Questo è un libro da maneggiare con cura per tanti motivi. Sicuramente è da leggere. Intanto perché è ben scritto, perché è avvincente, perché c’è la storia che è forte di suo, di quello che si legge e anche dell’ansia di andare avanti per capire che cosa riserva. Poi è un’opera prima e come tale si avvantaggia dell’effetto sorpresa. A seguire, c’è lui, l’autore, Gioacchino Criaco, che un bel giorno ha deciso di darsi alla narrativa, e non è chiaro se più per la voglia di fare lo scrittore o per la necessità di raccontare cose che lo riguardano e cercare di spiegarne agli altri il significato profondo: a tratti sembra che voglia fare i conti con se stesso in pubblico, quasi una confessione per quanto trasfigurata dalla narrazione apparentemente di fantasia. L’editore Rubbettino ci ha messo il suo con una cura certosina – immagino anche un delicato e prezioso lavoro di editing – e con una copertina intrigante dove i boschi delle “Anime nere” sembrano voler dialogare con i coltelli rosa di “Gomorra”.

Ma più che a “Gomorra” di Saviano, da cui è molto lontano, sebbene l’attualità imponga inevitabilmente il confronto, “Anime nere” fa pensare ad un film straordinario di Martin Scorsese, “Quei bravi ragazzi”, dove in maniera anche scanzonata si raccontano le gesta di una banda di delinquenti che a New York passa di efferatezza in efferatezza con naturale leggerezza: donne, denaro e sangue. Uno sguardo sbagliato ti fa finire nel bagagliaio di un’auto, un ordine mal compreso può costare la vita ad un povero ragazzino che fa il cameriere in una bisca per mano di un divertito Joe Pesci. E chi racconta questo inferno, che sembra un paradiso, sottolinea come tutto questo fosse normale per lui. Vero è che alla fine si pente e fa arrestare tutti i suoi amici. Ma quello che conta non è il finale ma il racconto: vedete – dice questo mafioso italo-irlandese – questo era il mondo che avevo conosciuto, non ne concepivo un altro, questo era diventato l’unico mondo possibile per noi, c’era il nostro mondo e poi c’era il mondo degli altri da cui attingere con la prepotenza e la violenza tutto quello che ci serviva.

L’incipit, forte e importante, di “Anime nere” è perfettamente simbiotico con questa concezione, perché l’io narrante, una figura inventata o lo stesso Criaco?, racconta il suo mondo possibile: «Camminavamo veloci, gli scivolavo dietro come una slitta trainata da cani, era così da ore. L’appuntamento era notturno, e notturna, ovviamente, doveva essere la traversata. Di questo si trattava, percorrere la regione lasciando la vista di un mare per vederne un altro». Poi prosegue: «Avevamo munto le bestie e dopo averle ricoverate e riposto il latte alle prime ombre della sera eravamo partiti. La consegna del porco doveva avvenire a molti chilometri di distanza, lui agli appuntamenti arrivava sempre in abbondante anticipo. Attraversammo nell’ordine boschi di lecci, bassi e fitti, pieni di cespugli spinosi che a volte vincevano lo spessore degli abiti e segnavano la carne…». La descrizione è dettagliata e spiega perché «una tale traversata – siamo di nuovo nel libro -, anche se fatta di giorno, sarebbe stata per occhi inesperti una pazzia, se non un suicidio: boschi inestricabili, viscide rocce, torrenti impetuosi, dirupi maligni, recinti di filo spinato. Lui entrava in simbiosi con quella natura che poteva apparire ostile, vi s’immergeva completamente e ne faceva parte, ne era un elemento essenziale: la montagna che respinge le ostilità, lo accettava, e lui l’amava più di ogni altra cosa al mondo. Lui e la montagna, ne era convinto, odiavano solo due cose, le querce e i porci, entrambe distruttive per l’ambiente. La quercia rendeva il terreno sul quale cresceva arido e desertico, e il suo frutto ingrassava il porco, che distruggeva boschi, argini, fungaie, colture e pascoli. Lui conosceva ogni passo, albero, ruscello, falesia, ricovero e trabocchetto, come solo un nativo dei luoghi poteva. Lì era nato e cresciuto. Poi se ne era allontanato ma, inesorabilmente, la montagna lo aveva riattratto. Chi là nasceva là moriva. E soprattutto due erano le cause di morte, la fatica e il piombo, a esse era difficile sfuggire. Lui era mio padre. Rappresentava il prodotto tipico di quella terra, tarchiato, forte e resistente, indurito e fragile allo stesso tempo. Soprattutto determinato a resistere, a qualsiasi costo e prezzo, regola legale o morale. Divoravamo la strada che portava al porco, nutrimento avvelenato, forse, per la nostra terra». Seguono l’incontro, la consegna e la marcia a ritroso verso la porcilaia, scavata appositamente per custodire per mesi quelle “bestie” prelevate da un altro mondo, perché «a quel tempo – chiarisce l’io narrante – ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte».

