Una città senza futuro

D’accordo, maledetta napoletanità! L’invettiva di Gigi di Fiore riassume un sentimento ricorrente e rinverdito all’infinito. E ritorna il tema del restare o andarsene, al quale si acconcia opportunisticamente anche chi solo per lavoro se ne allontana. Poi c’è Pino Daniele, emblema di Napoli e in conflitto con essa perfino nella scelta della tomba. Bene, parliamone ma dobbiamo sapere che lo si fa da sempre e senza risultati tangibili sul nostro modo di essere, sulle condizioni della città, sulla sua vivibilità, sulla sua incerta modernità. Piuttosto chiediamoci altro.

Vedete, questa vicenda per molti versi allucinante della Tangenziale ci dice molto di più dei disagi che poi metabolizzeremo come i tanti a cui abbiamo fatto il callo. Ci racconta una città ferma, bloccata o sul punto di esserlo a ogni alito di vento contrario. Direte, ma c’è la metropolitana delle meraviglie, il museo a cielo coperto e anche scoperto come, strabiliati, vedremo tra un po’ ai Quattro Palazzi. Salvo a imprecare per i treni che mancano, per gli allagamenti inconcepibili, per i guasti continui, per le corse saltate, per i vagoni strapieni. E, dopo quasi mezzo secolo, aspettiamo ancora che sempre un treno della metropolitana, come avviene in tutte le città d’Italia e del mondo che ne abbiano una, conduca noi e i benedetti turisti all’aeroporto. Di un’altra linea, la famigerata ex Ltr, non si vede ancora la luce sebbene la sua turbolenta realizzazione abbia attraversato quasi mezzo secolo e e rischi di fare altrettanto con l’attuale. Stop, però, a questa scontata litania, alla lamentazione che non modifica di un millimetro lo stato delle cose e che anche il sottoscritto fa quasi con un “copia e incolla” di cose già scritte e riscritte. Piuttosto focalizziamo un altro punto.

Sono andato a rivedere qualche giornale del secolo scorso, compreso qualcuno a cui diedi un po’ di me, ho ripreso in mano opuscoli e libri di un tempo che ormai sembra preistorico, per confrontare l’oggi con l’ieri non solo per capire come eravamo ma anche per cercare, se c’era e se c’è, la direzione di marcia che seguiamo ai nostri giorni. Dico subito, onde evitare che mi venga mossa l’obiezione, che scandali e corruzione non mancavano, e che le “mani sulla città” non erano solo il titolo di un film straordinario, ma non posso non constatare che da trent’anni Napoli non ha progettato quasi più niente. Le grandi opere, a partire dalla nostra dolente Tangenziale che la Dc volle e il Pci osteggiò, sono quelle che il trascorrere del tempo ha reso insufficienti. La mente visionaria di un Luigi Buccico, che in Valenzi trovò il complice della “banda del buco” e che disegnò la linea 1 della Metropolitana, sembra appartenere a un altro mondo. E che dire del Centro Direzionale, che ha mutato anche lo skyline della città e che volle Servidio con il quale si confrontarono Andrea Geremicca e tanti politici-intellettuali di quel tempo! Ma pensate anche, volendoci allontanare dal centro, a quale inferno, che a tratti pure c’è, nella viabilità attorno al capoluogo se non si fosse concepito e realizzato l’asse mediano. Ci metto dentro, scusate la provocazione, la battaglia per ammodernare l’Italsider di Bagnoli, purtroppo diventata vecchia nel momento in cui era diventata un gioiello, al cui posto oggi c’è un deserto che inchioda le attuali classi cosiddette dirigenti alle loro responsabilità. Sto anche sfogliando i volumi che raccolsero il dibattito e le proposte del tanto contestato “Regno del Possibile”, di cui si può dire tutto il male possibile e ricordarne la controversa accoglienza ma di cui non si può riconoscere la ricchezza di soluzioni per il futuro della città a partire dal centro storico e per finire alla sua viabilità. Ne ricordo una che in questi giorni mi sembra di una stringente attualità: una strada sotterranea da via Acton fino al Consolato americano che, come avviene nelle grandi e moderne città del mondo da decenni, avrebbe consentito di liberare, e per davvero, la linea litoranea di Napoli dalle auto e creato, con gli opportuni raccordi, un collegamento funzionale e alternativo alla Tangenziale.

Progetti. Tanti. Condivisibili o no. In ogni caso idee sul futuro di Napoli. Ditemi oggi quali sono i progetti per la nostra città del domani se non il faticoso e a tratti scandalosamente lungo completamento di opere progettate e avviate tanti anni fa. Bene il richiamo costante alla cultura, al nostro inestimabile patrimonio materiale e immateriale, alla manutenzione ordinaria che migliorerebbe la nostra quotidianità; vada pure avanti il dibattito sulla napoletanità, sempre fecondo di parole e non di fatti; si esaltino lo sbarco di folle di turisti a caccia di esotismo e il proliferare di friggitorie che sostituiscono negozi prestigiosi che un tempo facevano accorrere acquirenti competenti da ogni angolo del Mezzogiorno: ma poi? Il fatto è che una città che non ha progetti e non ha sogni se non il primato della sua squadra di calcio, è come il paese che non fa più figli. Non crede nel futuro e se ne sta, silente e paziente, in coda su una strada. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 29 ottobre 2019

 

Rompiscatole

Ha un senso raccontare la città, magari denunciandone anche le magagne, partendo dal generale e sfiorando qualche volta il particolare per lo più genericamente. È difficile il contrario. Ed è quello che fa Francesco Emilio Borrelli, un rompiscatole di professione. Il quale è anche consigliere regionale dei Verdi ma soprattutto un napoletano che denuncia e documenta, mettendoci faccia e corpo, aspetti precisi della difficile condizione quotidiana dei suoi concittadini. Prende spesso ceffoni, è sempre indolenzito da pugni, deve guardarsi attorno e dietro quando cammina per le strade. Lo fa per farsi propaganda? Boh! Intanto lo fa.

Tra le tante, la sua più ricorrente testimonianza riguarda i soprusi che, sotto gli occhi di tutti, un cittadino deve subire come pedone e automobilista: la sosta selvaggia e, annessa e connessa, la camorria dei parcheggiatori abusivi. L’altro giorno ha detto di essere stato aggredito davanti al Teatro delle Palme da uno che sosteneva di avere tra i suoi clienti anche un magistrato. Millanteria? Chissà. Ma a suo modo ci rammenta che viviamo in una città nella quale da un capo all’altro, dalle strade dei benestanti a quelle popolari, la casistica delle violazioni e degli abusi, anche delle prepotenze, è sterminata. Non serve andare a Taverna del Ferro, dove forse c’è qualche regola in più, basta recarsi a viale Maria Cristina di Savoia o, volendo, al salotto di piazza dei Martiri. La buona borghesia, piccola e media, non so la grande (a trovarla), si è da tempo adeguata al modello egemone che si fonda sul predominio degli interessi particolari in una città sempre più consegnata da chi amministra, soprattutto negli ultimi anni, all’anarchia. E allora un cittadino che denuncia, fisicamente, questi modi partendo da terra-terra, per quanto possa apparire anacronistico, può risultare provvidenziale.

Cambiando panorama e stile, eccoci dalle parti di piazza Vanvitelli, di via Tino di Camaino, di piazza Medaglie d’Oro. Qui opera da decenni – l’età non è quella di Borrelli – un altro rompiscatole di mestiere. Di professione è ingegnere ma Gennaro Capodanno è noto soprattutto per la sua attività pubblica, di segnalazione, di denuncia, di proposta. Ogni giorno, non ne salta uno. La materia è sterminata, in certi casi anche non condivisa da chi scrive come la campagna per spostare l’opera di Tatafiore da via Scarlatti. L’ultima: l’orologio guasto e un globo mancante dei tre del palo della luce di piazza Vanvitelli. Piccoli preziosi dettagli ma anche iniziative su temi cruciali di vivibilità del quartiere. Una miniera per gli organi di informazione per quanto la costante valanga di segnalazioni possa a volte risultare fastidiosa.

