Le “anime nere” di Gioacchino Criaco

Questo è un libro da maneggiare con cura per tanti motivi. Sicuramente è da leggere. Intanto perché è ben scritto, perché è avvincente, perché c’è la storia che è forte di suo, di quello che si legge e anche dell’ansia di andare avanti per capire che cosa riserva. Poi è un’opera prima e come tale si avvantaggia dell’effetto sorpresa. A seguire, c’è lui, l’autore, Gioacchino Criaco, che un bel giorno ha deciso di darsi alla narrativa, e non è chiaro se più per la voglia di fare lo scrittore o per la necessità di raccontare cose che lo riguardano e cercare di spiegarne agli altri il significato profondo: a tratti sembra che voglia fare i conti con se stesso in pubblico, quasi una confessione per quanto trasfigurata dalla narrazione apparentemente di fantasia. L’editore Rubbettino ci ha messo il suo con una cura certosina – immagino anche un delicato e prezioso lavoro di editing – e con una copertina intrigante dove i boschi delle “Anime nere” sembrano voler dialogare con i coltelli rosa di “Gomorra”.

Ma più che a “Gomorra” di Saviano, da cui è molto lontano, sebbene l’attualità imponga inevitabilmente il confronto, “Anime nere” fa pensare ad un film straordinario di Martin Scorsese, “Quei bravi ragazzi”, dove in maniera anche scanzonata si raccontano le gesta di una banda di delinquenti che a New York passa di efferatezza in efferatezza con naturale leggerezza: donne, denaro e sangue. Uno sguardo sbagliato ti fa finire nel bagagliaio di un’auto, un ordine mal compreso può costare la vita ad un povero ragazzino che fa il cameriere in una bisca per mano di un divertito Joe Pesci. E chi racconta questo inferno, che sembra un paradiso, sottolinea come tutto questo fosse normale per lui. Vero è che alla fine si pente e fa arrestare tutti i suoi amici. Ma quello che conta non è il finale ma il racconto: vedete – dice questo mafioso italo-irlandese – questo era il mondo che avevo conosciuto, non ne concepivo un altro, questo era diventato l’unico mondo possibile per noi, c’era il nostro mondo e poi c’era il mondo degli altri da cui attingere con la prepotenza e la violenza tutto quello che ci serviva.

L’incipit, forte e importante, di “Anime nere” è perfettamente simbiotico con questa concezione, perché l’io narrante, una figura inventata o lo stesso Criaco?, racconta il suo mondo possibile: «Camminavamo veloci, gli scivolavo dietro come una slitta trainata da cani, era così da ore. L’appuntamento era notturno, e notturna, ovviamente, doveva essere la traversata. Di questo si trattava, percorrere la regione lasciando la vista di un mare per vederne un altro». Poi prosegue: «Avevamo munto le bestie e dopo averle ricoverate e riposto il latte alle prime ombre della sera eravamo partiti. La consegna del porco doveva avvenire a molti chilometri di distanza, lui agli appuntamenti arrivava sempre in abbondante anticipo. Attraversammo nell’ordine boschi di lecci, bassi e fitti, pieni di cespugli spinosi che a volte vincevano lo spessore degli abiti e segnavano la carne…». La descrizione è dettagliata e spiega perché «una tale traversata – siamo di nuovo nel libro -, anche se fatta di giorno, sarebbe stata per occhi inesperti una pazzia, se non un suicidio: boschi inestricabili, viscide rocce, torrenti impetuosi, dirupi maligni, recinti di filo spinato. Lui entrava in simbiosi con quella natura che poteva apparire ostile, vi s’immergeva completamente e ne faceva parte, ne era un elemento essenziale: la montagna che respinge le ostilità, lo accettava, e lui l’amava più di ogni altra cosa al mondo. Lui e la montagna, ne era convinto, odiavano solo due cose, le querce e i porci, entrambe distruttive per l’ambiente. La quercia rendeva il terreno sul quale cresceva arido e desertico, e il suo frutto ingrassava il porco, che distruggeva boschi, argini, fungaie, colture e pascoli. Lui conosceva ogni passo, albero, ruscello, falesia, ricovero e trabocchetto, come solo un nativo dei luoghi poteva. Lì era nato e cresciuto. Poi se ne era allontanato ma, inesorabilmente, la montagna lo aveva riattratto. Chi là nasceva là moriva. E soprattutto due erano le cause di morte, la fatica e il piombo, a esse era difficile sfuggire. Lui era mio padre. Rappresentava il prodotto tipico di quella terra, tarchiato, forte e resistente, indurito e fragile allo stesso tempo. Soprattutto determinato a resistere, a qualsiasi costo e prezzo, regola legale o morale. Divoravamo la strada che portava al porco, nutrimento avvelenato, forse, per la nostra terra». Seguono l’incontro, la consegna e la marcia a ritroso verso la porcilaia, scavata appositamente per custodire per mesi quelle “bestie” prelevate da un altro mondo, perché «a quel tempo – chiarisce l’io narrante – ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte».

Questo è il mondo, l’humus, la coltura da cui prendono le mosse il libro e la vita delle anime nere, i tre ragazzi che giurano di non separarsi mai, cani sciolti della ‘ndrangheta che alternano gli studi con furti, rapine, postriboli e, passo dopo passo, con gli omicidi. La strada è segnata, tutto avviene con naturalezza, in maniera giocosa, fino a diventare «il frutto avvelenato e letale – leggiamo ancora – che noi eravamo: distruttori di vite, tranquilli e senza violenza ostentata, i più pericolosi. Fuori dai nostri affetti tutti erano nemici, e sacrificabili. Fra di noi eravamo affettuosi, premurosi, quasi dolci. Ci avessero creato, o fossimo geneticamente predisposti, la nostra violenza ha portato dolore, oltre a noi stessi, in posti e a persone che da noi pensavano di essere al riparo. A diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro, tutto quello che volevamo ce lo siamo preso». Il primo omicidio sembra quasi liberatorio: «Ci portò con se Sante e andammo contenti. Superammo l’ultima soglia della pietà umana interrompendo il gioco di un’animata partita a briscola. Lasciammo due picciotti a terra e da lontano udimmo lo strazio di madri e sorelle accompagnarci su una strada ormai senza ritorno. Dopo non si videro più fantasmi. Non ci si svegliò urlanti di notte. Si passò felici e contenti in un’altra dimensione, un gradino sopra gli altri. Ripetei l’esperienza dopo qualche mese, da solo».

E quali fantasmi avrebbe dovuto vedere? Quelli che erano estranei ad una società fortemente dominata da valori semplici e chiari pur nella loro brutalità? Che cosa fa dire Mario La Cava alla madre di Duccio Malintesa, che ha ucciso la sorella per liberarla dalle sofferenze e dai maltrattamenti che subiva dai parenti, se non un tragico e impietoso rimprovero: «O figlio sventurato che hai dato inizio al tuo dolore ma non sai dargli un termine giusto». E al padre: «Finché sarai vivo, la mia mano cadrà su di te, ora ti colpirà nella sua durezza. Ti inseguirò con i miei passi di uomo». La colpa va purificata con la morte, e, se questa tarda, anche un padre è legittimato ad agire fino ad uccidere il proprio figlio.

