ritrovato con Calipso a Ogigia. Che cosa vede e scopre? Quello che è davanti ai nostri occhi o schermi quotidiani: guerre, popolazioni che emigrano dalla fame e dai conflitti verso la speranza di pane e serenità, uomini malvagi che sfruttano masse di diseredati, i veleni che infettano mare, terra e aria, i valori di una civiltà (l’Ellade che sta per l’Europa) in crisi e insidiati da ogni parte. C’è anche il riferimento al diavolo della finanza a partire da un albero, il tasso, che accarezza il profilo delle isole greche e le cui bacche rosse sono velenose, ma il tasso è anche un animale che l’uomo non riesce ad ingabbiare come i sovrani che tentano di irreggimentare i popoli, ed infine, si fa per dire, è anche uno strumento della finanza che può soffocare i popoli medesimi. Resta impressa nella memoria l’immagine dei cadaveri di migranti dalla pelle non bianca che al largo della costa asiatica si confondono con il luccichio delle onde. Migranti che ritroviamo anche dalle parti dello Stretto, tra Scilla e Cariddi, mostri non più immaginari, che «li obbligano a spezzarsi la schiena per poche dracme l’ora». 

Insomma l’oggi. Ulisse, con la sua vecchia per quanto possente nave, procede, come ai tempi di Omero, con la sola forza del vento e dei remi che affondano in acqua, ma osserva il Mediterraneo che vediamo noi e ci trasferisce, con le sue domande senza risposte, più che la voglia di conoscere, la paura che vada a finire male. E anche quando, consigliato da Didone, si avvia oltre lo Stretto di Gibilterra sulle orme dei tanti, anche “il mercante siriano York”, che l’hanno già fatto per raggiungere la nuova città che sta dall’altra parte del mare, non ci dice che cosa trova ma si accomiata da noi senza spiegazioni. 

Ora, comprendete benissimo perché all’inizio ho parlato di operazione ardita e temeraria e della licenza di osare che ha lo scrittore. Ma può farlo se lo scopo è «capire che cosa sta sconvolgendo il grande mare e ricercarne le cause». Anche mischiando le carte e confondendo l’ieri remoto e l’oggi incombente. La chiave di questo lavoro, che, ricordiamolo, è un romanzo, l’ho trovata a pagina 56 nelle parole che Bussi mette in bocca al “vedente cieco”: «Ecco la necessità del racconto, per riannodare i fili tra passato e presente nel tentativo di leggere il futuro che ci attende. Senza il racconto ogni tentativo risulterà vano, perché in esso riverseremo il nostro pensiero di affidare a quanti dopo di noi avranno la possibilità di leggerci… Quest’impresa travalica il normale… Ulisse, per poter raccontare, dobbiamo prima raccontarci».

Bussi fa correre a Ulisse il rischio che brutalmente Penelope aveva rinfacciato al marito pronto a lasciarla di nuovo: «Ti stai inoltrando in un’avventura dalla quale non caverai un ragno dal buco». E forse alla fine la fedele e infelice moglie avrà anche ragione.

Infine, una confessione personale. Credo proprio nel periodo in cui Raffaele stava immaginando se non già realizzando questo romanzo, avevo avuto a che fare con Ulisse. Ai primi di luglio del 2016 ero nella mia isola greca prediletta, Cefalonia, dalle parti di Poros. Pubblicai su Facebook una foto in cui si vedeva sullo sfondo Itaca. Il carissimo amico e collega, Luigi Necco, che ho avuto anche la fortuna di avere come vicino di pianerottolo, commentò e da lontano si sviluppò un dialogo tra di noi. Lui mi chiese: «A proposito, l’hai vista la “tomba di Ulisse”? Ci sto scrivendo un librettino…». Io a mia volta: «Me lo dicesti, ma non ricordo: dov’è, in base alle tue ricerche? Porto Ateras?». Mi rispose: «A Poros. Ho costretto a farci un sopralluogo anche Bruno d’Agostino, l’Itacese, che ha confermato: tomba regale… ma di duecento anni più antica del necessario… C’è un particolare curiosissimo. Vediamo se qualcuno te lo fa notare, perché se no, al ritorno ti farò mangiare le mani…». 

Andammo, io e Anna, ma la trovammo chiusa. Ritornammo cinque giorni dopo e la visitammo. Pubblicai le foto precedute da questo testo: «Caro Luigi, ritornando sulla conversazione di lunedì scorso sulla presunta tomba di Ulisse a Poros che non potemmo visitare perché chiusa, oggi l’abbiamo vista. Tu scrivesti di un particolare che avremmo dovuto scoprire o farci raccontare. Non ci siamo riusciti. Forse è la forma a cupola? O l’impianto a dolmen: camera singola a sette sepolture? Svela il mistero e, visto che stai per pubblicare un libretto sull’argomento, puoi anticipare qualche conclusione?». E lui: «Caro Matteo, il segreto è tutto lì, in quel particolare… sul quale fonda il libretto che sto scrivendo. Ne ho discusso a lungo (ho la registrazione) con lo scopritore. Leggerai, leggerai, porta pazienza». Con lo scopo non recondito di conoscere questo segreto lo ebbi a cena in una serata indimenticabile allietata da un fresco Ribolla che gli avevo promesso. Parlò di tutto ma non volle svelare il mistero. Purtroppo, non ha avuto il tempo di pubblicare quel libretto e chissà che la figlia 

Alessandra

non abbia trovato gli appunti se non il manoscritto tra le sue carte o la registrazione di cui parlava il papà.