Questo è il mondo, l’humus, la coltura da cui prendono le mosse il libro e la vita delle anime nere, i tre ragazzi che giurano di non separarsi mai, cani sciolti della ‘ndrangheta che alternano gli studi con furti, rapine, postriboli e, passo dopo passo, con gli omicidi. La strada è segnata, tutto avviene con naturalezza, in maniera giocosa, fino a diventare «il frutto avvelenato e letale – leggiamo ancora – che noi eravamo: distruttori di vite, tranquilli e senza violenza ostentata, i più pericolosi. Fuori dai nostri affetti tutti erano nemici, e sacrificabili. Fra di noi eravamo affettuosi, premurosi, quasi dolci. Ci avessero creato, o fossimo geneticamente predisposti, la nostra violenza ha portato dolore, oltre a noi stessi, in posti e a persone che da noi pensavano di essere al riparo. A diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro, tutto quello che volevamo ce lo siamo preso». Il primo omicidio sembra quasi liberatorio: «Ci portò con se Sante e andammo contenti. Superammo l’ultima soglia della pietà umana interrompendo il gioco di un’animata partita a briscola. Lasciammo due picciotti a terra e da lontano udimmo lo strazio di madri e sorelle accompagnarci su una strada ormai senza ritorno. Dopo non si videro più fantasmi. Non ci si svegliò urlanti di notte. Si passò felici e contenti in un’altra dimensione, un gradino sopra gli altri. Ripetei l’esperienza dopo qualche mese, da solo».

E quali fantasmi avrebbe dovuto vedere? Quelli che erano estranei ad una società fortemente dominata da valori semplici e chiari pur nella loro brutalità? Che cosa fa dire Mario La Cava alla madre di Duccio Malintesa, che ha ucciso la sorella per liberarla dalle sofferenze e dai maltrattamenti che subiva dai parenti, se non un tragico e impietoso rimprovero: «O figlio sventurato che hai dato inizio al tuo dolore ma non sai dargli un termine giusto». E al padre: «Finché sarai vivo, la mia mano cadrà su di te, ora ti colpirà nella sua durezza. Ti inseguirò con i miei passi di uomo». La colpa va purificata con la morte, e, se questa tarda, anche un padre è legittimato ad agire fino ad uccidere il proprio figlio.

Le gesta delle anime nere sono il filo conduttore del libro. Un passaggio coglie un tema cruciale della storia calabrese, il senso di non appartenenza allo Stato, anzi il sentirlo lontano, estraneo, nemico. Leggiamo: «Il lavoro dei sequestri sta per finire, lo Stato non può sopportare che i suoi più ricchi contribuenti vengano nei nostri monti a ingrassare malandrini e pastori. Ai figli dell’Aspromonte sta mostrando nuove e più facili vie. Fra un po’ i figli dei pastori saranno tutti qui a vendere bustine». I pastori – anche il padre dell’io narrante – diventano forestali, quindi dipendenti pubblici, mentre i figli studiano per amore dei libri e della cultura: «Del resto -leggiamo ancora – non eravamo diventati ciò che eravamo per colpa loro o perché la società era sporca, brutta e cattiva. Vi erano pochi uomini sporchi, brutti e cattivi. La loro cultura era dominante. C’era una miseria pesante. Non v’era porta della Locride che non avesse conosciuto gli scarponi della benemerita, e questa era la sola faccia conosciuta dallo Stato». E dopo l’analisi l’invettiva: «Se per decenni l’unica persona conosciuta positivamente, prodotta da quel territorio, è stata Corrado Alvaro, significa che i suoi abitanti sono geneticamente tarati o che vi è un interesse, storicamente riproducentesi, alla perpetuazione in serie di criminali».