Le gesta delle anime nere sono il filo conduttore del libro. Un passaggio coglie un tema cruciale della storia calabrese, il senso di non appartenenza allo Stato, anzi il sentirlo lontano, estraneo, nemico. Leggiamo: «Il lavoro dei sequestri sta per finire, lo Stato non può sopportare che i suoi più ricchi contribuenti vengano nei nostri monti a ingrassare malandrini e pastori. Ai figli dell’Aspromonte sta mostrando nuove e più facili vie. Fra un po’ i figli dei pastori saranno tutti qui a vendere bustine». I pastori – anche il padre dell’io narrante – diventano forestali, quindi dipendenti pubblici, mentre i figli studiano per amore dei libri e della cultura: «Del resto -leggiamo ancora – non eravamo diventati ciò che eravamo per colpa loro o perché la società era sporca, brutta e cattiva. Vi erano pochi uomini sporchi, brutti e cattivi. La loro cultura era dominante. C’era una miseria pesante. Non v’era porta della Locride che non avesse conosciuto gli scarponi della benemerita, e questa era la sola faccia conosciuta dallo Stato». E dopo l’analisi l’invettiva: «Se per decenni l’unica persona conosciuta positivamente, prodotta da quel territorio, è stata Corrado Alvaro, significa che i suoi abitanti sono geneticamente tarati o che vi è un interesse, storicamente riproducentesi, alla perpetuazione in serie di criminali».

Da Africo a Milano, la droga, l’incontro con una società opulenta e con la politica della “Milano da bere”, le donne, le prepotenze, i grandi traffici con Bolivia e Colombia, l’incontro con un palestinese che pare venire da lontano ma che si vuole invece vicino al travaglio dei calabresi, la vicenda giudiziaria, il carcere, gli omicidi spietati con corpi che vengano devastati dai pallettoni fino a spappolarsi, il libro scorre e si legge tutto d’un fiato. Ma è tra il punto di partenza, di cui abbiamo parlato, e l’epilogo inaspettatamente tragico della storia che si trovano spunti per riflessioni. La fine è segnata dalla trattativa con lo Stato, quasi una resa, ma lo Stato ha il volto dell’uomo in divisa che è anche lui figlio di quella terra e in qualche modo della stessa cultura. Tutti i ragazzi vengono consegnati e si consegnano allo Stato, quando è il turno dell’io narrante c’è il colpo di scena che lui stesso consapevolmente provoca per impedire la propria resa, per quanto la sconfitta sia nelle cose. Kyria, il protagonista di un sogno, diventa il simbolo di una voglia di riscatto che non si materializza. La Calabria viene descritta come la terra che nella sua storia ha dovuto subire ogni angheria e sopraffazione culturale prima ancora che materiale. Tutte le dominazioni che l’hanno stravolta assumono alla fine il volto dello Stato, per l’appunto lontano, assente o presente e nemico. «Ci hanno cercati – ecco il cuore del romanzo -, non siamo andati noi a chiamarli. Noi stavamo bene con la nostra fame, le nostre malattie, la nostra arretratezza, non volevamo aiuti. Sono venuti nei nostri pascoli ad attaccare cartelli, divieto di caccia, divieto di pesca, divieto di pascolo, tutto diviene un divieto. Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone».

Kyria – o, se non sbaglio, Criaco? – vuole ritornare indietro e cancellare secoli di storia immaginando il suo Aspromonte come un Eden.

Dicevo che questo è un libro da maneggiare con cura. Sembra, per quanto con la formula della narrativa, l’analisi di un anatomo-patologo che viviseziona i fatti e anche quello che passa per la mente di chi li provoca. Da questo punto di vista è un documento importante che fornisce elementi che consentono di penetrare in una cultura profondamente radicata tra la gente di questa terra. Ma, detto questo, fa correre il rischio di incorrere nella decantazione apologetica della cultura stessa e dei fatti e misfatti che produce. Anzi, con l’invettiva contro lo Stato e con la favola di Kyria-Criaco sembra quasi una sorta di giustificazione o di autogiustificazione di tutto il male che c’è stato e che c’è. Peccato che dai sequestri si sia passati alla droga, verrebbe da dire. Un po’ quello che tante volte ho sentito ripetere dalle mie parti, a Napoli: che disastro i camorristi di oggi, almeno quelli di una volta avevano un loro codice etico…

Quello che, a mio avviso, manca nel libro è la presa di distanza, se posso dire, la condanna. Per questo, “Anime nere” è così lontano da “Gomorra” ma anche dalla conclusione del film di Scorsese, al quale pure rassomiglia tanto. E per questo avvince e inquieta. Verrebbe voglia di chiedere a Criaco di dire qualcosa in più – e lo faccio pure in questa sede -, ma non posso ignorare il fatto che il libro è questo e trasmette il messaggio che, nero su bianco, contiene nelle sue pagine. Al di là di quello che penso io e di quello che può dire il suo autore.   

* Mio intervento alla presentazione del libro “Anime nere” di Gioacchino Criaco a Lamezia il 31 ottobre 2008. Il libro lo avevo già recensito sul “Quotidiano della Calabria” prima dell’uscita in libreria.

Lettere dal PCI

Giancarlo Pajetta Pietro Ingrao Fortebraccio
Maria Antonietta Macciocchi Luigi Longo
Enrico Berlinguer
Achille Occhetto