Perché ho ricordato questo episodio, capirete, a me molto caro? Perché in quei giorni Raffaele lesse, ora comprendo con quale curiosità, lo scambio tra me e Necco. Poi in una telefonata accennò alla tomba. E leggendo il suo libro mi sono chiesto e gli chiedo se, tra spunti e motivi, non ci sia anche il fatto che Ulisse non abbia una tomba. Di sicuro non l’hanno trovata nella sua Itaca e dubbi consistenti permangono sulla tomba di Poros, che, mi fido di Necco, non era la sua. Ulisse, a ben vedere, non ha ancora una tomba: non è mai morto. Raffaele, quindi, lo ha riportato in mare, nel suo mare, per fargli fare il suo mestiere: scoprire, conoscere, sapere. Il grande tema del suo fascino, la sua immortalità. E cosa poteva spingerlo a fare se non tentare di svelare, in un mondo che sa tutto su tutto, le ragioni dei nostri mali, delle sofferenze, delle tensioni, degli scontri, delle guerre, delle tragedie? Ulisse lascia la scena per andare verso l’ignoto. Ma non sapremo mai se anche questa volta non è morto. Lo scrittore avrebbe potuto osare l’impossibile: Ulisse che imbraccia l’arco e elimina i Proci del nostro tempo.

Mio intervento alla presentazione del libro “Ulisse e il cappellaio cieco” di Raffaele Bussi a Castellammare il 16 ottobre 2019

Un incontro inaspettato davanti al mare dei Bronzi

Lì dove il mare è già profondo, a trecento metri da dove sto seduto su una comoda sdraio, furono trovati i Bronzi. Neanche Luna riusciva a distrarmi mentre guardavo in quel punto e quel pensiero mi accompagnava dolcemente. Cercavo di immaginare l’emozione che provò Stefano Mariottini, il sub romano che li scoprì il 16 agosto 1972, nel vedere quelle due statue coricate sul fondale quasi dormissero, chissà da quale Grecia venuti e per quale motivo finite lì sotto, da millenni in pace con il mare e in paziente attesa di stupire il mondo. Dovevo ringraziare Luna se ero lì a volare con la fantasia sul nostro mare materno, a assecondare le onde, pervaso dalla tentazione di andare giù fino a calpestare la dimora millenaria di quei due giganti di assoluta, inarrivabile bellezza. 

Cercavamo un posto sul mare dove accettassero la nostra cagnetta. Lo Ionio con le sue sterminate spiagge grigie mi affascinava, la Locride volevo conoscerla meglio e qualche giorno di vacanza poteva essere l’occasione buona per godere delle prime e esplorare la seconda. Da un anno ero in Calabria, con Anna si rischiava di cancellare l’estate. Già l’avevo costretta al sacrificio di fare la pendolare del fine settimana da Napoli. Lei condivideva, mi faceva fare. Chiesi a un collaboratore del giornale, Francesco Sorgiovanni, un imponente abitante di Stilo, diviso tra l’orgoglio della Cattolica e la venerazione per Tommaso Campanella, di aiutarmi. E così ci trovammo in quel piccolo albergo.

La mattina mi intrattenevo sotto un portico che dava sul magnifico giardino attraverso il quale si andava in spiaggia. Giornali, telefono e computer, al lavoro, con l’alibi di stare in vacanza. Intravedevo i pochi ombrelloni, che sembravano ancora di meno in quell’interminabile arenile. Alzavo lo sguardo quando vedevo passare un signore con un asciugamano e un pacco di giornali sotto il braccio sinistro. Mi colpiva anche per il suo passo lento e incerto e per il braccio sinistro sempre in verticale. Avevo anche la sensazione che, senza darlo a vedere, pure lui mi osservasse furtivamente. In spiaggia poi, quando finalmente la raggiungevo, lo scrutavo.

Sedeva su una sedia di plastica bianca, la sua compagna intanto spillava due quotidiani, il “Mattino” e il “Corriere della sera”. Lui li leggeva con metodo, dopo averli piegati in verticale scorreva titoli e testi dall’alto in basso. Dopo la lunga “preghiera del mattino” si alzava con qualche difficoltà e, al braccio di Paola, entrava in acqua. Con prudenza, perché dal bagnasciuga al non “toccare” bastavano pochi metri. 

Ero curioso. Dovevo conoscerlo. Ma dentro di me avvertivo che forse già lo conoscevo. Fu lui, una mattina, a variare il suo cammino verso la spiaggia e a venire verso di me: «Matteo!». E io: «Tonino!». Era Di Nunno. Eh, sì che ci conoscevamo! Lui, un giornalista della Rai di Napoli, ma ancora più noto come sindaco di Avellino, l’avevo incontrato poche volte in qualche occasione di lavoro, ma, come capita tra colleghi, il senso di appartenenza che «non è un insieme casuale di persone/ non è il consenso a un’apparente aggregazione», ci rendeva amici a prescindere. 