Servirebbe molto spazio per dare conto dei non pochi rompiscatole napoletani, anche di chi, come qualche giovane di belle speranze che andava piantando alberi e che si è un po’ perso per strada. Vale la pena, però, ricordarne due scomparsi da qualche anno. 

Uno aveva inventato – per anni era solo lui – un’associazione per difendere il trasporto pubblico: Alfredo Capasso. La sua costante produzione di comunicati e di attività su tutti gli aspetti della mobilità urbana che veniva recepita dai giornali senza difficoltà anche per la gentilezza del loro autore, alla lunga lo fece diventare un personaggio noto e, soprattutto, utile alla città. L’altro era un rompiscatole sui generis e forse qui viene ripescato dalla memoria perché è stato un napoletano che, con la sua umiltà, ha scritto una bella pagina di umanità e cultura: Beniamino Pontillo. Viveva al Dormitorio Pubblico di via De Blasis. Leggeva i giornali (e per questo gli dobbiamo imperitura riconoscenza) e scriveva lettere sulla sua città ma anche su altro trovando ospitalità in tutta la stampa nazionale. A volte poteva risultare fastidioso («C’è un’altra lettera di Pontillo» si sentiva spesso nelle redazioni), ma nel tempo era diventato una persona, se si può dire, di famiglia. 

Servono i rompiscatole? Per quanto pochi, a ben riflettere sono spesso e sempre più la prova di un’assenza o di una debole presenza, sicuramente quella dei partiti, delle associazioni, dei comitati, delle strutture organizzate. Ci si infiamma per un quadro, per quanto prezioso, da spostare e si tace sulla qualità della vita della città, si accetta supini che anche il professionista possa portare il cane a defecare in via dei Mille vistosamente senza busta e paletta, che si parcheggi di lungo uno scooter per riservarsi il posto per l’auto in una strada accorsata alla stessa maniera del commerciante che un po’ dappertutto mette la sedia o un cassetto vuoto della frutta ritenendo suo quello spazio, o che si piazzi la propria vettura in seconda fila anche se è libero il posto nelle strisce blu perché in queste puoi beccarti la multa e in quelle al massimo puoi trovarti la portiera rigata. E via elencando le mille facce della quotidianità dando per scontati gli aspetti ben più gravi ma in linea con tutto il resto che Borrelli mette alla berlina quasi ogni giorno.

Ci salva (la coscienza, soprattutto) l’arguzia che ci consente di chiudere con una battuta sugli altri quasi noi fossimo di un altro pianeta. E ha ragione Aldo Masullo quando ci dice che ci manca l’ironia che è la capacità di mettere in discussione gli altri facendolo automaticamente con sé stessi e, quindi, agendo di conseguenza nei propri comportamenti. Sarebbe curioso chiedere a Cuoco se oggi scriverebbe ancora dei due gradi che separano la città, la parte alta da quella bassa, la nobiltà dalla plebe, la borghesia dalle masse o, come si dice ai nostri giorni, l’élite dal popolo. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 6 aprile 2019

Napoletanità

Un balzo indietro di quarantadue anni. L’ho fatto leggendo di questo saggio di Raffaele La Capria su Napoli e l’articolo “coraggioso” di Antonio Polito nella sua rubrica domenicale. Un tuffo nel passato e anche l’amara sensazione che il tempo scorra invano in questa nostra città.

Era il 1976 quando Antonio Ghirelli pubblicò per la Società Editrice Napoletana un “saggio-inchiesta” dal titolo inequivocabile: “la Napoletanità”. Era, quel libro di dimensioni non ordinarie e corredato da un servizio fotografico di Luciano D’Alessandro, lo sviluppo del capitolo conclusivo della sua “Storia di Napoli”, nel quale Ghirelli si chiedeva: «Si può parlare di napoletanità in un senso analogo, anche se su un piano assai più modesto, di quanto si fa per l’hispanidad? In altre parole, esiste o almeno è esistito un patrimonio culturale della nazione napoletana, una civiltà napoletana?». Confortato da un mosaico di scritti – venti firme napoletane della cultura e un testo memorabile di Pasolini sui “napoletani che sono una tribù che ha deciso di estinguersi” pur di non cambiare – scendeva di nuovo in campo per confutare due stroncature che lo avevano ferito: quelle di Gerardo Chiaromonte su “l’Unità” e di Paolo Ricci su “Rinascita”, in altre parole la bocciatura del Pci che a quel tempo contava non poco. Ricci gli aveva rimproverato di aver ignorato il fatto più rilevante intervenuto a Napoli nel dopoguerra vale a dire «la nascita e l’affermazione di grossi nuclei operai nella città e nelle province, i quali, con la loro presenza, hanno cambiato i rapporti di forza nell’interno della società meridionale operando un’azione traumatizzante soprattutto nei riguardi della plebe». Chiaromonte aveva definito «concetto ambiguo» quello della napoletanità respingendo in toto l’idea della nazione napoletana: «Napoli non è una nazione; ne mancano – ma ne mancavano anche quando era capitale di un regno – alcuni presupposti e condizioni essenziali… l’Italia è un’unica nazione in cui domina un unico sistema economico-sociale… la questione meridionale è la più stridente contraddizione della nazione italiana: ed è solo nell’ambito della nazione italiana (e in alleanza con la classe operaia e i lavoratori del Nord) che può svilupparsi una lotta positiva e vittoriosa delle popolazioni meridionali, che vogliono far sentire, con forza maggiore, la voce di questa o quella città, di questa o quella regione del Mezzogiorno».

Ghirelli chiamò a raccolta autorevoli testimoni, che chi scrive liquidò, un po’ con l’accetta, su “la Voce della Campania” come gli “esperti di napoletanità” guadagnandosi un articolo con reprimenda da parte di Domenico Rea.  In effetti, pur senza confutare le critiche alla “sua” nazione napoletana, incassò il colpo riconoscendo con un finale riparatore in risposta alle osservazioni del sindaco Valenzi, che «il solo modo di spogliarsi da ogni nostalgia e ogni retorica, per considerare quanto vi è di positivo nella tradizione napoletana, sia nel costruire per Napoli un “volto nuovo”». Perché, aggiungeva, «la salvezza della nostra città e della nostra patria può venirci soltanto da un movimento dei lavoratori che sia capace di egemonizzare la nostra democrazia senza schiacciarla». A seguire la foto di tre operai della Sebn: «Queste rughe, questi occhi severi e malinconici, queste labbra serrate come in un’incrollabile testimonianza». Testimonianza sì, ma di un mondo che non c’è più.

Dunque, pur con tutti cambiamenti intervenuti, stiamo a ruotare sempre attorno allo stesso tema, inchiodati sadicamente o masochisticamente a un’idea identitaria che, ritornando a Pasolini, ci fa sembrare una tribù, quasi una riserva indiana indisponibile all’integrazione e all’omologazione. Sarà forse perché, come sostiene Paolo Macry nel suo ultimo libro, Napoli è una “metropoli intelligente”, affermazione che fa ritornare alla memoria la tesi di Percy Allum che, quasi mezzo secolo fa, sosteneva che la città era più forte di altre metropoli italiane e più capace di affrontare e metabolizzare la crisi – ce n’era una anche allora – proprio perché perennemente in crisi. Altri parlerebbero di arte di adattarsi e di arrangiarsi. 