Bassolino: la forza della salita,
 l’insidia della discesa

Gatti, figli e nipotini, montagne e mare, corse e politica. E soprattutto Napoli, immensa, amata, impareggiabile nel suo splendore e nella sua bellezza, nella sua miseria e nella sua nobiltà, la città-mondo di cui gli chiede avidamente notizie Arafat. Antonio Bassolino ha scritto un romanzo, che è anche un libro di memorie e di incontri, di malattie e sofferenze, in cui si intrecciano passato e presente, soprattutto i decenni più vicini e la parte della sua vita a cui tiene di più: l’esperienza di sindaco di Napoli.
“Le Dolomiti di Napoli” (editore Marsilio, pagine 206, euro 15), mette quasi tra parentesi i dieci anni di presidente della Regione Campania. Ne parla all’inizio per ricordare la crisi dei rifiuti «che nei mesi a cavallo tra il 2007 e il 2008 precipita in modo grave». Lui già da tempo non ha più responsabilità, ma «ogni distinzione è travolta. Era come se fossi sempre io il commissario. Anzi, ero commissario, presidente, sindaco di Napoli e di tutti i 551 comuni della Campania, presidente di tutte le province, e magari anche premier e intero governo nazionale. La vicenda viene usata per colpirmi, nel centrosinistra perfino più che nel centrodestra».
Con lui sindaco «per diversi anni Napoli era diventata una delle grandi città italiane più pulite» e «i molti turisti che venivano da tante parti del mondo restavano impressionati positivamente proprio dalla pulizia, dall’antica bellezza nuovamente valorizzata, dal restauro di piazze e di monumenti, da un risveglio sociale oltre che culturale. La città aveva ritrovato una sua identità e riconquistato un suo posto, giusto e meritato, nella considerazione nazionale e internazionale».
Il libro ruota attorno a un’idea, che gli dà poi il titolo. Le Dolomiti sono sicuramente un riferimento concreto di un’esperienza personale, perché Bassolino è uno scalatore da ferrate. Il racconto, denso e preciso da scrittore di razza, è appassionante quando si inerpica su montagne leggendarie, compresa la ferrata di poco più di un mese fa sul Monte Zebrù dove poche settimane prima avevano trovato la morte sei esperti alpinisti. Ma le Dolomiti assumono simbolicamente il valore del carattere dell’uomo e del suo rapporto con la complessità di una città come Napoli. Perché la montagna è fatta di salite e discese e, quando si vuole o si può, di risalite.
In un passaggio dedicato ai due gattini, che gli riempiono casa e vita, l’ex sindaco di Napoli dà la chiave di lettura del libro: «Ginger sale sugli alberi, mentre Fred si esibisce in salti spettacolari. Felici, rincorrono farfalle, insetti e lucertole. Dopo aver preso confidenza con un piccolo ulivo, Ginger sale su uno più grande e alto. È incredibile quanto sia agile: sembra un acrobata, quasi una piccola scimmia. Poi si accorge che scendere è molto più difficile che salire, come sappiamo tutti; soprattutto chi frequenta la montagna e raggiunge i luoghi più difficili e le cime più affascinanti dove sembra di toccare con il corpo l’infinito».
Bassolino ha scalato le Dolomiti di Napoli, in anni di guida della città rischiarati da luci più che da ombre. Le inconfondibili radici popolari della città si fusero con la riscoperta di una tradizione artistica e culturale di valore europeo. Si respirò una bella aria in quegli anni. Piazza Plebiscito si trasformò in un luogo centrale dell’arte mondiale, si impresse un’accelerazione alla realizzazione della metropolitana, che oggi è già, e nel giro di due anni lo sarà definitivamente, la più grande opera di tra sporto urbano su ferro del nostro paese, e contemporaneamente un museo con le più belle stazioni d’Europa.
“La Salita” è anche l’episodio del film in cui Mario Martone gli fa scalare, nei panni di Toni Servillo, il Vesuvio ponendogli domande insidiose sulla politica, l’ideologia e il governo della città.
Poi la discesa, più difficile, come lui ammette, della salita, che avviene negli anni del governo regionale, soprattutto della seconda legislatura che, ammette, avrebbe fatto bene a evitare: «Anni difficili. La fase più drammatica della crisi dei rifiuti, purtroppo, cancella tutto… Giorgio Napolitano pronuncia da Capri parole ingiuste, in quei giorni. Ingiuste come quelle sui “giorni tra i peggiori per Na poli”, dette nel novembre 2006 in riferimento a gravi fatti di ordine pubblico».
Ora questo libro, che racconta salita e discesa, e che forse prelude ad una risalita, ad un ritorno. In mezzo ci sono pagine memorabili come quelle sul rapporto tra Napoli, San Gennaro e il Vesuvio, sull’emorragia che lo portò ad un passo dalla morte, e poi vicende politiche tormentate, e tanto, tanto privato. Da questa miscela di vita scaturisce una conclusione che è insieme una confessione e una riflessione: «Per tanto tempo, per molti di noi la vita coincideva con la politica, con l’agire collettivo, con la voglia di cambiare il mondo. La dimensione politica resta importante ma non può essere l’unica e nemmeno dominante. Combattere le disuguaglianze, valorizzare la qualità del lavoro e fare avanzare le forze deboli della società restano grandi finalità da perseguire in modo moderno e con animo appassionato. Ma senza la pretesa di caricare sulle nostre spalle l’intero mondo e l’illusione di cambiare perfino la vita stessa delle persone nelle sue diverse espressioni. Fuori dalla politica c’è tutto un mondo, c’è tanta vita, e forse cercare di cambiare la propria vita è anche un modo per mettere su basi più giuste un rapporto tra politica e vita.
Tutto questo appare forse più chiaro, perfino più naturale se si guarda il mondo con gli occhi dei figli, di quei propri figli ai quali non sono stati dedicati tutta l’attenzione e tutto il tempo che avrebbero meritato. Se si impara a guardare il mondo con gli occhi dei bambini che preparano il futuro!

No fango a Sibari

Il mio articolo del 22 gennaio 2013 sul “Quotidiano della Calabria” che diede vita a una campagna per salvare l’antica Sibari dal fango che l’aveva invasa. Fu anche fatta una sottoscrizione popolare il cui ricavato fu consegnato alla Soprintendenza archeologica nel corso di unìintera giornata di incontro all’Università della Calabria che si concouse in serata con uno spettacolo originale di Giancarlo Cauteruccio nel teatro dell’Ateneo.

Inquinamento e spiagge

Documenti e manifesti della lotta contro la balneazione nelle acque inquinate e per le spiagge libere attrezzate che fu fatta a Castellammare di Stabia tra il 1972 e il 1973.

Ruggero Zangrandi

Alcuni documenti dell’epistolario con Ruggero Zangrandi che costituiscono il materiale di base di un capitolo del libro “Casomai avessi dimenticato”

Strati, tremila anni di Calabria

Tempo fa si svolse una discussione su quale fosse il criterio più funzionale per ordinare i libri della propria biblioteca. Umberto Eco, Giorgio Bocca e altri si divisero sostenendo soluzioni diverse: per materie, in ordine alfabetico, addirittura per le misure dei volumi. Non ho chiesto a Saverio Strati quale sia il suo ordine, ma per due indimenticabili ore l’ho visto muoversi con sicurezza nella sua casa tappezzata di libri, al terzo piano di via Giotto 4 a Scandicci, e alzarsi ripetutamente per andare a prendere quello che gli serviva in quel passaggio del discorso. Credo che anche bendato saprebbe trovare quanto gli serve, volume dopo volume, ognuno consumato e reso familiare dall’uso, da ognuno uno spunto, una riflessione e tanta ricchezza.
È la sua ricchezza, l’unica, oltre la sua adorata moglie Hildegard, ma è un patrimonio che non gli dà più da vivere, neanche tutti i libri che ha scritto alleviano il suo disagio, perché ad un certo punto su di lui è caduto l’oblio e i suoi romanzi, almeno due, e i racconti sono rimasti nel cassetto. Da tre anni – ha scritto nella lettera allegata alla domanda di applicazione della legge Bacchelli – non presenta la dichiarazione dei redditi perché in casa sua non entra più alcun reddito. Il pudore lo ha portato a nascondere il più possibile la sua difficile condizione. D’altro canto nessuno si è occupato più di lui, e probabilmente se si fosse fatto un sondaggio in Calabria, anche ai massimi livelli, si sarebbe potuta avere la clamorosa conclusione che nella sua terra natale neanche sapevano dove fosse e se fosse ancora vivo. Poi una persona colta e sensibile come Vincenzo Ziccarelli, che ha continuato a frequentarlo con viaggi da Cosenza alla Toscana, ha avvertito che qualcosa non andava e ha lanciato l’allarme. Ora, con lo stesso pudore, il più grande scrittore vivente calabrese ammette di avere bisogno per sé e la sua compagna. Ha ottantacinque anni.
Piccolo, minuto, fragile, cita spesso Antonio Gramsci, e su questo richiamo profondo viene da riflettere per tanti motivi, di cui uno preme sottolineare a chi scrive. Quando parla – e l’intervista che segue ne è conferma – la fragilità scompare e affiora dal suo pensiero una forza illimitata che si trasforma nell’acciaio della speculazione intellettuale e dell’etica come costume di vita. Strati cita Gramsci, e il pensatore sardo, condannato dal Tribunale Speciale perché il suo cervello potesse fermarsi per vent’anni, ritorna con il suo corpo, minuto, fragile, perfino malformato, in questa stanza piena di libri per ricordarci che da quel corpo tanto disprezzato dal fascismo scaturirono l’elaborazione dei “Quaderni dal carcere” e le lettere ai figli de “L’albero del riccio” che non sarà mai troppo tardi andare a riprendere per farli conoscere alle nuove generazioni.

Come va?

«Non bene. Anche questa casa senza ascensore, con mia moglie che ha difficoltà a muoversi… Ma non posso lamentarmi perché mi è andata meglio di Kant. Lui, una mente luminosa, il più grande filosofo dopo Platone – dice Schopenhauer -, che visse ottant’anni e a settantotto anni era già rimbambito al punto che non sapeva come si scriveva il suo nome. Ma Schopenhauer non conosceva Vico che anticipa addirittura l’evoluzionismo di Darwin che, pur essendo cattolico, non si rendeva conto di non credere alla creazione del mondo fatta da Dio quando fondava l’antropologia tramite la “Scienza nuova».