Parlavamo – oh, quanto parlavamo! – con la stessa lingua, di professione e di politica, di libri e di avvenimenti. Io gli raccontavo, lui mi raccontava. Ma era lui ad avere la meglio. Perché io, per lavoro, ero troppo calato nel presente, mentre lui viveva delle sue storie, della sua città. Non aveva ancora metabolizzato i suoi epici scontri con De Mita, il padre-padrone di una pattuglia di allievi eccellenti che si era sentito tradito dal ragazzo che non poteva più “dirigere”, e così lo aveva combattuto con tutte le armi. 

Il mare, Anna, la sua Paola, Luna, le cene, i cubi di tonno passato per pochi minuti alla brace, un fresco bicchiere di Critone erano la musica di sottofondo del nostro ritrovarci, compreso il suo compleanno, che fortunatamente capitava nei giorni di agosto che per qualche anno ci videro insieme. Non parlammo mai dell’ictus che lo aveva colpito nel momento più infuocato della sua esperienza amministrativa. Se n’era fatto una ragione, ma non sapeva che la natura matrigna aveva in serbo altro per lui, come anni dopo, un paio di giorni prima della fine, constatai quando lo trovai attaccato a un tubo ma combattivo come sempre mentre mi mostrava l’articolo a dir poco critico verso De Mita che aveva appena pubblicato sul suo giornale irpino. 

Era lontano il ricordo del mare, ma sapevamo che dovevamo a quel mare la nostra appartenenza. Dall’altra parte, da un punto lontano all’orizzonte, dalla civiltà di cui siamo figli, erano venuti quei Bronzi fieri e solenni che sentivamo vicini quasi stessero con noi in quelle giornate serene sulla spiaggia di Riace. Lui un giorno lo dedicava a un rito. Con Paola andava a trovarli a Reggio non mancando mai di attraversare la strada tra il museo e il chiosco di Cesare per gustare il miglior gelato dello Stretto. Al ritorno me ne parlava, anche del gelato, quasi fosse andato a trovare dei parenti. Ci assomigliavamo perché da allora quando vado a Reggio devo stare un po’ anche io con i miei “parenti”. Meridionale Tonino, meridionale io, perché i rami si potano, le radici no. Un po’ bronzi pure noi. Come «avere gli altri dentro di sé».

Racconto pubblicato il 7 agosto 2019 sul Corriere del Mezzogiorno

Michele Tito, il napoletano di ghiaccio

Castellammare, città di navi (ora di scafi vuoti o tronconi da assemblare nei cantieri friulani e liguri), di comunisti (quando ancora se ne partorivano) e di… giornalisti. Quanto a questi ultimi se ne può avere una significativa ricognizione in un ampio saggio di Raffaele Scala sulla stampa periodica negli ultimi due secoli pubblicato su “Libero ricercatore”, che con l’ ”Archivio Giuseppe Plaitano”, costituisce ormai la vera banca dati su rete, quasi un museo virtuale, che raccoglie testi, foto, disegni, cartoline, documenti e quant’altro sulla storia non certo povera della città. Ora tra le mani ho un libro fresco di stampa che racconta il più bravo di tutti noi (pure io faccio parte della squadra): Michele Tito. Lo ha scritto Raffaele Bussi (Michele T., Marcianum Press editore, pagg. 208, euro 16), che con questo romanzo raggiunge la sua maturità dopo opere importanti tra le quali quelle sugli esuli russi a Capri o, l’ultima, su Ulisse che ritorna a navigare nel Mediterraneo.

Raccontare la vita di Tito è stata un’operazione facile e complessa. Facile perché Marisa, la vedova (Tito è morto nel gennaio 2003), gli ha aperto il suo studio consentendogli di rovistare liberamente tra le sue carte, dagli articoli agli appunti, dai resoconti dei viaggi a scritti privati: una miniera di notizie e analisi sui grandi fatti del secolo scorso, internazionali ma anche italiani, che Tito ha raccontato in prima persona girando in lungo e in largo per il mondo. Bussi, testimone della bontà dell’adagio che chi cerca trova, ne ha approfittato ma si è trovato di fronte a una scelta complicata: come raccontare a sua volta il lavoro e la vita di un giornalista, che quasi sempre sono la stessa cosa?

Ha liquidato il curriculum in una sintetica postfazione, dalla nascita nel 1925 in Libia e dall’arrivo all’età di otto anni a Castellammare, dove frequenta il liceo classico “Plinio Seniore” per poi approdare alla “Federico II”, a tutte le tappe della sua intensa biografia di corrispondente, inviato, capo redattore e direttore. Poi gli ha dato la parola nel corso di una conversazione sul treno dell’ultimo viaggio con un giovane giornalista, salito a bordo per errore e prossimo a scendere in una stazione per così dire di riserva. Dunque, è Tito che si racconta. 

Non parla di faccende personali tranne in un paio di occasioni, come quando al suo provvisorio compagno di viaggio che lo riconosce nel “famoso giornalista, direttore di tanti quotidiani” risponde: «Famoso! Un giornalista è un giornalista e basta. Certamente più o meno bravo. Ma questo dipende dalle qualità di ciascuno». Poi precisa facendo un salto nel futuro: «I primi anni Cinquanta segnarono il mio esordio nella professione, ma di acqua sotto i ponti ne è passata da allora. I tempi sono cambiati. L’avvento del mezzo televisivo ha cominciato a rendere famoso anche chi tanto bravo non era. Io sono rimasto fedele alla carta stampata, a parte qualche breve comparsa come moderatore in tribune politiche». Chissà cosa avrebbe detto del giornalismo nell’era dei social!