Se posso permettermi, io direi che è una città paziente, capace di sopportare la sregolatezza individuale che alimenta l’invivibilità collettiva, l’approssimazione delle classi dirigenti e degli amministratori, lo scarto tra le élite colte e moderne e il popolo, l’illegalità diffusa dal piccolo abuso alle truffe in grande stile, lo sberleffo e, volendo rubare un attributo caro a al governatore De Luca, il pulcinellismo. E chissà che non sia questa sua geniale pazienza la corda che mentre la soffoca al tempo stesso non la fa precipitare e la salva. Piuttosto viene da chiedersi se a queste condizioni ci sia un futuro degno di essere vissuto e addirittura se ci sia un futuro per i giovani, poi si guarda all’Italia di oggi e ci si accorge che tutto sommato non stiamo messi così male. Quasi quasi è il caso di accontentarsi. O no?           

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 19 ottobre 2018

Ovidio in napoletano

Cominciamo dal dato che solitamente, ma non sempre, si mette tra parentesi: il prezzo. Cinque euro, che questo prezioso libretto, che sta bene in una tasca della giacca, li vale abbondantemente. È una deliziosa e colta escursione nel mondo dei profumi con una chiave inedita. Questa volta Carlo Avvisati, giornalista e studioso, ha fatto i conti con Ovidio, il poeta della “Metamorfosi” e dell’”Ars amatoria” “relegato” per punizione in Romania e riabilitato solo duemila anni dopo, nel 2017, dal consiglio comunale di Roma. E lo riabilita a suo modo anche Avvisati compiendo un’operazione ardita e suggestiva: la traduzione in napoletano del “Medicamena faciei femineae” (“ll’arte ‘e se pittà”, Arte’m editore). Al titolo è aggiunta un’ulteriore specificazione, “L’arte del trucco tradotto in napoletano”, perché il testo ovidiano («di cui resta un frammento di cento versi», ci ricorda Concetto Marchesi) viene scandito dal ritmo delle strofe (ogni strofa un distico), riunite a gruppi: per ognuno dei quali c’è il testo latino, sotto quello in italiano e a nella pagina a fronte la versione napoletana. Inutile dire che è un interessante e divertente esercizio, specie per chi il latino lo studiò a scuola, confrontare i tre testi e comprendere fino in fondo la peculiarità della traduzione in napoletano che non è, e non poteva essere quella letterale: ne avrebbe perso efficacia e freschezza, forse sarebbe risultata incomprensibile se non impossibile. 

Vediamo che succede. Per esempio il pavoneggiarsi: Scrive Ovidio: «Laudatas hominis volucris pinnas explicat, et forma muta superbita vis”. In italiano: «L’uccello sacro a Giunone fa la ruota con le penne ammirate dall’uomo e insuperbisce tutto con la sua muta bellezza». La versione di Avvisati: «Vuie facite lu pavone ca pe ll’ommo cheja la rota, e nne regne d’arbascia, zitto, ll’arma, là pe llà». E così si procede, passando poi da un intruglio all’altro. E se il napoletano risultasse più “difficile” del latino le note vi salveranno con aggiunte preziose, per esempio saprete che ‘ncannaccate sta per «appendete al collo, da ‘ncannaccare (dall’arabo kannaqa: collana di perle o granate» e che le «prete sono pietre preziose».

A parte le dotte e amichevoli presentazioni e prefazioni di Stefano De Caro e Pietro Gargano e le considerazioni dell’autore, di quest’ultimo va sottolineata l’escursione, quasi un saggio finale, sul mondo dei profumi, delle creme e dei belletti dalle prime apparizioni a oggi, dalla Bibbia a Plinio il Vecchio, da Roma alla Persia, dall’Egitto a Capua «quando non era ancora città romana ed era tra le capitali profumerie dell’epoca». Dov’è chiaro che cambiano, e non sempre le tecniche, se solo si ricorda che col dropex a base di pece, praticamente una ceretta, avveniva la depilazione, ma non muta il desiderio di bellezza che è legata al trucco e ai suoi segreti. Segreto per segreto, chiudiamo con due distici di Ovidio, ma solo con il testo in dialetto napoletano e chi non capisce pazienza: «’E marite ca tenite, mo’ so tanti ‘nnacchennelle e, stentanno, putarrite mette’ ‘a ‘coppo, p’èsse’ belle… Nteressa ca ve prucurate nuvielle nammurate e lle vulite bene! Pecché si uno è scicco, de córpa nun ne tene».

Michele e Giancarlo, l’eroe e il martire

Michele Albanese vive sotto scorta. In un pomeriggio di sei anni fa gli telefonarono dalla Polizia e gli intimarono di recarsi immediatamente in Commissariato. Da una cimice posta in un’auto avevano appena intercettato la telefonata di due bastardi che parlavano dell’ordine di ammazzarlo ricevuto dal loro capo ‘ndrina, un latitante che devastava quel comune e le aree circostanti della Piana di Gioia Tauro. Immediata la decisione di assegnarli la scorta e da quel momento la sua vita non è stata più la stessa.
Albanese è un giornalista che viene da lontano, dalla militanza giovanile negli ambienti cattolici, una breve frequentazione di Comunione e Liberazione, e poi la professione della sua vita. Meticoloso, preciso, documentato, difficile prenderlo in castagna e casomai zittirlo con una querela. Ovviamente facendo il corrispondente – tale è rimasto, neanche un articolo uno nonostante lo stato in cui si trova – di una zona controllata dalla ‘ndrangheta non poteva non occuparsi di questa, ma è anche il professionista più esperto in materia di porti, logistica e quant’altro, come sanno gli inviati che da anni calavano nel suo territorio e si avvalevano dei consigli che generosamente dispensava per di più portandoli in giro per la sua terra, una competenza così riconosciuta che perfino i dirigenti dell’autorità portuale di Gioia Tauro lo consultavano per avere consigli. Ma tutto ciò è passato, fa parte della vita precedente, anche se lui continua a lavorare e a produrre corrispondenze quotidiane, ma lo fa in condizioni di estrema difficoltà e fatica. Comunque lo fa perché non molla, nonostante il tribunale della malagente non abbia chiuso bottega e la sentenza di condanna a morte non sia andata in prescrizione nonostante il latitante sia stato arrestato.
Michele, che non ha nulla da spartire con giornalisti che passeggiano in via Condotti  con giubbotto antiproiettile in vista e seguito di telecamere e fotografi, esce poco di casa perché non solo si preoccupa  della propria sicurezza ma anche del disagio che può provocare ai passanti. Michele ormai non sa più cosa sia andare in un bar con moglie e figlie e gustare un tartufo di Pizzo perché teme per loro in caso di un agguato. Michele declina, gliel’ho visto fare l’altra sera, un invito a cena che lo farebbe felice per non approfittare della scorta dei due “ragazzi” che da anni lo proteggono e che “hanno anche loro famiglia”. Michele non va a un funerale perché si potrebbe creare una situazione complicata e allora si reca il giorno dopo al cimitero e dà privatamente le condoglianze a parenti o amici. Michele ha paura che lo ammazzino ma lo nasconde perché non vuole trasmetterla ai familiari che da sempre e da sei anni più che mai temono per la sua vita: la figlia Maria Pia ha incominciato a capirlo da bambina quando a scuola qualche sua coetanea diceva ad alta voce che il suo papà era un amico degli sbirri. Michele è un uomo forte ma quando l’ho sentito parlare al microfono non riusciva a fermare il tremore delle mani e un medico che era con me mi ha detto che da tempo lo aveva notato. Michele, dunque, continua la sua missione professionale in uno dei luoghi più pericolosi del paese, in territori dove capita che lo Stato sia il nemico e l’antistato il dominus. Ma lui sapeva e sa che questo era il rischio e lo ha affrontato e lo affronta con la consapevolezza che o faceva così il giornalista o era meglio cambiare mestiere. Ciò che non si aspettava era l’insinuazione fatta circolare in ambienti per così dire garantisti che addirittura le minacce se le sarebbe mandate da solo pur di diventare un paladino antindrangheta.
Indubbiamente il garantismo è un modo saggio di valutare gli atti di giustizia specie quando i magistrati commettono errori che ledono diritti e dignità delle persone e soprattutto quando sembra prevalere la loro voglia di protagonismo, ma in una regione come la Calabria è facile, in nome di questa pur necessaria azione critica, finire nel negazionismo secondo cui da “tutto è ‘ndrangheta” si passa a “la ‘ndrangheta non esiste”. Non è vera nessuna di queste due affermazioni, ma è acclarato che la ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più potente del mondo, non sia un’invenzione dei giornalisti: essa è il cancro più devastante di quella terra nella quale alligna da tempo e che sarà debellato solo grazie a un impegno combinato dello Stato e dei calabresi, a una strategia culturale, sociale, economica, politica e repressiva. Nel frattempo è fondamentale tutelare quelli che la combattono a viso aperto.
Non voglio confutare la celebre frase di Brecht a proposito dei popoli che sono beati perché non hanno bisogno di eroi, ma gli eroi servono. E servono da vivi e non da morti come Giancarlo Siani. La verità giudiziaria sulla sua morte è nelle carte ma c’è anche una verità che possiamo cercare nella nostra esperienza. Sappiamo da chi è stato ucciso e perché, ma Siani poteva essere salvato? Più volte sono affiorati dubbi, sospetti e anche veleni sull’ambiente che lui frequentava, ognuno può pensarla come vuole ma alla fine si resta con un pugno di veleno in mano. Piuttosto ci si deve chiedere perché Siani non fu protetto. Possibile che nessuno nella fila di comando di un grande giornale non si sia accorto che lui stava maneggiando ogni giorno una dinamite destinata a esplodere da un momento all’altro? Non serviva neanche una cimice per rendersene conto. Le sue corrispondenze rischiose ed esemplari per chiarezza e coraggio furono di fatto rubricate come ordinaria amministrazione e Siani si trovò solo, disperatamente solo, maledettamente solo. Si è molto discusso delle preoccupazioni che si avvertivano dai suoi comportamenti, ma come poteva non essere allarmato lui che sapeva di chi e cosa stava scrivendo e di non avere alcuna tutela come l’avevano il pretore o il carabiniere che gli passavano le notizie? Costruì da solo, perché per la sua limpida coscienza umana e culturale non avrebbe saputo fare diversamente, il proprio martirio.
Ecco, direi a proposito di Brecht, abbiamo bisogno di eroi come Michele Albanese e non di martiri come Giancarlo Siani. E perché questo sia possibile non lo si deve a loro, agli eroi che non mancheranno mai, ma a noi che non dobbiamo farli diventare martiri.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 25 settembre 2020