Intanto, però, quando si parla di filosofia si pensa alla Germania.

«Purtroppo Vico non è preso in considerazione, anche se negli ultimi tempi nuovi studi lo stanno rivalutando, e qualcuno scopre con ritardo il saggio di Benedetto Croce su di lui. Vico è davvero un grande filosofo, anticipa tutto Hegel: i tedeschi non hanno inventato nulla, sicuramente non hanno superato i greci e nemmeno gli italiani».

Diceva di Kant e di lei che a ottantacinque anni si sente fortunato?

«Ancora ragiono, scrivo pensieri, saggi, etc. Appunto l’altro giorno ho scritto che Vico anticipa Darwin perché nella “Scienza nuova” avviene l’evoluzione dell’uomo dalla mazza alla freccia, dalla freccia alla spada e così via, e poi dal gorgoglio alla parola e dalla parola al pensiero, e prima ancora l’arte nelle grotte dove si riparava».

Vico, Croce: Napoli capitale del pensiero filosofico italiano?

«Ancora ne è la culla nonostante i rifiuti. Un filosofo tedesco ha detto che non sapeva che Hegel fosse nato a Napoli. E Croce non è che un discepolo di Hegel».

La Calabria, patria di Bernardino Telesio, di che cosa è capitale?

«Bacone definisce Telesio il primo uomo moderno. Telesio è molto importante perché innanzitutto troncò parte del pensiero di Aristotele quando disse che bisogna conoscere le cose e poi parlarne. Da lui nasce la metodologia scientifica dei nostri giorni. Il metodo di Galileo è che bisogna provare e riprovare finché non si ha certezza di una cosa. Galileo nasce per via di Telesio. E
poi c’è Campanella che accetta tutto il pensiero di Telesio si dichiara apertamente contro Aristotele. Quando Cartesio mette il dubbio come sistema della ricerca viene da Telesio anche senza conoscerlo».

Nel cinquecentenario di Telesio il comitato delle celebrazioni sta a Firenze…

«Non si poteva fare a Cosenza?».

C’è stato qualche ritardo nelle procedure burocratiche…

«La Calabria ha avuto grandi pensatori. Gioacchino da Fiore che parla dell’età del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Antonio Gramsci dice una cosa molto importan te, molto lusinghiera per i calabresi: un contadino calabrese è più filosofo di un filosofo che insegna in un’università tedesca. Ed è vero».

Perché?

«Quando io stavo in mezzo a loro, ho visto che i contadini avevano pensieri altissimi senza rendersene conto. Poi quando ho studiato e ero già scrittore ho pensato che molte frasi che si ritengono essere dei Vangeli sono invece del pensiero di Pitagora. La filosofia è nata in Calabria con Pitagora che si fermò a Crotone, il luogo giusto dove poteva esprimersi. Il pitagorismo è stato diffuso molto ai suoi tempi anche quando ci furono la rovina della Magna Grecia e l’arrivo dei romani, che erano barbari come gli americani di oggi. A Crotone sotto Pitagora c’era una grande università, la parola filosofia nasce lì. E c’erano dei medici straordinari che avevano già sezionato l’occhio e l’orecchio. Penso a Alcmeone. Un altro medico. che fu prigioniero di Dario, riuscì a curare la moglie di Dario di tumore, la operò e la salvò».

A Crotone non c’erano solo grandi me dici.

«Esattamente. Sotto Pitagora c’era lo studio della musica, la medicina a questi li velli, la matematica e poi il suo pensiero. Pitagora, i cui testi erano custoditi segretamente da Filolao, un crotoniate suo discepolo, e da Timeo di Locri, è in assoluto il primo che dice che al centro dell’universo sta il sole e non la terra. E quando Platone lascia Siracusa per andare a Taranto si ferma a Locri dove incontra, secondo me, Timeo, ne parla, se ne serve e scrive il suo grande dialogo».

Perché grande?

«Perché c’è l’anima intellettiva, l’anima sensitiva e l’anima generativa. Questo è Freud. Pitagora lo anticipa in questo dialogo di Platone. Filolao vende per poche mine i testi che vanno a finire nelle mani di Platone e poi in quelle di Aristotele, per cui da Pitagora si aprono due correnti di pensiero: quella del mondo delle idee di Platone e quella del mondo che pensa a sé stesso di Aristotele. Quindi, Platone e Aristotele discendono da Pitagora e questi anticipa il cristianesimo».

Dal pensiero di quel mondo, dunque, nascono tante cose che arrivano fino a noi?

«Licurgo di Sparta i menomati non li vuole, li butta dalla rupe. E qui siamo ad Hitler. I pitagorici accumulavano tutto e ognuno poi se ne serviva secondo i suoi bisogni, e questo è il comunismo. Dicono che noi siamo bravi in pittura, scultura, musica, e non in filosofia come i tedeschi. Non è vero, noi la filosofia la facciamo con l’architettura. Nei grandi palazzi del Rinascimento e del post-Rinascimento, abbiamo la struttura interna che è pensiero e la facciata esterna che è poesia. Siamo filosofi quando facciamo un ponte o costruiamo una strada».

Come è possibile che la Calabria da luogo del pensiero cambia fino a diventare luogo perduto al punto da far dire che la legione romana che torturò e crocifisse Gesù fosse formata da calabresi?

«Il dramma della Calabria, soprattutto dal Mille in poi e forse più avanti dal 1200- 1400 in poi, è avvenuto per via dei grandi feudatari che l’hanno abbandonata e sono andati a costruirsi i palazzi a Napoli per stare vicino al re. I grandi baroni venivano in Calabria per riscuotere. Se gira la Calabria non c’è un palazzo dei nobili, in Sicilia sì. Non ne avevano bisogno, qui venivano solo a prendersi i soldi della povera gente e dei contadini. Questi vivevano in ristrettezze, non avevano un signore che riuscisse a capire la loro intelligenza. I calabresi non sono stupidi, sono poveri, sono stati poveri di parole, stimoli, risorse, sollecitazioni fino all’altro ieri, ma la colpa è di questi signori che hanno abbandonato la Calabria. I Carafa, potentissimi, hanno avuto fabbriche a Napoli e non in Calabria».

Quindi, la vicinanza con Napoli è stata un danno per la Calabria?

«Era una colonia. La prima volta che in contrai Domenico Rea mi disse: voi pensate che le colpe sono di noi napoletani, in realtà sono vostre. Amaro destino dei calabresi. E dire che il nome Italia nasce a Reggio Calabria. La leggenda vuole che arrivò Ercole con la sua mandria di buoi e mucche, e un vitello tentò di attraversare lo Stretto per arrivare di là in Sicilia, e questo nel dialetto di allora si chiamava regum, cioè Reggio, andare avanti. Quella terra, Pellaro e dintorni, era una pianura che si chiamava vitalia, cioè terra dei vitelli. Se da vitalia togli la v…. Quella terra fu chiamata così fino alla Lucania e solo dopo si estese a tutta la penisola».

Negli anni Cinquanta con la riforma agraria furono distribuite le terre ai contadini per risarcire le colpe storiche del baronato verso i calabresi. Sessant’anni dopo, in un quadro di arretramento della questione meridionale, la Calabria è ancora più periferica e marginale. Come mai?

«Ai miei tempi era peggio».

In questi giorni in Calabria si parla molto di lei. Lo ritiene un risarcimento dell’oblio che l’ha circondata?