I capitoli sono pezzi di storia. Le pagine sull’Algeria in subbuglio nel sofferto distacco dalla Francia sono da manuale: c’è lo scavo in profondità delle ragioni dell’uno e dell’altro, delle tensioni, delle speranze e delle pene dei soggetti in campo, dalle masse contadine ai proprietari terrieri, dagli amici dei francesi ai musulmani, dai giovani dinamitardi ai comunisti. Quegli articoli da Parigi e Algeri sanciscono il suo valore professionale e culturale, la sua cifra di grande esperto dei fatti internazionali. 

Leggere quello che racconta, che poi è quello che scrisse per anni, sulla Cina di Mao, dove andò come primo inviato europeo al tempo dei primi contatti governativi di Roma e Parigi con Pechino e fu il primo giornalista occidentale a incontrare Chou En-Lai, è utile per capire da dove nasce il miracolo della più popolosa e potente nazione del mondo a partire dal suo distacco dall’Urss e per finire con la storica riappacificazione con il Giappone. Si viaggia con lui per le strade delle città, nei negozi, nelle scuole, ci si ritrova tra i fanatici della rivoluzione culturale, e poi, quando questa è stata digerita, in una Cina che riparte dai fondamentali, dalla scuola, dalla cultura, soprattutto dalla scienza, che non sono parole astratte ma scelte calate nel concreto di un paese sterminato, fin nelle aree povere delle campagne. Negli anni Tito sarà considerato un “amico” del popolo cinese, ma il suo segreto è semplice: lui sta sulla soglia, non ha pregiudizi, ha lo sguardo e la mente liberi per vedere, analizzare, contestualizzare, capire e, come fa un giornalista, raccontare. Questo cinese è un libro nel libro. Ma ci sono le zoomate su tanto ancora, l’Europa dell’Est in subbuglio, l’ascesa di Gorbaciov, i tormenti della Romania e della Jugoslavia, ovviamente la caduta del Muro.

Non manca l’Italia. Bussi gliene fa raccontare un pezzo, di quando da direttore de “Il Secolo XIX”, giornale molto gettonato dalle Brigate Rosse, profondamente radicate a Genova, si trova ad affrontare prima la tragedia Moro e poi il sequestro del giudice D’Urso. Non condivise la linea della “fermezza” e quando toccò a lui scelse diversamente: pubblicò un farneticante documento delle Br in cambio della liberazione del magistrato, che poi avvenne davvero. Si chiese: «Un errore trattare? Ad un errore è possibile rimediare, alla perdita di una vita umana no».

Prima di andare a Genova era stato chiamato da Piero Ottone come vicedirettore del “Corriere della Sera”, e si ritrovò a fianco di Gaspare Barbellini Amidei e Franco Di Bella. Poi, con l’avvento di Rizzoli, Di Bella divenne direttore con tutto il carico inquietante delle trame della P2 che attraversarono la proprietà e la direzione. Prima di andarsene, Tito di fatto, per un periodo relativamente breve, tenne le redini del giornale. Ne ebbi personale cognizione il 16 agosto 1977, quando trascorsi un’intera mattinata seduto su una poltrona del suo studio in via Solferino per un motivo che racconterò altrove, e lo vidi all’opera: nella notte il criminale nazista Kappler era scappato dal Celio, e Tito stava coordinando il lavoro del giornale. Una grande calma in un tripudio di andirivieini di redattori capo, capiservizio e inviati , telefonate e decisioni istantanee.

Lo ha descritto bene Barbellini Amidei nel suo ricordo dopo la morte: «C’era un ordine nell’apparente caos del suo tavolo. Macinava centinaia di fogli di carta, tanti andavano in tipografia e tanti finivano nel cestino». E poi un cammeo: «Era un napoletano di ghiaccio». Non aveva torto. Infatti, gli rimase l’amarezza quando, in predicato di venire a dirigere “Il Mattino”, gli fu preferito altro direttore per motivi politici. Non so se si può dire: quello era il suo sogno. Me ne resi conto quando, nel periodo della sua direzione de “Il Secolo XIX, mi chiese di scrivergli dei pezzi su Napoli: «Non pezzi di cronaca – mi raccomandò – piuttosto articoli che raccontino la città. Facciamogliela conoscere questa nostra grande capitale ai miei lettori genovesi che pensano che lì ci sia solo un porto».

Recensione pubblicata il 29 febbraio 2020

Lo sguardo di Compagnone sulla città di Masaniello

L’amarezza è la sua cifra per scandagliare quella Napoli non più«bagnata dal mare»

di Matteo Cosenza

Quando conobbi Luigi Compagnone, con il quale ebbi poi una quasi quotidiana frequentazione per molti anni, ero curioso di capire quanto fosse vero lo spietato ritratto che di lui fece Anna Maria Ortese ne II mare non bagna Napoli , e di conoscere da vicino il «funzionario della radio… alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani, gli occhi, di taglio delicato, di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia». Fin qui esattamente l’idea che trasmetteva la foto fattagli da Luciano D’Alessandro, nella quale ritrovavo sì «la lotta tra certa nobiltà e gentilezza» ma meno la «disperazione e la perfidia», men che mai «quella parte inferiore di lui… avanzata come un male nascosto» e il lapidario finale di quel «mento aguzzo di vecchio», che l’Ortese gli aveva cucito addosso.