Dizionario dei giorni «sospesi»

BALCONE Quello di piazza Venezia? Quello di Rosina? Il sovrano? O il celeste? Quello dell’anima? O quello d’Oriente? E perché non quello in ferro e panciuto? Largo all’immaginazione. Ma poi ci affacciamo al balcone, se ce l’abbiamo, e se non è un balconcino lo trasformiamo anche in un parco giochi per i figli. In fuga condizionata dal mondo virtuale di dentro verso quello reale di fuori, grande o piccolo, luminoso o meno che sia. E cantiamo e suoniamo, un po’ sempre meno dei primi giorni. Stare al balcone può anche non significare fare gli spettatori e non partecipare. 

CONTAGIO Ma che colpa ho io se così mi chiamo? Sono un sostantivo innocente, ma date a me la responsabilità di farvi ammalare, soffrire, morire, incenerire senza un saluto e una preghiera e sotterrare finanche in fosse comuni. Vi prego, aggiungete un aggettivo, una specificazione, per distinguere tra il contagio infettivo e il dannunziano “contagio dell’ardore e della generosità”, tra il contagio della pestilenza e il “contagio delle nuove opinioni” di Cuoco. Io posso trasmettere anche affetto, amore e cultura. Vi imploro, per carità: rispolverate un sostantivo desueto e dotto come la contagione che implicava l’infezione. Renderete un po’ più lieve la mia pena.

DISTANZA Geometrica o sociale? Più facile la prima anche per uno a digiuno di rette, punti, curve e taxi (per misurare servono anche questi). La seconda comporta almeno tre variabili: il luogo, le persone, il terzo incomodo. Quest’ultimo si sa è un invisibile viaggiatore il cui raggio d’azione e velocità ci è ignoto. Il luogo non aiuta perché tra lo stare in una strada o in un ascensore ne corre. Ah, poi ci siamo noi. Potendo bardati, ma non sempre. Meglio affidarsi alla geometria.

ECCELLENZA Stupore, meraviglia, incredulità. Maccaroni siamo e tali, noi napoletani, siamo condannati a restare, anche per molti conterranei altrove collocati. Un ospedale, il Cotugno, è un’eccellenza? Una stranezza, perché, a dirla con Corrado Alvaro, “un popolo come quello napoletano… passa per disordinato e tumultuoso per eccellenza”. Ma quella che faticano a scipparci è “l’eccellenza della pietà” (Torquato Tasso).

EROI Troppo facile. Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Onore ai medici, agli infermieri e a tutti quelli che sono eroi perché non siamo un popolo beato.

FAME Ristoranti, pizzerie, friggitorie e pasticcerie chiuse, fila alle mense dei poveri. Nei primi si asseconda il palato, nelle seconde lo stomaco. In comune hanno il cibo, che, negli incubi ormai non solo notturni, fa temere che possano patire la fame gli utenti delle due tavole. La fame, lo spettro che da sempre si aggira nel mondo, da bisogno primordiale a dramma dei popoli. E ancora una volta il rimedio non saranno le brioches ma il pane. 

FASE Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, dove siete? Un due tre, non ci raccapezziamo più. Siamo un motore non in fase, ancora non fuori fase, chissà quando e se in fase. A chi affidarci? Non a Ugo e Raimondo che giocavano, divertendoci, con i numeri e non con le fasi, piuttosto all’uomo dei campi di leopardiana memoria che per allontanare le disgrazie si regolava “colle diverse fasi della luna”. E ci azzeccava pure. 

GREGGE E pensi alle pecore. L’immunità? Boh! Il gregge passava ogni giorno davanti alla mia casa di montagna quando la strada era ancora sterrata, ora è quello che tento di far vedere ai nipoti piccoli. I quali neanche immaginano che le “pecorelle” siano destinate a morire se prive di protezioni immunitarie da infezioni, e figurarsi se loro già sapessero che per nutrirsene le si ammazzano senza rimorsi. Anche noi umani come loro? Pecorelle smarrite. 

LIEVITO Dacci oggi la nostra pizza quotidiana. Altrimenti ci arrangiamo. Purché non ci manchi il lievito. Che sparì all’improvviso e miracolosamente ricomparve. E, in attesa dell’arrivo di quella consegnata a domicilio, la pizza domestica, si sa guarnitissima, esalò caldi effluvi che profumarono le cucine. Confido che anche Riccardo Bacchelli, che ben si intendeva di farine e il cui mulino era, ahimè, meta primaverile di chi scrive, si sarebbe accomodato alla nostra tavola. 