«Nei miei confronti non sono stati bravi. Quando uscivano i libri, che sono tradotti in Inghilterra, Germania, Cecoslovacchia e tanti altri paesi, non li leggevano. Fecero lo stesso con Alvaro. Trecento-quattrocento copie. E io trattavo problemi sociali e non poesia, anche se puoi fare poesia rendendo il personaggio vivo come se l’autore non esistesse. Cechov, il mio maestro, dice che lo scrittore è portatore di destini. È vero. Io ho scritto 160-170 racconti, tredici romanzi e altre cose, il diario di tremila pagine, avrò detto delle cose? Non sono un filosofo, non sono, quindi, cose sistematiche, sono cose che vengono da dentro, che pesano e c’è la necessità di raccontare. In quel momento forse nasce la poesia, la spontaneità. Gli scrittori di oggi sono l’espressione della televisione, la vita va vissuta».

E lei l’ha vissuta.

«Da contadino e da muratore. A diciotto anni avevo il metro in tasca e davo consigli anche agli altri. Ci sono case popolari ad Africo Vecchio costruite dalle mie mani. La vita la conosco, non ho bisogno di libri per scrivere. L’ho sofferta, la vita, l’ho vissuta come nessun altro forse degli scrittori italiani. Verga, scrittore più grande di Manzoni, quando ha scritto i Malavoglia, ha avuto bisogno di qualcuno che gli mandasse i proverbi. Io li conosco tutti. I giovani di oggi non li conoscono. E da lì viene fuori la mitologia greca».

Una Calabria, dunque, disattenta?

«Ora non esistono ppiù le nonne che raccontano le favole. Se non le avessi registrate sarebbero state perse. E sono favole che rispecchiano la cultura, l’essere dei calabresi. Noi sulla costa ionica siamo figli della Grecia, la tradizione e la saggezza dei greci sono dentro di noi. La mia scrittura riflette la struttura della lingua greca e anche latina perché i latini mettevano il verbo alla fine della frase. Sono contento, sono felice di essere uno che continua questa tradizione. Infatti ho detto che io è da tremila anni che vivo perché raccolgo le tradizioni nostre che rispecchiano quelle greche. In questi giorni sto rileggendo – e non so quante volte l’ho fatto – l’Odissea. Quando Ulisse arriva dai Feaci, che pare sia Squillace – uno studioso tedesco disse un altro paese ma è sicuramente nella zona – Omero ci presenta la regina dei Feaci che fila accanto al focolare accesso: mia madre filava accanto al focolare acceso d’inverno. Quando Nausica deve andare a lavare i panni, è uguale alle ragazze della mia età che andavano a lavare i panni nel fiume. Sotto Licurgo, si viveva da schiavi in case dove in un angolo c’era un pagliericcio, ma cinquant’anni fa non accadeva che si vivesse così nella mia Africo? Cos’è cambiato in tremila anni?»

Questo attiene al tema dell’identità di una terra, la Calabria, che lei incarna con la sua opera. Quello che si sta facendo ora per lei ha lo scopo non secondario di far recuperare l’idea dell’identità alla Calabria.

«È vergognoso che ora che tutti vanno a scuola, che molti si laureano, non sanno di conoscersi. Quando ho vinto il Campiello mi hanno fatto girare tutta l’Italia e sono andato in Calabria. Dicevo ai ragazzi: se volete conoscervi, se volete sapere chi siete dovete leggere gli scrittori, Alvaro, Semi- nara, anche me, imparate e poi vi regolate su quello che dovete fare. Capisco ora che non lo capivano, non lo capivano i professori».

Alla luce dell’attenzione di questi giorni attorno alla sua persona, che cosa si sente di dire ai calabresi?

«Facciano quello che devono fare. Io penso che tra cinquant’anni, quando uscirà il mio diario, i calabresi capiranno chi sono e il potenziale che non sanno di avere. Rive- lare la Calabria a se stessa. Io mi incavolo quando dicono scrittore europeo. Che scrittore europeo! Io sono scrittore mediterraneo. La cultura è nata nel Mediterraneo, dall’Egitto, dagli ebrei, dai greci, dai romani. Se legge Hegel ci trova tutto Platone. Il cristianesimo – dice Nietzsche – non è altro che un platonesimo universale. E Hegel dice che il cristianesimo è pregno di romanità. Ed è vero. La cosa stupefacente è la battaglia di Zama. Per una cosa da niente Roma poté diventare quello che diventò. Racconta Polibio che quando i due eserciti, quello di Annibale e quello di Scipione, uno davanti all’altro, in prima fila c’erano gli elefanti di Annibale e dall’altra parte c’erano i romani. Quando le trombe romane suonarono gli elefanti si spaventarono e invece di andare contro i romani si riversarono contro i cartaginesi, per cui i romani vinsero e vinse Roma. Per una cosa da niente, altrimenti non ci sarebbe stato l’impero romano e non ci sarebbe stato il cristianesimo. Di- cono che la storia non si fa con i se, invece in certe situazioni si fa con i se».

Lei è uno scrittore e non fa che parlare di filosofia. Me lo spiega?

«Le ho ricordato prima la frase di Gramsci. Siamo contadini portati alla riflessione e, quindi, alla speculazione. Ho sentito contadini parlare come dei filosofi. Mi chiedo: da dove l’hanno preso? Da Pitagora che era del Sud. In Virgilio c’era il cristianesimo. E Marco Aurelio: in lui c’è già il socialismo quando dice che bisogna dare secondo i meriti mentre i comunisti dicono secondo i loro bisogni».

A quando risale la sua ultima visita in Calabria?

«Molti anni fa, cinque-sei anni fa. Una volta andavo tutti i mesi perché sono stato per quattro anni rettore dell’università della terza età a Reggio Calabria e facevo delle conversazioni».

Ha nostalgia della Calabria?

«No, perché ce l’ho dentro, me la porto dietro tutta intiera. Io non capisco niente di questa gente qua perché non son nato qui. La mia anima si è formata laggiù. Nel mio ultimo libro mi sono chiesto sotto quale cielo io vivo. C’è sempre il cielo di Calabria su di me. Nessuna nostalgia. Sono stato diversi anni in Svizzera perché mia moglie è di lì. La nostalgia l’ho avuta per Messina perché sono stato lì per tre anni ed anche per Catanzaro dove sono stato tre anni per preparare la mia maturità dall’esterno».

Come andò quell’esame?

«Mi sono presentato da esterno con la quinta elementare, facendo otto anni in una sola volta. Però, all’esame sono andato bene. Quando c’erano le prove scritte, io ero sempre solo mentre gli altri scherzavano come avviene tra amici. Al Gallupi non conoscevo nessuno. Ricordo com’ero te- so».

Studiava da matto?

«Da pazzo. Mal nutrito. Mangiavo in una mensa tenuta da comunisti, ora non mangerei quel cibo ma allora sì. Al compito di italiano – ricordo la traccia “La donna nella letteratura” – avevo avuto la fortuna di aver letto un saggio di Benedetto Croce qualche giorno avanti e feci un bel tema. Fui il primo ad alzarmi per andar via, e il professore mi fermò: ma hai finito? e lo consegni così? non lo vuoi rivedere? Rifiutai, e lui disse: non ho capito se hai fatto un capolavoro o una schifezza. Poi dissero che era un capolavoro».

E come le era venuto in mente di leggere Croce?