In questi giorni ho ripensato all’autore de L’amara scienza , romanzo «acuto e impietoso» secondo la felice definizione di Enrico Fiore, per quello che vado leggendo su Masaniello, a partire da Napoli, nostalgia del domani di Paolo Macry per proseguire con Napoletanità di Gigi Di Fiore e, soprattutto, con il saggio di Aurelio Musi su Masaniello e sul Masaniellismo , e da ultimo l’articolo di Pietro Treccagnoli sulla rivolta riuscita del «Masaniello di Bruxelles». Per questo ho ripreso dalla scaffale l’ingiallito romanzo di Compagnone, Ballata e morte di un Capitano del Popolo , in cui non è mai scritta la parola Masaniello ma si intende chiaramente che il «Capitano del Popolo» è la sua trasfigurazione.

In quest’opera, dalla scrittura colorita e al tempo stesso incalzante e asciutta come solo può fare chi dal latino ha succhiato il ritmo, si muove una folla sterminata e variegata: ci sono tutti ma proprio tutti i personaggi delle fiabe, dall’Orco alla Bella Addormentata, ovviamente c’è lui, Pulcinella Cetrulo nelle vesti di «Capitano del Popolo», brillano poi il «Cardinale avvucato», i re e le regine, in platea si agita il popolo, «una bestia varia e grossa, che ignora le sue forze» come ammonisce Tommaso Campanella nella sua celebre poesia che apre il libro. La città, naturalmente, è Napoli e il luogo dove abita il Capitano sono piazza Mercato con l’onnipresente forca e il palazzo in cui lui dorme e soprattutto il gàifo da dove muove verso il «mondo» quando non se ne sta seduto su un gradino di lucida pietra vulcanica a dialogare con l’Orco.

La storia inizia e finisce come avvenne davvero, il resto è una continua esplosione di immaginazione. Lo sguardo triste sulla città è ancora più tale per la cifra poetica che Compagnone ha scelto. L’amarezza è evidente e l’indignazione non gridata qui è sottesa al testo, in linea, ma alla sua maniera stilistica, con tanta opera degli scrittori napoletani suoi coetanei, che nel dopoguerra scandagliarono la città e si ritrovarono in quella che, secondo l’Ortese, non era più bagnata dal mare.

Ora penso che, sollecitato dalla ricorrente attenzione alla figura di Masaniello, l’aver ripescato il romanzo di Compagnone pubblicato nel 1974 sia collegato anche alla nostra collaborazione intensa e continua che avemmo alla «Voce della Campania». Il «funzionario della radio» fustigava i napoletani, e quindi sé stesso, con la tranquillità di un figlio il cui bene verso la mamma non è in discussione. Non risparmiando i suoi colleghi: «Essi amano molto i puparuoli, di cui ghiottamente si nutrono. E ne nutrono a cena i loro protettori, che ricambiano con altrettanti puparuoli: ovviamente imbottiti». Per questa opera demolitoria chiamò in soccorso il suo amore intramontabile, Giacomo Leopardi, e la sua satiretta I Nuovi Credent i. Ricordate? «S’arma Napoli a gara alla difesa/ de’ maccheroni suoi; che a’ maccheroni/ anteposto il morir, troppo le pesa». E così mentre lo storico Francesco Barbagallo ricostruiva il clima culturale ostile al poeta di Recanati nel suo agitato soggiorno napoletano, Compagnone la piegava al suo presente: «S’arma Napoli a gara alla difesa/ dei mascalzoni suoi; che i mascalzoni comandano la danza dei cialtroni/ e dei miliardi. Tacita è l’intesa», e sullo stesso tono proseguiva con sulfurea perfidia, forse la stessa che gli aveva rimproverato l’Ortese.

Una collaborazione e anche un’amicizia a tutto campo. Poteva anche lasciarti senza parole per le faccende banali della vita. Quando lasciò la moglie e la sua casa di Posillipo per andare a vivere al Parco Imperiale di Gragnano, alla periferia di Castellammare e a un chilometro da casa mia, con Chellina, la poetessa Rachele La Rotonda, un giorno mi telefonò per chiedermi se potevo ritirare per lui un pacchettino in un negozio di Napoli e portarglielo. Mi recai allo Spirito Santo, parcheggiai come potevo e andai a prendere il pacchettino: era una sedia a rotelle per la sua compagna. Volevo lamentarmi, ma capii che così era fatto Luigi.

Disarmante, generoso, sempre fustigatore e spesso capace anche di autocritica, avidamente volto a indagare le persone e, dunque, l’umanità, soprattutto i giovani dai quali si aspettava qualcosa di meglio di quello che a loro avrebbero lasciato gli adulti. Come quella mattina. Ero in Vespa con mia figlia. L’accompagnavo all’Università per un esame per poi andare al giornale. Passai prima da Luigi per ritirare un articolo. A quel tempo abitava a Monte di Dio al piano terra. Pensai inevitabilmente all’ammezzato dalla cui vetrata Anna Maria Ortese aveva origliato per affrescare le sue vittime, ma qui era diverso. Eravamo a Napoli, a Napoli per davvero. Luigi mi aspettava, io non entrai dalla porta perché la sua finestra affacciava sul cortile. Facemmo tutto così, alla napoletana, io fuori e lui dentro, come se lui abitasse in un «basso» e io stessi in strada. Ovviamente volle conoscere mia figlia e immediatamente incominciò a interrogarla. Lei, impaziente e con la testa altrove, ogni tanto con lo sguardo mi implorava di liberarla, ma ce ne volle. E lui era contento perché un po’ l’aveva conosciuta.