Mare Non tutti possono vederlo da vicino, ma quelli che possono non lo dimenticheranno. E faranno bene perché lungo le coste e nei porti, quando finirà, anche se non ridiventerà rapidamente quello di prima, ancora di nuovo i delfini non saranno a casa loro. Certo, ce ne vorrà per sporcarlo come sappiamo, ma l’uomo è bravo a costruire e bravissimo a distruggere. Chi vincerà? Balena permettendo, chiedere a Achab. 

SCERIFFO Morto Sergio Leone, anche il western sembra finito. Ma una speranza che il genere non sia morto si è riaccesa, e dove se non alle falde del “Vesevo” per poetica antonomasia “sterminator”. Lo sceriffo è tornato per proteggerci dai nuovi banditi per definizione semantica cattivi. Lui, che ha la stella, li vede prima degli altri. Tornerà anche sugli schermi? Solo se Quentin Tarantino, che di Sergio tenta invano di essere figlio, scenderà dalle montagne innevate del Colorado per riscaldarsi un po’ nel paese d’ ‘o sole. De Luca è già sul set.

SOSPESO Non appeso a qualcosa. Interrotto temporaneamente. Per quanto non si sa. Volgiamo l’aggettivo al femminile e troveremo il sostantivo appropriato: la vita. Scrisse anni fa Percy Allum che Napoli era più attrezzata dell’Italia ad affrontare la “crisi” perché di essa si nutriva da sempre. Così pare per questo tempo sospeso nella città che ha inventato il caffè sospeso, la spesa sospesa e, da ultimo, l’abbraccio sospeso. 

SPERANZA “Finirà”. “Ce la faremo”, “Speriamo”. Appunto, la speranza. La parola che ci accompagna nutrendo di fiducia l’animo. E Speranza, nomen omen, si chiama anche il ministro che deve proteggere la nostra salute. Un serio meridionale di Lucania, chiamato dal destino ad una prova fuori dalla portata di chiunque. Speriamo che faccia bene. Per lui. Per noi. Per tutti.

VACCINO O, a voi piacendo, Godot… Quando, se e come arriverà. In paziente per quanto trepida attesa. Mentre leggiamo e ascoltiamo parole esperte e inquietanti su trame e interessi mondiali attorno al futuro della nostra salute. Meglio consolarci con la speranza (di nuovo). Io, per esempio e per il momento, mi accontento del vaccino (l’aggettivo, non il sostantivo) commestibile, un saporito e genuino fiordilatte dei miei amati Monti Lattari. 

VECCHI Vocabolo su cui non si scherza. Lo imparai all’età di dodici anni. Con mio padre stavamo sulla mulattiera che da Serrara scende alla Cavascura. Dal mare saliva il fratello del mio bisnonno, don Filiberto. Contadino, ben vestito, gilet e sigaro. Chiacchieravano. Qualche mese prima Jurij Gagarin era volato nello Spazio. Per il mio anzianissimo parente erano tutte invenzioni. Io, arrabbiato perché non sentivo obiezioni, dissi la mia. Non ricordo come ma papà mi zittì bruscamente e poi, una volta da soli, mi disse che occorre avere rispetto per i vecchi. Ora, taccio sgomento dinanzi alla strage dei miei coetanei?

VIRUS Stavamo rischiando l’assuefazione a quello dell’odio, poi… abbiamo intravisto il filo a cui la vita si aggrappa. Ce lo ricorda Italo Calvino: “I virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso”.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 26 aprile 2020

Patroni

Se nomen omen capirete che il mio cuore batte per Matteo, poi ricordo di essere napoletano per scelta di vita e di lavoro da quasi mezzo secolo e allora lascio aperta una porta anche a Gennaro. Ma loro, i santi, si importano poco di questi personali dilemmi e, per quanto le due città di cui sono patroni rivaleggino da sempre e se mai un giorno dovesse giocarsi una partita di campionato tra Napoli e Salernitana, loro non hanno derby in calendario, avendo ben altro a cui pensare. Matteo è tirato per la giacca in mondi, come l’amministrazione pubblica, da cui si ritrasse senza indugio quando Gesù, incurante dello scandalo tra i pubblicani, gli disse “seguimi”, Gennaro invece ha da preoccuparsi solo di chi vorrebbe prenderlo in castagna e dimostrare che il suo sangue si liquefa tre volte l’anno non per un suo miracolo bensì per artifici chimici di altri. 

È ben evidente che i due svolgono, se il termine non risulti blasfemo, due mestieri diversi. Più laborioso quello del patrono di Napoli messo alla prova a scadenze precise, al punto che anche quando nella teca non accade nulla lo fa per dare un segnale, vuoi uno sprone ai fedeli a insistere con la preghiera vuoi il presagio di una sventura. San Matteo non è sottoposto a tali fatiche, lui, che secondo l’ordine evangelico è il primo testimone della discesa in terra di Gesù, può fare a meno dei miracoli, e pertanto i fedeli chiedono ma nulla pretendono.

Sarà forse anche per questo diverso rapporto con la città – non vorrei essere banale ricordando chi ha scritto che san Gennaro è il vero dio di Napoli – che cambia l’approccio degli amministratori. Tanto per dire, i sindaci di Napoli, di qualsiasi colore, non si sognerebbero mai di rivendicare qualcosa: sono lì, naturalmente in prima fila, fedeli tra i fedeli, pregando o facendo finta, scrutando il sangue del santo dal basso in alto. I napoletani, le parenti del gialluto in primis, apprezzano questa prova di fede democratica.

Per due anni – e così rafforzo la locuzione iniziale – ho lavorato a Salerno e ricordo le processioni del 21 settembre. Il sindaco De Luca era al massimo del suo splendore. La folla immensa invocava… san Matteo, ma io sentii osannare maggiormente il primo cittadino. “Vincenzo o’ funtanaro” aveva conquistato il loro cuore per aver fatto il miracolo del buon governo. Più controversa la visita della statua del patrono nel Municipio dopo che la curia ha messo negli ultimi anni qualche paletto per separare il sacro dal profano. La città lo vuole, il sindaco lo chiede, i portatori sono d’accordo. Chissà che pensa l’interessato. Il suo collega napoletano, intanto, ha altri problemi: c’è una teca che l’aspetta. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 17 settembre 2018

Quotidiano della Calabria, arrivo e partenza

Ennio Simeone mi lascia, e non è la prima volta, un giornale autorevole. Ringraziarlo per questo e augurargli grandi successi nella nuova iniziativa editoriale del nostro editore a Roma potrebbe apparire rituale se non ci legassero da una vita stima e amicizia. Sembra appartenere a un’altra epoca lo scantinato nel quale Pantaleone Sergi avviava quest’impresa editoriale attorniandosi tra l’altro – un fatto rivoluzionario per la Calabria di quel tempo – di uno stuolo di giornaliste. A quel temo la regione era editorialmente ingessata e sembrava impossibile far vivere per più di una breve stagione, quasi sempre elettorale, un quotidiano. Oggi non è più così. Grazie a un editore coraggioso, alla direzione di Simeone, a un gruppo agguerrito di giovani giornalisti, a maestranze tecniche e amministrative di prim’ordine, a moderne strutture di marketing e di pubblicità, il Quotidiano si presenta come un’impresa solida e riuscita. Il panorama editoriale, grazie ancora a questo giornale, è cambiato. Ogni mattina i calabresi possono scegliere tra più quotidiani, noi la- voriamo affinché preferiscano il nostro, ma è un bene per la società calabrese e per noi giornalisti che ci siano più voci. Le condizioni di monopolio possono garantire un sicuro ritorno economico a chi le detiene, ma possono anche nuocere alla libertà.