«Davanti al tribunale di Catanzaro c’era una bancarella. Mi colpirono tre libri: la storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, Delito e castigo di Dostoievskji e Croce. Iniziai a leggere De Sanctis e capii che capivo e che mi piaceva. Così con Dostoevskij e con Benedetto Croce. Quando citavo ai professori qualche frase di De Sanctis mi dicevano di stare attento perché sapevano che ero un ex operaio e De Sanctis era difficile. Avevano ragione loro perché di volta in volta che l’ho letto ho capito di trovarmi di fronte ad un gigante».

A proposito di letteratura russa, che lei dice di prediligere. mi fa una classifica delle sue preferenze?

«Secondo Nabokov, Dostoevskij è uno Shakespeare fallito. I più grandi sono Gogol, Cechov e Tolstoi, ma il più grande di tutti senza se e senza ma è Tolstoi».

Prima ha detto del cielo di Calabria, non le manca il mare?

«Mi mancava. Quando sono venuto a Firenze an davo su Ponte Vecchio e guardavo il fiume che scorreva giù e immaginavo il mare. Mi veniva da piangere perché il mio
paese è in collina e il mare davanti, quattro chilometri di distanza. Tutta la vita da bambino fino a ventuno anni ho avuto questo mare davanti. Qui mi sentivo prigioniero delle case».

E ora?

«Ora non mi interessa».

Che si aspetta dai calabresi?

«Che i miei libri fossero nelle librerie, dove ora non ci sono, e che li comprassero».

Un acre odore di aglio

Quando sono stato invitato a presentare questo libro  di Mimmo Gangemi, non lo avevo ancora letto. Ho dato la mia disponibilità per stima e amicizia verso l’autore e anche per ricambiare la sua partecipazione alla presentazione di un mio libro a Gioiosa Ionica. Confesso che un po’ mi pesava il dover affrontare un viaggio da Napoli. Poi ho iniziato a leggere “Un acre odore di aglio” (Editore Bompiani) e man mano che andavo avanti ho quasi dimenticato il mio impegno a venire qui. Poteva essere, questo voglio dire, una lettura per così dire professionale, come le tante che capita di fare, ma così non è stato. Perché di libri se ne scrivono e se ne pubblicano tanti, direi troppi, che durano spesso il tempo necessario per leggerli e di cui presto si perdono traccia e memoria. Questo libro no, questo è un libro – ed è facile profezia – che resterà. Mi auguro che resti anche nelle future edizioni l’immagine di copertina, una mirabile foto in cui la cara Adriana Sapone ha messo tutto il suo mestiere e anche la sua passione civile, è l’opera di una grande artista della fotografia: nel volto, nelle rughe, nei capelli, nelle orecchie, nella mano, c’è la storia della Calabria, c’è il senso del libro, e la scelta del grigio è perfetta perché la Calabria ha tanti colori ma, se si osserva in profondità, il grigio è quello che prevale, che la tiene sospesa, quasi in bilico.

So, e ho letto, che sono molteplici i richiami che si sono fatti a scrittori e opere che hanno un posto di riguardo nella letteratura. Un po’ mi ci sono ritrovato, un po’ no. Ho pensato subito anche io a “Cento anni di solitudine” di Marquez (cent’anni di aglitudine?), dove si narra l’epopea straordinaria di una famiglia, che diventa speculare a quella di un popolo, meridionale anch’esso per quanto di un altro continente, con una lingua fresca e scorrevole, articolata magistralmente e che  segue i canoni classici della grande letteratura. Se dovessi pensare a qualche scrittore che, al di là degli esiti, si sia richiamato didascalicamente a questo modello penso soprattutto al lucano Raffaele Nigro, che con “I fuochi del Basento” vinse anche il Premio Campiello nel 1987. E ho pensato naturalmente alla roba, ai lupini, al verismo di Giovanni Verga, e all’altra roba, quella calabrese, vale a dire l’ulivo e l’olio di Gangemi, sacri e non sempre affidabili regolatori dell’esistenza dei protagonisti del suo romanzo.

Potrei anche dire che sull’opera aleggia la lezione sempre attuale del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: cambia tutto, poi non cambia nulla. E, volendo, non mancherebbero altri possibili riferimenti. Ne faccio ancora uno, che mi sembra più vicino a noi. Penso, infatti, a Saverio Strati, alla sua scrittura senza fronzoli e al suo guardare severo nell’animo dei suoi conterranei. Ma dopo averli fatti abbondantemente anche io, dico subito che qui siamo di fronte a un’opera originale, con una sua cifra non riconducibile a modelli per quanto di rango elevatissimo. Oso dire che una lettura comparata sarebbe sbagliata. Chi legge “Un acre odore di aglio” legge questo romanzo, legge un’opera che è il punto di maturità di Gangemi, colto in un periodo di fertile attività, ma anche la promessa di altri gioielli.

Partirei dalla scrittura. Gangemi ha scarnificato la lingua, lavorando di cesello, parola su parola, aggettivi quelli che servono, periodi asciutti come le vite dei protagonisti, verbi che inchiodano i concetti. Mi permetto di dire, considerata la sua professione, che la sua è stata anche un’opera di alta ingegneria, una costruzione in cui risaltano la purezza delle linee, la solidità delle strutture, i collegamenti tra i piani, il rapporto con il contesto. Il risultato è impressionante. Se davvero si volessero fare confronti, direi che in duecento pagine a corpo grande ha raccontato i cento anni di una famiglia come altri hanno fatto, altrettanto mirabilmente, in lunghezze più che triple. 

La narrazione. Poteva scrivere molto di più, avrebbe potuto, per esempio, riempire gli intervalli con altre storie e vicende. Ma cosa sono quei vuoti? Piuttosto,  ci sono vuoti nel romanzo? Me lo sono chiesto immaginando che cosa uno di noi, persona normale e non dall’esistenza leggendaria, che volesse raccontare la propria vita, potrebbe scrivere di così originale. Sebbene la normalità della vita non sia mai banalità poiché anche una giornata ordinaria, come Joyce ci ha insegnato, può diventare memorabile. Ma la scelta di Gangemi, immagino, è stata quella del ritmo, di un ritmo incalzante, fulminante, che desse un senso all’inizio e un senso alla fine, che fosse coerente con la storia, in qualche modo esso stesso ritmo la storia. Il ritmo dà la sensazione che questo romanzo sia a tratti una costruzione in versi. Sentite: «Lei non rispondeva, se non con un sorriso lieve e la mano a carezzarlo». Leggiamo: «Si diressero verso la montagna, carovana appresso ai due muli condotti da Turuzzo e dal figlio quindicenne. Percorsero una ripida mulattiera, costeggiando dirupi da cui distogliere gli occhi e puntando la dorsale, dove ciuffi di alberi si opponevano, ombre più scure, al cielo che già aveva liquefatto la notte e si colorava di violaceo». E ancora: «L’orto davanti alla macchina induceva tristezza, incupito com’era da un cielo grigio e chiuso su ogni lato, indeciso di pioggia. I rami degli alberi da frutto vestivano poche foglie ingiallite, restie a lasciarsi cadere. I rugosi tralci di vite somigliavano a serpi scure attorcigliate ai pali di sostegno. Il pino verdeggiava solitario e stendeva al suolo un’ombra tenue. Dalle colline gli spari dei cacciatori rintronavano cupi». 