Molto prima di allora aveva collaborato quotidianamente con Paese Sera , al tempo in cui era gestito da una cooperativa. D’accordo con la direzione, l’avevo anche convinto senza faticare molto a scrivere lui il corsivo di prima pagina, lo storico «Benelux» dietro cui in un passato glorioso si erano celate le grandi firme del quotidiano. Un pomeriggio mi telefonò per dirmi che ci lasciava per andare in un altro giornale. Me ne dispiacqui. Poi ci ritrovammo ancora. Perché quel «mento aguzzo di vecchio», nella sua vitalità e nelle sue contraddizioni, mi era caro.

Fonte: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/20_aprile_23/sguardo-compagnone-citta-masaniello-b7c34fec-8531-11ea-99b4-f928831bd11a.shtml?fbclid=IwAR15jDiXCpcmrmNjJTbZnTeuKR4Y_Btj_MpGKZH8t2lIWjm9LsUH-qQeLPo

Castellammare, la piccola Napoli

Gli errori si pagano. La “mia” città sta pagando. Se osservo l’indefinito e infinito cantiere di Bagnoli e ricordo l’acciaieria di Nitti e la sua classe operaia svanita nel nulla, penso a Castellammare, la “piccola città” di un libro di Franco Ferrarotti. Piccola poi… di misure, di spazi, di numeri sì, ma un motivo doveva esserci se la chiamavano la “piccola Napoli”. Del resto, che cosa le mancava? Storia, tradizioni, mare, collina, montagna, campagna, industria, porto, terme, cultura, politica: aveva tutto, certificato e documentato, in dosi abbondanti, in una prodigiosa miscela che generava identità e orgoglio di appartenenza.
Che c’entra Bagnoli? Che cosa lega, in questa riflessione in parallelo, Bagnoli e Castellammare, il quartiere che stette alla fabbrica come il liquido amniotico alla nuova vita e la città che ha visto il tramonto non solo delle sue industrie? Forse solo il trovarsi in mezzo al guado, che non sempre è fatto di acque chiare, fresche e dolci, o, chissà, la moria di operai e le sue conseguenze sociali e politiche, o probabilmente il mare che bacia il quartiere e che nella città si è insinuato perfino nel nome. Dunque, gli errori. Mi riferisco a quelli di Castellammare, perché su quelli di Bagnoli non saprei cosa dire dopo le pagine di Ermanno Rea.
“Figlio” non so quanto “difficile” benché Michele Prisco non si riferisse alla mia generazione, anche la mia «giovinezza odorava del profumo dei biscotti della ditta Riccardi», ascoltava la musica delle sirene del cantiere navale, si dissetava o curava a una delle ventotto acque minerali, invocava la primavera per raschiare a denti stretti le foglie dei carciofi degli orti di Schito rigorosamente arrostiti, si alternava tra incursioni al Castello medievale, alla villa di Plinio il Vecchio e al Palazzo Reale e, di giorno e pure fino a notte inoltrata, consumava la vita sul lungomare e in Villa comunale tra una vasca e l’altra.
Era, il nostro, un tempo non perduto, tra il sogno del domani e l’illusione di costruirlo con la fragile arma della passione. I fatti, testardi come si sa, andavano altrove. Ci fu, però, chi aveva lavorato, fatto proposte, approntato progetti e messo paletti importanti, e, quando si decise altrimenti, avvertì i suoi concittadini del vicolo cieco in cui si stavano infilando. Ho riletto un suo discorso, grazie a un libro di Raffaele Bussi, stabiese molto attento alla memoria della città. Pasquale Cecchi, ultimo vicesindaco prima del fascismo e primo sindaco dopo la Liberazione, lo pronunciò in Consiglio comunale il 22 settembre 1954. In quell’anno, sconfitto in elezioni molto contestate, passò il testimone al sindaco democristiano Giovanni Uberti, che tra i suoi vezzi aveva quello di far precedere il cognome da un “degli” per acquisire la discendenza dal Messer Neri degli Uberti della novella di Boccaccio ambientata a Castellammare. Al centro dello scontro politico il tema, che negli anni a venire divenne spartiacque tra il Pci cosiddetto industrialista e la DC portabandiera dello sviluppo turistico. In realtà la divisione era più complessa.
La città discuteva del destino delle Terme, collocate di fronte al cantiere navale. Sul tavolo due progetti. Uno della Società Stabia gradito alla Cassa per il Mezzogiorno e sponsorizzato dalla DC, redatto dall’architetto Marcello Canino che prevedeva la realizzazione di un nuovo stabilimento dall’altra parte della città, sul pianoro deserto del Solaro, che doveva diventare il volano dello sviluppo turistico. L’altro, redatto dal professore Luigi Cosenza insieme agli architetti Massimo Napolitano e Eduardo Vittoria per conto dell’amministrazione comunale presieduta da Cecchi, proponeva la ristrutturazione e l’ampliamento delle Terme esistenti mediante la demolizione di vecchi fabbricati e la creazione di nuove strutture alberghiere con costruzioni basse