La libertà. È il capitale più prezioso di un giornale. Per chi lo fa e per chi lo legge. Sei mesi fa ho deciso di lasciare la mia Napoli e il più grande quotidiano del Mezzogiorno per una serie di motivi: rinnovare con me stesso una sfida professionale, restare al servizio della mia terra andando ancora più a Sud, in una regione dolente e maltrattata, ritornare alle imprese di frontiera che avevano contrassegnato la prima parte della mia esperienza. C’era tutto questo e altro ancora, ma la ragione vera, più profonda, che mi ha spinto a venire qui e mi porta oggi a non sentirmene pentito ma sempre più entusiasta, si racchiudeva e si riassume in questa parola magica: la libertà. Perché da lontano avevo avvertito a pelle che questo era un giornale libero e oggi lo dico con ancora più convinzione: questo è un giornale libero. Il mio impegno sarà quello di difendere questo valore. E questa libertà è un patrimonio al servizio dei calabresi che sanno di poter contare ogni giorno su una voce che racconta con onestà i loro problemi, non nascondendo le notizie negative o scomode e sottolineando le aspettative di miglioramento da qualsiasi parte provengano.

Un giornale senza nemici che non siano il malaffare e la prepotenza malavitosa. Sono, queste, le due piaghe della Calabria e del Mezzogiorno contro le quali lo Stato, nonostante il sacrificio di tanti suoi uomini, non fa tutto quello che dovrebbe trincerandosi dietro l’alibi dell’omertà, e la popolazione, pur con encomiabili e talvolta eroiche eccezioni, si limita a guardare autoassolvendosi con l’argomento di non sentirsi sufficientemente protetta. Da questa spirale occorre uscire se si vuol dare un futuro ai nostri giovani che sia fatto di lavoro ma anche di dignità.

Ci sono nemici non meno insidiosi perché operano sottotraccia: la sciatteria, il pressappochismo, il sottrarsi ai propri doveri. Quanto migliorerebbe la nostra vita se potessimo ridurre se non eli- minare questi difetti che ci sembrano piccoli e che invece non lo sono. Sulla Calabria sono piovute, piovono e, con i tanto decantati Fondi Por, ancor più pioveranno ingenti risorse finanziarie. Eppure tutto questo denaro non ha prodotto sviluppo. Scelte sbagliate? Forse. Interessi famelici? Può darsi. Scarsa pubblicità dei risultati conseguiti? Anche. Sovrabbondante peso della politica? Sicuramente. Ma pur riconoscendo che tutto questo ha una rilevanza, resta il male atavico e comune a gran parte del Sud di una macchina burocratica connotata da scarsa efficienza perché molti suoi uomini non sanno che fare, non vogliono fare, non rispondono del non fatto o del fatto male. E questa non è una condanna del destino, perché si può anche fare diversamente. Nella stanza del presidente della Provincia di Catanzaro, Michele Traversa, di fronte alla sua scrivania in un’ampia nicchia ricavata nel muro c’è un enorme video che non trasmette programmi televisivi ma semplicemente lo stato di avanzamento di tutte le opere, grandi e piccole, in cui è impegnato l’ente, e che segnala qualsiasi ritardo sulla tabella di marcia prestabilita. Si badi bene, Catanzaro, non Milano.

La politica è quotidianamente sul banco degli imputati, e spesso non solo metaforicamente. Al punto che non si perdono le occasioni per fornire al Paese un’immagine negativa dei partiti e degli uomini politici calabresi. C’è molto di vero in queste rappresentazioni ma c’è anche una grande generalizzazione. Di grave c’è il fatto che passa solo il messaggio negativo e non c’è possibilità di raccontare anche gli sforzi per migliorare le cose che pure non mancano. La sensazione è che, tramontati i grandi leader politici di spessore nazionale, la Calabria sia rimasta senza voce e che la politica tradizionale, in crisi qui come a livello nazionale, non sia stata sostituita da nuove forme di partecipazione e di formazione di un ceto politico moderno. Il cammino è lungo e impervio ma dagli schizzi di fango non ci si ripara con ombrelli bucati: meglio rimuovere alla radice le cause che producono il fango. È un compito a cui non ci si può sottrarre perché le ricadute sulla società sono pesantissime.

Un imprenditore che voglia fare qui il suo mestiere prima di affrontare la battaglia del mercato, che dovrebbe essere quella decisiva, deve vedersela con una burocrazia inefficiente se non ostile, con un sistema creditizio che sembra avere l’unico scopo di far morire qualsiasi iniziativa, e poi con il rischio ambientale di un territorio dove la malavita si muove come un potere vero e temibile. È quasi un miracolo che nascano imprese che ce la fanno e che addirittura tengono alto il nome di questa terra in Italia e nel mondo. Come sembra un miracolo, ma non lo è, che dalla tormentata storia di questi anni la Calabria sia riuscita a far prosperare una grande università a Cosenza (significative sono anche le realtà di Catanzaro e Reggio) e un grande porto a Gioia Tauro che detiene primati importanti nel Mediterraneo. Sono la prova che pur in un territorio difficile per la sua vastità e la frantumazione demografica ci sono scommesse che si possono vincere se si fanno le scelte giuste e si aggregano le forze necessarie.

La grande risorsa è appunto il territorio, la sua storia, la sua bellezza ancora straordinaria nonostante gli scempi ambientali dei decenni trascorsi, ma prima ancora l’intelligenza. I calabresi che sono stati costretti a lasciare i loro paesi hanno dimostrato in ogni luogo del pianeta il loro valore. Perché questo non è possibile farlo a casa propria? Bisogna ricercare lo spirito giusto, aggregare le energie, far leva sulle potenzialità positive, sconfiggere l’indifferenza e il senso di sconfitta che spesso accompagna fin dal nascere anche i migliori propositi, e battersi con i denti contro chi vuole impedire lo sviluppo per perpretare il proprio potere. La prossima visita del presidente della Repubblica in Calabria potrà essere un’occasione importante per un cambio di rotta. Da un uomo del Mezzogiorno come Giorgio Napolitano potrà venire una spinta vitale per istituzioni e cittadini, soprattutto per i giovani che non devono essere indotti ad andare altrove in cerca di un futuro.

Cari lettori, un giornale non è un partito, non ha quindi il compito di indicare soluzioni e di elencare programmi, è molto più semplicemente uno strumento di informazione. Ma un’informazione corretta, che vi accompagni lungo la vostra giornata in maniera non noiosa e pedante, può essere utile alla comunità. In questi anni al Quotidiano si è lavorato con questo spirito, continueremo a farlo con sempre maggiore impegno perché il nostro dialogo di ogni mattina sia una bella cosa per noi e per voi. E per la Calabria.

Articolo pubblicato il primo marzo 2007 

UN GIORNALE PULITO AL SERVIZIO DELLA CALABRIA PULITA

Cari lettori, mi accomiato da voi dopo sette anni e mezzo. Non fu una scelta facile quella che feci il 28 novembre scorso quando comunicai all’editore che avrei lasciato il giornale il 1° aprile (poi la data è slittata di due settimane). I motivi erano e sono strettamente familiari, ma ho pensato, come sempre ho fatto nella mia vita, di concludere per tempo un ciclo senza attendere che esso si esaurisse da solo. Aggiungo che, in cuor mio, sapevo che nel giornale era possibile trovare un direttore di valore, che non solo, dunque, fosse un professionista della redazione ma che fosse anche calabrese. Oggi sono felice della decisione dell’editore che affida il Quotidiano nelle mani sicure e pulite di Rocco Valenti, che sono certo risponderà al meglio alle vostre attese e al quale faccio gli auguri più affettuosi. Ma ora che lascio fisicamente il giornale e la Calabria sento una forte emozione, quasi una sofferenza come nei distacchi importanti che la vita ci riserva.