Ora, per quanto oggi la Calabria possa essere diversa da quella che Gangemi ci lascia nell’ultima pagina, sospesa nei “ragionamenti” di Peppe che non riconosce più i suoi luoghi di fatica e di vita devastati dall’alluvione, il suo romanzo è un affresco, duro e impietoso, dolente e amorevole, disperato e disperante, di una Calabria immobile nel suo essere eternamente piegata sotto il peso insopportabile di ricorrenti disgrazie. E’ anche la storia della fatica, della resistenza, della voglia di risalire la china, ma è altro a prevalere. Odore acre di disgrazia e di morte. I calabresi che Gangemi racconta, sono quelli da lui ben conosciuti, quelli della sua terra, del suo Aspromonte. Duri e determinati, perennemente vinti. C’è sempre un Generale che gli mette i piedi sul capo. E loro come reagiscono? Aggrappandosi a quello che hanno fino a farlo diventare fonte di vita, a trasformare un terreno irrecuperabile in un fertile campo, per poi perderlo per una fiumara che si incattivisce. Crescendo figli che si spera possano diventare quello che i loro padri mai hanno potuto essere e che poi guerre incomprensibili ti strappano come brandelli di carne dalla tua famiglia. Onorando le donne, madri e mogli, purché culture ancestrali e relativi pregiudizi siano rispettati, pena l’impossibilità di vivere al punto da insinuare il velenoso sospetto che sia meglio farsi da parte per sempre. Cercando giustizia laddove è possibile e non rendendosi conto che quella giustizia produce altra ingiustizia. 

I calabresi vinti ma presenti, vivi ma impotenti. E lo sono anche i personaggi del romanzo benché essi, pur isolati e deboli, siano portatori di modernità di pensiero politico. Sullo sfondo c’è un’assenza pesante, il silenzio assordante dello Stato. Che si mostra solo quando, vestendosi di Patria, chiama gli uomini per immolarli nelle guerre. La descrizione è inappuntabile. La natura ciclicamente ostile e lo Stato lontano e distratto stringono un’alleanza perversa che punisce una terra separata dall’Italia dalla barriera fisica e simbolica del Pollino. Ma gli uomini dovrebbero sapere difendersi dalla prima, la natura, e costringere il secondo, lo Stato, a fare la sua parte. Ciò non accade – e questa mi sembra la Calabria che Gangemi ci consegna al di là delle sue intenzioni – perché questi uomini sono prigionieri di una società chiusa, dallo scarso dinamismo, senza ricambi di qualità, incardinata in un modello di famiglia che è al tempo stesso protettiva e asfissiante. La resa di Cola, che dopo aver voluto per una vita il diritto al voto non lo esercita quando finalmente è stato conquistato, è la rappresentazione delle speranze e delle aspirazioni che si perdono nell’aria come il fiato che precede la morte e che, al pari dell’aglio, pervade le pagine del romanzo. Di questo romanzo che non si dimentica, che è un pugno nello stomaco e la carezza di un figlio alla propria terra, sovente più matrigna che madre.  

24 aprile 2015      

Macry e la nostalgia del domani

Letto da giorni, ho lasciato decantare la prima impressione per tentare una riflessione più fredda quando, per parafrasare altri mondi, il vino buono non ci nasconde più i suoi segreti. Perché il primo impatto con questo libro di Paolo Macry, “Napoli. Nostalgia di domani”, è potente, direi ubriacante: sarà per la brevità, poco consona ai testi di storia tanto familiari all’autore, sarà per la scrittura, ben nota per la pluridecennale attività di commentatore e, quindi, di giornalista, sarà per il tema, antico e straordinariamente sempre attuale, sarà per la chiave di lettura di una città e di un popolo, della sua storia e del suo presente, dei suoi vizi, inesauribili e incorreggibili, e delle sue virtù, sfacciate e compresse, sarà per il messaggio, nonostante tutto, di fiducia nel futuro, insomma sarà per tutto questo e altro ancora ma quando arrivi alle ultime due righe – la confessione di resa – resti frastornato. Devi riprendere fiato, sospendere il giudizio e, appunto, attendere.

La galoppata in duemila e cinquecento anni di storia è veloce e avvincente, dove il cavallo è la cultura materiale di Napoli, le sue “pietre”, le stratificazioni ripetute e sempre presenti per quanto spesso e selvaggiamente violate, e in groppa c’è il suo tormentato spirito, le “intelligenze”, tutte, quelle alte e altissime e quelle basse compresa l’arte dell’arrangiarsi, di infrangere le regole, di imbrogliare e di sopravvivere, di vivere anche nell’illegalità e di sottostare alle sopraffazioni della delinquenza organizzata e non. Le tre date su cui Macry sofferma lo sguardo hanno un preciso significato: 1799 (la “storia spezzata”), 1860 (spettatori della storia che passa), 1944 (la gente che non vuole morire). Tra queste c’è una trama evidente: il ruolo del popolo, a quello delle élite verrò più avanti. Il popolo che, quando i sanfedesti del cardinale Ruffo circondarono la città, si rivoltò e con atti prolungati di “barbarie inimmaginabili” sterminò la giovane repubblica del 1799; il popolo che il 7 settembre 1860, senza lo spargimento di neanche una goccia di sangue, volse le spalle ai Borbone e si consegnò festosamente a Garibaldi e alla nuova Italia nonché alla combinata piemontesizzazione; il popolo, stremato dai bombardamenti americani, dalla fame, dalle malattie, che nel 1944, dopo un sussulto spontaneo che in quattro giorni cacciò i tedeschi che si accingevano alla deportazione dei suoi uomini mentre gli alleati erano ormai alle porte, tra miserie morali e materiali inenarrabili e con incerta convinzione entrò nella nuova Repubblica.

Ci sono poi le altre Napoli come quelle dei sovrani repubblicani, dal comandante Lauro ai viceré del pentapartito, dal “principe rinascimentale” Bassolino al re dei dieci giorni, il Masaniello De Magistris. Dunque, le avanzate e gli arretramenti, le innovazioni e le conservazioni, in un ciclico rincorrersi della storia di una città che, scrive Macry, ha anche il merito dell’innovazione politica: basti il riferimento all’attualità, all’ascesa dei populismi che qui fecondarono in tempi non sospetti.

Una Napoli che i napoletani, come mamme con i figli, non tollerino che se ne parli male, semmai lo devono fare loro. L’autore, scegliendo fior da fiore con uno spericolato volo nel tempo, ricorda il trattamento riservato al Renato Fucini di “Napoli a occhio nudo” (il Grand Tour),  alla Matilde Serao de “Il ventre di Napoli”, al Curzio Malaparte de “La pelle”, all’Anna Maria Ortese de “Il mare non bagna Napoli” fino al Roberto Saviano di “Gomorra”. Perché Napoli è un’altra, e c’è sempre un’altra Napoli a cui appellarsi per togliere i presunti o reali schizzi di fango che ne deturpano l’immagine. Meglio, par di capire, lasciare che se ne occupino Benedetto Croce o Giuseppe Galasso, Pasquale Villari o Aldo Masullo.

Ma che cos’ è Napoli? Macry, con questa sua “Napoli universale”, paga il suo debito di riconoscenza come mi pare di capire nelle prime pagine e in quelle conclusive nelle quali ricorda il suo impatto, cinquant’anni fa, quando vi giunse da giovane laureato in storia provenendo dalla sua “patria abruzzese”. Universale e “generosa”. Generosa e accogliente come poche altre città. Non riservata e chiusa, senza il riserbo di una cultura forte, e, quindi, mai presuntuosa e ostentata, una sapienza, la sua, debole, dove questo aggettivo sembra fare il paio con quello della cultura forte.