e inserite nel contesto naturale, diffuse da un lato verso Pozzano lido e dall’altro verso la Madonna della Libera, con uno sviluppo che si sarebbe dovuto riconnettere attraverso i boschi di Quisisana con Palazzo Reale e Monte Coppola. In questo quadro era centrale il recupero, sicuramente lentissimo ma necessario, del Centro Antico che dalle Terme e dal cantiere si allunga fino a piazza Municipio. Infine, ed era un elemento di scontro, Cecchi non intendeva alienare il patrimonio idrotermale, un tesoro ingente”, che era del Comune e al quale ambiva la Cassa per il Mezzogiorno. Con il cambio della guardia a Palazzo Farnese, passò la scelta delle Nuove Terme al Solaro e in quel Consiglio comunale Cecchi pronunciò un discorso profetico.
«Si parla – disse Cecchi – di turismo e di terme e di trasformare il volto di Castellammare, quando vi sono zone malsane, antigieniche dove la vita umana si svolge in condizioni assolutamente incompatibili con la vita civile… Voi eliminerete solamente un’immensa ricchezza patrimoniale che dal Comune traferite nelle mani degli speculatori che si celano dietro la Cassa per il Mezzogiorno. Non si risolvono i problemi cittadini creando due stabilimenti termali… La città rimarrebbe nello stesso abbandono, con quell’ammasso uniforme di topaie che sorgono alle Terme Comunali dove vive tanta parte del popolo di Castellammare».
Il 26 luglio di dieci anni dopo, al termine di un’aspra contesa, furono inaugurate le Nuove Terme al Solaro e le miracolose acque furono pompate dalla pianura alla collina. Sono chiuse e vandalizzate da anni. Desolatamente. Il turismo annunciato è un desiderio, il termalismo, finanziato con il welfare, non ha innescato processi virtuosi in una città vieppiù disordinata urbanisticamente e soffocata da un tappeto di auto che neanche a Napoli. E il Centro Antico di Raffaele Viviani, immobile nel tempo, abbandonato e decaduto, ulteriormente ferito dal terremoto del 1980, è un argomento di campagna elettorale.
Incurante del suo storico centro, Castellammare è cresciuta dall’altra parte, verso il Vesuvio. Cemento, naturalmente, che come un magma non ha risparmiato i vantati orti. Abusi a piene mani, e non potevano mancare, nell’area archeologica e sulla collina. Ah, le industrie! Molte chiuse, di altre ci sono tracce in scheletri di edifici cadenti, di alcune non si ha più memoria. Certo c’è il cantiere che è stato difeso fin quando c’è stata una classe operaia come quella estintasi a Bagnoli, e che, tolto il vanto una tantum della portaerei, è ridotto a produrre tronconi di navi da destinare agli stabilimenti settentrionali.
Le Antiche Terme, ristrutturate e chiuse per anni, con qualche parziale riapertura a singhiozzo negli ultimi tempi, erano un gioiello. Con quello stile un po’ neoclassico un po’ liberty che le stazioni termali europee più accorsate hanno gelosamente protetto. Fu demolito il padiglione Moresco e la facciata, che dialogava felicemente con quella del cantiere navale, fu sostituita dall’attuale, a dir poco anonima, imitata dal dirimpettaio sicché il dialogo, ora infelice, continua. Turismo by by. Salvo, grazie al lungomare finalmente risistemato, quello “mordi e fuggi” proveniente dai comuni vicini.
Dal grande terrazzo della Reggia o dalla Madonna della Libera, la città, con molto sforzo, è ancora un soggetto per gouaches. Sembra una quinta teatrale: il Faito, il Castello, il cantiere, il porto, il Centro Antico, la Villa e il lungomare, l’isolotto di Rovigliano, il Vesuvio, il Golfo. Da lontano…
Tanti errori, ma gli errori sono state scelte. Andare in una direzione o in un’altra non è mai senza conseguenze. Annibale Ruccello avrebbe consigliato di ritornare al passato per progettare il futuro, ma è morto precocemente e di lui c’è solo un busto in Villa comunale.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 15 maggio 2020

Castellammare, le ragioni di un declino

Quando ho scritto l’articolo su Castellammare non immaginavo che potesse suscitare un dibattito e per di più così intenso. Non volendo, evidentemente ho toccato dei nervi scoperti anche se il pretesto, e sono sempre felice quando ne trovo, era stata la lettura delle cronache e dell’intervento del sindaco comunista Pasquale Cecchi in una seduta del Consiglio comunale del 1954, quando questi si oppose alla scelta della neonata amministrazione comunale democristiana di realizzare le Nuove Terme sulla collina del Solaro. Una curiosità storica, dunque, tant’è che questo mio scritto è stato ospitato nelle pagine di cultura. Ora ne scrivo non già per trarre conclusioni o dare risposte quanto piuttosto per ricavare da questo animato confronto riflessioni spero utili. 