Ho amato e amo questa terra. La conoscevo, non tutta, ma la conoscevo. Ma ora che la conosco forse tutta, mi domando come sia stato possibile concentrare qui tanta bellezza. In ogni angolo, sulle coste, in montagna, nelle città, soprattutto interne, su fiumi e fiumare, negli anfratti più nascosti si rinnova la meraviglia della scoperta. Una sera freddissima d’inverno, poco prima della mezzanotte, telefonai a mia moglie, che era a Napoli e già dormiva, perché avevo il cuore che mi batteva: ero sul lungomare di Reggio, nei pressi della stazione Lido, lo Stretto sembrava inventato, il mare piatto rifletteva le luci di Messina e quasi illuminava Reggio, più in là sulla sinistra, in alto, l’Etna arrossava il buio con tracce di fuoco. Sull’Aspromonte a un tratto ebbi quasi paura, sopra di me alberi secolari non facevano penetrare neanche un filo di luce, ed era un pomeriggio di agosto. Autunno e primavera, la Sila non fa sconti: i colori, quelli delle foglie che muoiono e quelli della natura che rinasce, sono ancora più incredibili del bianco, il non-colore che rende soffice e dolce l’inverno. Non vado oltre, dico solo che ancora resto incantato quando, per la centesima volta, scendo dal Pollino e penetro in questo paradiso. E non parlo dei tesori che nel corso dei millenni gli uomini hanno realizzato. Poi mi chiedo, come fa l’amico Battista Sangineto, se i calabresi sappiano meritarselo questo bendidio.

Un po’ questo è stato il tema del lavoro di questi anni. Tanti ricordi. La valigia non può contenerli tutti. Un grande calabrese, Vincenzo Ziccarelli, mi fece scoprire che Saverio Strati, dimenticato tanto da sembrare morto, viveva nell’indigenza a Scandicci: lo splendore e la miseria, uno schiaffo, ma anche il riscatto grazie a un moto straordinario di opinione e di passione dei suoi conterranei, protagonisti perenni della sua opera. Ad Amantea ci trovammo in ventimila per esprimere il dolore e la rabbia contro chi avvelenava la Calabria: insieme a noi marciava idealmente un altro grande calabrese, il capitano Natale De Grazia, morto “misteriosamente” mentre cercava la verità sulle navi dei veleni. Il sorriso di Lea Garofalo,  le tragiche sofferenze di Maria Concetta Cacciola e il coraggio di Giuseppina Pesce attraversarono la Calabria e l’Italia dell’8 Marzo come un vento fresco di speranza. E qualche mese prima quarantamila furono i no alla ‘ndrangheta (“che purtroppo marcia insieme a noi”), ma sul palco salirono solo i testimoni perché i politici – tutti – furono lasciati rigorosamente su un lato della piazza ad ascoltare. Il motivo conduttore è sempre lo stesso: la sollecitazione alla cosiddetta società civile a scendere in campo, a fare la propria parte, a non delegare sempre ad altri e ad assumersi le proprie responsabilità, a sconfiggere, a partire dal proprio impegno, il pregiudizio antimeridionale di cui parla Vito Teti.

La vera rivoluzione è culturale, quella delle coscienze e di un senso comune che si fondi sulle regole, la legalità, la tolleranza e la solidarietà. Cecchino Principe, nel breve periodo dei nostri incontri (è stato uno dei due politici con cui ho pranzato), veniva a trovarmi di proposito per chiedermi di dare spazio alla cultura. Come fa il preside Giovanni Sapia di Rossano, che alla sua veneranda età è un vulcano di rigorose iniziative, tra i primi a sostenere con un convegno la nostra campagna su Sibari, che tra l’altro proprio in questi giorni, grazie al rettore Gino Crisci e al preside Raffaele Perrelli, ha fatto registrare una salutare apertura dell’Università della Calabria verso il territorio. Nella valigia lascio uno spazio per Pier Paolo Pasolini che in una lettera inedita (caro Roberto Losso, che scoop!) sferzò i calabresi (“siete banditi, ma i banditi mi sono simpatici”) invitandoli a “non fare come gli struzzi”. I poeti guardano oltre, sognano per noi, come faceva ogni lunedì padre Giancarlo Bregantini quando toccava il cuore dei calabresi augurando loro una “buona settimana”. Nessuno potrà mai togliermi dalla testa che con la cultura non si vende una copia in più di giornale ma che senza la cultura non si va da nessuna parte.

Ho avuto una grande fortuna. I miei editori, Antonella e Francesco Dodaro, sono persone per bene e non hanno mai interferito nel mio lavoro, il giornale lo hanno sempre letto il giorno dopo. D’altro canto, non sarebbe stato possibile il contrario perché ci saremmo salutati all’istante. Tra tante difficoltà imprenditoriali, con me hanno onorato il patto iniziale di assoluta autonomia. La foto del loro papà – il sorriso di un uomo buono e onesto – mi è diventata familiare, e ho sempre pensato che nella loro attività ci sia stato e ci sia il valore aggiunto di una tragedia, l’assassinio del loro genitore, e della giustizia negata. Per sapere come vanno le cose in Calabria, non ho avuto bisogno di andare molto lontano.

La giustizia, appunto. Ce n’è poca e ce n’è troppa ma a sproposito, perché il sistema presenta deformazioni allarmanti. I secondi gradi, troppo frequentemente, ribaltano le sentenze di primo grado e si resta sgomenti su come il bianco possa diventare improvvisamente nero e viceversa. Sarà una garanzia, ma qualche dubbio rimane. Per non dire di inchieste e processi interminabili che finiscono nel nulla. Puoi marcire in galera se sei un povero diavolo o, da condannato in via definitiva, spassartela a casa se hai potere e soldi. Ma soprattutto c’è qualcosa che ci riguarda in Calabria come in Italia. Nella pratica il rito giudiziario non è formato dai tre gradi, ma c’è questo e prima ancora ce n’è un altro. L’indagine preliminare dei pubblici ministeri, in sé necessaria e inevitabile, si coniuga con l’informazione. In questa fase si determina un meccanismo infernale, che produce la condanna a priori dell’indagato, anche perché gli organi di informazione sono indotti, per scelta o per costrizione, a “sposare” le tesi dell’accusa, le uniche esistenti in quel momento, sia per motivi di concorrenza sia per fugare sospetti di amicizia o compromissione. Quante volte ho sentito persone innocenti lamentarsi per i titoloni a loro dedicati durante l’indagine e per lo spazio esiguo in sede di processo e dopo le sentenze. Noi, soprattutto se siamo in buona fede come dovrebbe essere sempre per deontologia professionale, dobbiamo essere consapevoli del danno che tante volte arrechiamo alle persone. Ciò detto, se non si riforma la giustizia e non si correggono storture così devastanti, cambierà poco e i pm, talvolta tentati dal successo mediatico, continueranno a fare le loro inchieste mentre noi giornalisti amplificheremo il loro lavoro senza poter contrapporre alle loro tesi quelle della difesa, che fino a quel momento non ha avuto alcuna possibilità di agire.