Dunque, “essere napoletani è facile”. Perché Napoli è una città inclusiva, intelligente, paziente, svelta come la sua gente. Ma è così davvero? Forse. A condizione, però, di abituarsi, affidarsi al suo ritmo e alla sua sregolatezza e, alla bisogna, comportarsi come gli altri nella vita pubblica che troppo spesso ha codici diversi da quella privata. Lasciando che, tranne rare e limitate eccezioni, vi sia una corrispondenza al ribasso tra amministrati e amministratori, tra classe dirigente e popolo. E qui vengo alle ultime due righe del libro: «E poi, volendo ci sono le élite. Raffinate e aperte, sebbene talvolta senza parole. Napoletane anche loro». In parte, aggiungo io, ancora incapaci di metabolizzare la “storia spezzata” del 1799, in larga parte comodamente dimentiche della stessa, tante volte acconciate a immagine e somiglianza del popolo con tutti i suoi peccati, spesso partecipi di un banchetto delle pubbliche cose e disinteressate all’interesse generale. Tranne, naturalmente, lodevoli eccezioni che purtroppo non cambiano la storia.

«Non vergognatevi di me»

 

Nei giorni scorsi, ancora scosso dalla diciottesima assoluzione di Antonio Bassolino (diciotto come diciotto sono stati i processi intentati contro di lui in questi anni), mi è arrivato dalla Calabria un libro pubblicato da qualche mese dall’editore Luigi Pellegrini. Me l’ha mandato l’autore, Antonio Chieffallo, che ho conosciuto come collaboratore del “Quotidiano della Calabria” dalla zona di Lamezia. La copertina mi ha immediatamente incuriosito. Titolo: Non vergognatevi di me. E una foto di tre righe scritte a mano: «Non vergognatevi di me – sono innocente! papà». Ho iniziato a leggere e ho smesso quando sono arrivato alla fine. Questo non solo per dire che è ben scritto, ma perché sono entrato dalla porta principale in una tragedia familiare provocata dalla giustizia.

Nel 1993 il “papà” di Antonio, Leopoldo, era assessore regionale calabrese, più noto come sindaco storico (lo è poi stato fino al giugno scorso) di San Mango d’Aquino. Nasce socialista, di quella generazione di uomini potenti in Calabria, capace di strappare uno svincolo della Salerno-Reggio per il suo paese. Fu un personaggio della Prima Repubblica e, nonostante e, chissà, forse anche grazie alla sua assurda vicenda giudiziaria, ha potuto svolgere anche in questi anni funzioni pubbliche ed esercitare un potere reale nella comunità locale e regionale, con collocazioni politiche diverse. Ora è alle prese con un processo per reati tributari che avrebbe commesso da presidente di una società. Sicuramente l’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio, come precedenti governatori, lo tiene presente nella sua trama di governo. Ho riassunto per brevi cenni, per quanto con i rischi di una sintesi estrema, mi auguro non celebrativi né dispregiativi, il suo profilo per sgomberare il campo da un giudizio politico, che non è lo scopo di questo scritto, e lasciarlo libero per il racconto di ciò che gli capitò venticinque anni fa.

Antonio Chieffallo racconta da figlio il dramma del padre e, quindi, il suo e quello della famiglia, in particolare della madre che per i quattro mesi di detenzione del marito visse e non visse. Era il 20 dicembre del 1993, pochi giorni prima delle feste natalizie: «Non avevo sentito nulla. Nessun rumore, nessuna voce, niente di niente. Ma quando scesi in soggiorno, poco dopo le sette, trovai mia madre seduta sul divano con il viso stravolto. “Sono venuti due agenti in borghese, lo hanno portato in segreteria per una perquisizione.”». Antonio, che aveva 23 anni, si avviava a vivere i quattro mesi più brutti della propria vita.

Lo avevano arrestato, il padre, per l’appalto di una strada. Erano i tempi di “Tangentopoli”. Per settimane la famiglia brancolò nel buio, gli avvocati rassicuravano ma i giorni trascorrevano senza novità. Il primo contatto fu un biglietto portato quasi clandestinamente da un agente penitenziario, mosso a pietà, ed è quello riprodotto nella copertina e che dà il titolo al libro. Un capitolo è dedicato a uno “sbirro” che, nel notificare un documento, gironzola per la casa con commenti sarcastici sui tappeti costosi, i mobili di qualità e le altre piacevolezze della casa.

Alla famiglia Chieffallo, va detto, venne risparmiata la gogna pubblica perché, in netta controtendenza con quanto accadeva a quei tempi in situazioni analoghe in altre città, vasta fu la solidarietà della comunità, non solo quella socialista che in quel periodo non se la passava bene ma anche tra la popolazione e gli avversari politici. E pagine toccanti sono quelle in cui Antonio racconta la sua prima uscita, dopo l’arresto, nelle vie fino alla piazza del paese: temeva il peggio, il fastidio o l’indifferenza dei concittadini, il disprezzo e, forse, anche l’odio soddisfatto degli “altri”, ma scoprì che il dramma del padre aveva provocato incredulità e dolore e ne ebbe segni tangibili e confortanti.

Il 4 marzo 1994 Leopoldo tornò a casa. Il 6 maggio 1998 la sentenza: «La Corte assolve Leopoldo Chieffallo perché il fatto non sussiste». Nessuno dei pubblici ministeri che avevano dato avvio all’inchiesta era presente, solo un giovane magistrato, in servizio da pochi mesi, parlò per pochi minuti. Uno degli avvocati dell’imputato, Ernesto d’Ippolito, concluse la sua arringa con queste parole: «Sono anni che faccio questa professione. Ma poche volte mi è capitato di affrontare un processo in cui gli errori si sono ripetuti in un modo così incomprensibile. Ho studiato tutti i documenti, avendo sempre presente la sete di verità di un uomo che mai avrebbe dovuto trovarsi qui… Un uomo che ha subito un’ingiustizia tale da non poter essere sanata da alcuna sentenza di assoluzione. Un uomo che da quattro anni aspetta la restituzione dell’onore e della dignità con le quali ha sempre condotto la sua vita». Anni dopo lo Stato gli ha risarcito 75mila euro.

Ora, c’è da dire che il sindaco di San Mango d’Aquino nella sventura è stato un uomo fortunato, perché ha potuto difendersi con i migliori avvocati sulla piazza e ha avuto la forza di riprendere il suo cammino, ma questa vicenda fa pensare soprattutto alle ingiustizie subite nel silenzio e nella vergogna da chi non ha poteri e potenza, alle storture di un sistema giudiziario lento (a Napoli quattro anni per la prima udienza di un appello) e farraginoso e alle caratteristiche del processo che in fase istruttoria vale già come una condanna per chiunque, per colpevoli e innocenti, specie per questi ultimi se noti perché al pubblico disprezzo contribuisce inevitabilmente (ma non sempre) la mia categoria dei giornalisti, per lo più impotenti a contenere il delirio di onnipotenza di qualche magistrato. Non voglio generalizzare perché mi sono note l’umanità e la professionalità di tanti magistrati che si sono dedicati al delicato e insopprimibile compito di fare giustizia con abnegazione e saggezza e, tanti, fino al sacrificio della propria vita. Ma penso anche alla sofferenza di un amico come Antonio Bassolino che, sempre ribadendo fiducia nella giustizia (io al suo posto qualche parolina la direi a tal proposito), lamenta i dieci anni persi della propria vita. Anni persi anche per il contributo, comunque lo si potesse giudicare, che avrebbe potuto dare alla nostra comunità. La giustizia è un nodo cruciale, il più aggrovigliato del nostro Paese, che non sarà mai effettivamente moderno e giusto se non lo scioglierà con determinazione, concretezza e equilibrio. Una riforma, serve una riforma vera e non condizionata da interessi particolari ma solo dall’interesse generale, una riforma capace di coniugare giustizia e verità, tutela dei diritti e rispetto della dignità delle persone.