Al declino di Castellammare tutti hanno tentato di dare una spiegazione. Chi ha ragione? Io, potrei rispondere, ma non lo faccio non solo per pudore ma anche perché in ogni commento ho trovato un pezzo di verità, dalla datazione della svolta verso il peggio alle responsabilità politiche che hanno condizionato la vita amministrativa, dall’assistenzialismo pubblico ai vincoli non sempre necessari all’iniziativa privata, dall’urbanizzazione selvaggia all’asfissiante presenza della camorra. Una verità frammentata che può ritrovare unità nella nostra maestra di vita, la storia, che è tale per le grandi vicende ma anche per una “piccola città” che ha proverbialmente rappresentato un test di valore nazionale.

Castellammare è stata una città fortunata, diciamo “baciata” dalla natura, e qui apro e chiudo l’abusato ma veritiero ritornello. Ma l’hanno reso fortunata anche gli uomini. Per esempio, i Borbone che la tennero ben riguardata con scelte strategiche come il cantiere navale, divenuto simbolo e attrattore straordinario. Anche nelle fasi post-unitaria e della prima abbondante metà del secolo scorso lo Stato in primis le dedicò attenzioni particolari. Quando io frequentavo il liceo il tessuto industriale era ricchissimo. Molto e qualificato il comparto pubblico, come il ricordato cantiere che diede lavoro, assommandovi anche quello delle ditte appaltatrici, a oltre duemila persone, l’Avis, che riparava le carrozze delle Ferrovie dello Stato, la Corderia militare. La presenza privata era di prim’ordine, basti pensare ai Cantieri Metallurgici, alla Calce e Cementi, alla Cirio, la cui ex area è ritornata di moda per faccende poco commendevoli, alle attività artigianali, ai mulini e ai pastifici virtuosamente in gara con quelli delle confinanti Gragnano e Torre Annunziata. Su una popolazione di circa sessantamila abitanti oltre un sesto aveva un’occupazione e un salario sicuro nell’industria. E poi le Terme, vecchie e nuove, che avrebbero dovuto innescare lo sviluppo turistico, ma la loro esistenza, di cui hanno beneficiato più gli affitti delle case private e qualche albergo, è durata il tempo del termalismo sociale, anche questo finanziato e totalmente dallo Stato. 

Perché ricordo schematicamente questi dati arcinoti? Per sottolineare che la peculiarità di Castellammare, della sua storia economica, industriale e soprattutto politica, scaturisce esattamente da questo contesto. Perché la città è stata fortemente connotata dalla presenza di una classe operaia che, mi sia consentita una reminiscenza marxiana, per effetto della sua funzione etica, intrinseca al ruolo di produrre beni necessari alla collettività, ha finito con l’irradiare proprio questa sua moralità nella società. La storia politica stabiese è stata egemonizzata per lungo tempo da questa componente, e non solo quella della sinistra, dove sicuramente è stata più rilevante, ma anche altre aree, come la Dc per quanto partito a vocazione interclassista.

Non sto qui a analizzare perché lo Stato e, con esso, i privati si sono via via ritratti mandando in crisi un equilibrio sociale e, conseguentemente, politico così definito. Dovrei parlare di questione meridionale (si può fare ancora?), della crisi della partecipazione statale nell’industria, delle politiche di indebitamento che hanno prosciugato le casse pubbliche e così via. Mi preme piuttosto tornare a bomba per sottolineare due fatti.

Il primo è che, prosciugandosi il bacino della base operaia, si è ridotto il suo peso politico e di quei militanti e dirigenti politici, ripeto di quasi tutti i partiti, si sono perse le tracce. Il secondo è che la sinistra, che da quella prateria ricavava la sua ragion d’essere, si è un po’ alla volta caratterizzata come una forza di governo che, mentre viveva in ragione dell’eredità di quel patrimonio umano, politico e culturale, aveva le mani libere per agire. Non che siano mancate fasi e iniziative di utilità per la città – ci sono stati anche buoni sindaci e amministrazioni valide -, ma le linee di tendenza generali mi sembrano queste.

In questo scenario si deve ricordare la presenza della camorra. Che c’era anche prima, con codici diversi ma c’era. Quando si indebolisce il cordone “sanitario” pubblico – e qui ognuno può individuare le date che preferisce e suddividerle tra svolte o continuità – la camorra dilaga e da questuante diventa protagonista e onnipotente. Penso, ripescando dalla memoria, alla battaglia, vinta almeno per quella fase, che prima del terremoto del 1980 fu condotta contro le infiltrazioni nelle ditte appaltatrici dell’allora Fincantieri. Si arrivò anche a far esplodere una bomba davanti al Supercinema dove si doveva tenere una manifestazione del Pci proprio contro questo assalto dei delinquenti alla sua fabbrica-simbolo.

In conclusione, torniamo indietro? Non si deve né si può. Siamo in un’altra città, politicamente, socialmente, economicamente, culturalmente, direi antropologicamente. Il passato appartiene alla storia più che alla nostalgia. Dobbiamo, però, sapere che cosa e come eravamo e come siamo ora. Noi, il paese e il mondo. Stiamo parlando di un tempo in cui non c’era il computer e gli immigrati eravamo ancora noi e qualche comunità rom di passaggio. Ma chissà che di quella storia almeno una lezione ci rimanga: senza il lavoro una società è povera. Povera non solo di cose, ma di energia e di moralità. E sarebbe opportuno che di questo si rendano consapevoli i giovani.

Articolo pubblicato l’11 giugno 2020 sul Corriere del Mezzogiorno