L’altro nodo è quello della politica che invade ogni cosa. Questa degenerazione, asfissiante, scaturisce dalla dipendenza quasi totale della Calabria dal pubblico. All’esercito dei dipendenti pubblici e anche dei rappresentanti istituzionali e degli eletti si deve sommare un altro vastissimo esercito di persone “protette” a vita dallo stato sociale.  Se per incanto un giorno lo Stato cessasse di esistere, la Calabria intera finirebbe sul lastrico. In questa composizione sociale, a cui fa da contraltare una classe dirigente di basso profilo e di scarso coraggio, sguazza la politica che non ha bisogno di rendere molto conto del suo operato anche perché tra eletti ed elettori c’è una corrispondenza di sensi, salvo poi tutti a lamentarsi che la Calabria sta male, è governata peggio, conta poco, è abbandonata. Pensare di scappare, come fanno in tanti, appare quasi una scelta naturale per chi non accetta questo stato di cose. Forse così si spiegano la mancanza di tensione sociale e politica e la sostanziale continuità amministrativa e perfino programmatica tra aree politiche sulla carta alternative tra loro. Ed è per questo che risultano eroici gli sforzi di chi resta e suda per fare qualcosa di buono. Ce ne sono tanti, ma sono spesso deboli e isolati e fin quando non riusciranno a fare rete e a cambiare le regole del gioco resteranno marginali e soccombenti.

Tanto per cambiare, non servono eroi ma persone normali e, quindi, normalità. Per quanto impegno militare e di intelligence lo Stato possa mettere in campo, non sarà possibile estirpare la malapianta della ‘ndrangheta ma anche quelle del favoritismo, del clientelismo, del familismo, dell’assistenzialismo, delle regole violate e piegate a proprio uso e consumo. La prima norma è partire da sé stessi prima di chiedere agli altri e domandarsi: che faccio io per gli altri? qual è la cosa giusta da fare? È il primo gradino della scala che porta a cambiare davvero le cose. Ciò vale naturalmente per tutti, anche per chi fa il mio mestiere e ha avuto l’opportunità di dirigere un giornale in Calabria. Cari lettori, mi scuso per gli errori fatti, ma oggi saluto e ringrazio voi e i miei compagni di lavoro – i redattori, i collaboratori, i fotografi, i poligrafici, i segretari e le segretarie di redazione, gli amministrativi, i rotativisti, gli ispettori di distribuzione e i distributori, le correttrici, i pubblicitari – con la coscienza di aver tenuto fede ai principi che vi illustrai il primo marzo 2007. E credo che il Quotidiano continuerà sempre meglio il suo cammino perché – come dice il mio carissimo amico Antonio Panettieri, che solo per caso è un dirigente dell’azienda – la Calabria ha bisogno di un giornale libero e pulito come quello che avete tra le mani. Proteggetelo. 

Articolo pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 13 aprile 2014    

Hitler a Napoli

Il filmato dell’Istituto Luce sulla visita di Hitler a Napoli, riproposto sul sito del Corriere del Mezzogiorno, non lascia indifferenti, come e più di quelli sulle folle oceaniche di Trieste per le leggi razziali o di Roma sull’entrata in guerra o delle tante città invase da un popolo acclamante il duce ora per questo ora per quel motivo. L’8 maggio di ottant’anni fa il regime si propose, riuscendoci, di dare una prova di forza che non doveva sfigurare di fronte alle sterminate parate del Führer in terra di Germania. Decine di migliaia di militari schierati per chilometri ai lati delle strade per far ala all’auto con Hitler e Vittorio Emanuele II, ogni palazzo ricoperto da drappi, bandiere, svastiche e fasci sarebbero bastati, ma Mussolini intendeva dimostrare all’alleato le proprie capacità militari in mare schierando duecento navi in una parata memorabile. Non a caso il percorso “terrestre” fino alla Stazione Marittima fu riservato ai due capi di stato, lui accolse il Führer sulla nave ammiraglia “Conte di Cavour” mentre dalla flotta rimbombavano nel Golfo le “salve regolamentari” di cannone.

Il messaggio che Mussolini voleva mandare era chiarissimo: l’Italia c’è, ed è pronta all’”ora della storia” che presto scoccherà. Il tono e le parole del giornalista dell’istituto Luce corrispondono alla perfezione allo scopo. Uno spettacolo impressionante di forza, di organizzazione, di potenza, che nulla lasciava presagire della catastrofe nella quale i due dittatori condurranno i loro paesi e il mondo intero. Naturalmente c’era Napoli, si può dire tutta Napoli, per fede fascista, per curiosità, perché non poteva non esserci, e chi poteva disturbare, come Ettore Scola ci ha ricordato in “Una giornata particolare”, era stato messo nell’impossibilità di farlo. In molti di noi napoletani quel documentario richiama ricordi familiari, racconti di quel giorno. 

Mio padre, nato nel ’25, aveva poco più di dodici anni. Abitava a Castellammare, nella zona di Quisisana, poco al di sotto della Reggia. Sparì prima che albeggiasse. La mamma, vedova, bidella della scuola elementare, sulle prime non si preoccupò sapendo che il figlio viveva in strada e scorrazzava in lungo e in largo con qualche tappa in parrocchia. Nel pomeriggio incominciò ad impensierirsi e a sera l’apprensione crebbe fino a diventare paura del peggio. Il ragazzino era sparito, nessuno lo aveva visto, il passaparola si trasformò in breve da solidarietà e vicinanza in mobilitazione di tutto il quartiere. Le ricerche continuarono per ore, solo dopo le quattro di notte lo si vide sbucare mentre risaliva il primo tornante di via Quisisana. Era andato a piedi a Napoli per vedere Hitler ed era ritornato a piedi. Da solo. Affamato, stanco. E pur tuttavia, con l’incoscienza dell’età, felice dell’impresa e perfino sorpreso per la gente che gli stava attorno e poco consapevole della sofferenza procurata alla madre. Cinque anni dopo – era già operaio del cantiere navale – fu costretto a ripararsi sui Monti Lattari dopo una manifestazione di donne per chiedere la liberazione degli antifascisti detenuti nel carcere di Salita San Giacomo: delle infatuazioni di ragazzino aveva ormai solo un vago ricordo.

Dunque, il filmato ci racconta che i napoletani erano fascisti? Che poi divennero antifascisti quando il regime crollò e la guerra fece il resto? Antica questione, che nulla toglie ai meriti degli antifascisti che in Italia o in esilio non erano nel coro. Per esempio, per restare a Castellammare, non vanno mai dimenticati quegli operai che il 16 settembre 1924 accolsero con gelo e anche qualche fischio il presidente del consiglio Mussolini in vista al più famoso cantiere navale del Mezzogiorno. Ma quella corale esultanza popolare per i capi del fascismo e del nazismo, che sarà riscattata con le “Quattro giornate di Napoli”, fa riflettere su un problema che gli storici, e non solo loro, hanno più volte affrontato e approfondito: l’opportunismo dei voltagabbana, il diffuso e ricorrente riciclarsi dalla sera alla mattina sull’onda del nuovo vento. 

Tornano sempre attuali le pagine di Ruggero Zangrandi, uno storico e giornalista che raccontò dal di dentro “il lungo viaggio attraverso il fascismo”. Lui, che era nato durante il ventennio e che ebbe in sorte, quale compagno di banco e amico di Vittorio Mussolini, di frequentare Villa Torlonia e il Duce, raccontò in un libro con quel titolo il tormentato e drammatico itinerario di un’intera generazione. Soprattutto, nella seconda edizione, chiamò in causa, con nomi e cognomi, la classe dirigente di prima della presa del fascismo – intellettuali, magistrati, scienziati, avvocati, filosofi – che preferì tacere e convivere con il regime e che, alla sua caduta, come se nulla fosse accaduto, continuò ad occupare nella nuova Italia i posti di comando. Un riciclaggio che fu permesso, ai più alti livelli, anche ai responsabili del disastro dell’8 settembre 1943, della fuga “protetta” da Roma del sovrano e dei generali e della mancata difesa della capitale.

Quello straordinario documentario sulla visita di Hitler a Napoli fa pensare anche a queste cose, a un’Italia che ha pensato a sé stessa mentre altri ne riscattavano l’onore combattendo per le strade di Napoli o sulle montagne del paese.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 5 maggio 2018