Da Africo a Milano, la droga, l’incontro con una società opulenta e con la politica della “Milano da bere”, le donne, le prepotenze, i grandi traffici con Bolivia e Colombia, l’incontro con un palestinese che pare venire da lontano ma che si vuole invece vicino al travaglio dei calabresi, la vicenda giudiziaria, il carcere, gli omicidi spietati con corpi che vengano devastati dai pallettoni fino a spappolarsi, il libro scorre e si legge tutto d’un fiato. Ma è tra il punto di partenza, di cui abbiamo parlato, e l’epilogo inaspettatamente tragico della storia che si trovano spunti per riflessioni. La fine è segnata dalla trattativa con lo Stato, quasi una resa, ma lo Stato ha il volto dell’uomo in divisa che è anche lui figlio di quella terra e in qualche modo della stessa cultura. Tutti i ragazzi vengono consegnati e si consegnano allo Stato, quando è il turno dell’io narrante c’è il colpo di scena che lui stesso consapevolmente provoca per impedire la propria resa, per quanto la sconfitta sia nelle cose. Kyria, il protagonista di un sogno, diventa il simbolo di una voglia di riscatto che non si materializza. La Calabria viene descritta come la terra che nella sua storia ha dovuto subire ogni angheria e sopraffazione culturale prima ancora che materiale. Tutte le dominazioni che l’hanno stravolta assumono alla fine il volto dello Stato, per l’appunto lontano, assente o presente e nemico. «Ci hanno cercati – ecco il cuore del romanzo -, non siamo andati noi a chiamarli. Noi stavamo bene con la nostra fame, le nostre malattie, la nostra arretratezza, non volevamo aiuti. Sono venuti nei nostri pascoli ad attaccare cartelli, divieto di caccia, divieto di pesca, divieto di pascolo, tutto diviene un divieto. Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone».

Kyria – o, se non sbaglio, Criaco? – vuole ritornare indietro e cancellare secoli di storia immaginando il suo Aspromonte come un Eden.

Dicevo che questo è un libro da maneggiare con cura. Sembra, per quanto con la formula della narrativa, l’analisi di un anatomo-patologo che viviseziona i fatti e anche quello che passa per la mente di chi li provoca. Da questo punto di vista è un documento importante che fornisce elementi che consentono di penetrare in una cultura profondamente radicata tra la gente di questa terra. Ma, detto questo, fa correre il rischio di incorrere nella decantazione apologetica della cultura stessa e dei fatti e misfatti che produce. Anzi, con l’invettiva contro lo Stato e con la favola di Kyria-Criaco sembra quasi una sorta di giustificazione o di autogiustificazione di tutto il male che c’è stato e che c’è. Peccato che dai sequestri si sia passati alla droga, verrebbe da dire. Un po’ quello che tante volte ho sentito ripetere dalle mie parti, a Napoli: che disastro i camorristi di oggi, almeno quelli di una volta avevano un loro codice etico…

Quello che, a mio avviso, manca nel libro è la presa di distanza, se posso dire, la condanna. Per questo, “Anime nere” è così lontano da “Gomorra” ma anche dalla conclusione del film di Scorsese, al quale pure rassomiglia tanto. E per questo avvince e inquieta. Verrebbe voglia di chiedere a Criaco di dire qualcosa in più – e lo faccio pure in questa sede -, ma non posso ignorare il fatto che il libro è questo e trasmette il messaggio che, nero su bianco, contiene nelle sue pagine. Al di là di quello che penso io e di quello che può dire il suo autore.   

* Mio intervento alla presentazione del libro “Anime nere” di Gioacchino Criaco a Lamezia il 31 ottobre 2008. Il libro lo avevo già recensito sul “Quotidiano della Calabria” prima dell’uscita in libreria.