Lo stupore

Per Matteo Cosenza, che sapeva scrutare a fondo i fatti politici e culturali, fu una vera sorpresa essere stato a contatto con un fenomeno grandioso, unico al mondo: l’effetto che la figura spirituale di padre Pio faceva nel cuore di tanta gente umile e sincera. Per questo, tutto il libro è intessuto ed attraversato da una parola magica: lo stupore!

Uno stupore che tocca quattro aspetti presenti in tutti gli articoli: la fede della gente umile e popolare; la sofferenza sottostante che diventava gemito; gli eventi esterni di folle che correvano alla tomba di Padre Pio e l’arte che ne ha raccolto il fascino in strutture ardite innovative, come la basilica ideata a progettata da Renzo Piano. Un panorama complesso e vasto, dunque, carico di grande emotività ed espressività.

p. GianCarlo Bregantini
arcivescovo di Campobasso-Boiano

Il fuoco che arde

Matteo appartiene alla categoria dei non credenti che tuttavia non smettono di porsi domande. E che non potendo dimostrare la “non esistenza” di Dio, sono percorsi da un’ansia e da un rovello continui: lo struggimento delle domande senza risposta. Quale strumento migliore dell’indagine giornalistica per penetrare i misteri che continuano ad appassionarci?

A muoverlo, dunque, è il dovere di testimonianza. Ecco il cuore di questo libro: il desiderio, da parte di un giornalista profondamente laico – che tuttavia attribuisce un valore universale a tanti messaggi del Cristianesimo – di penetrare il mistero di una devozione di popolo, di un fuoco che continua ad ardere.

Vittorio Del Tufo

La Castellammare di Mimmo Jodice

Per le elezioni comunali del 17 aprile 1977 a Castellammare di Stabia realizzammo un programma elettorale del Pci davvero particolare. Non solo per i testi ma per le immagini. Chiesi a Mimmo Jodice, fotografo di valore mondiale che non ha bisogno di presentazioni, di fare un reportage sulla città. Lavorò, gratuitamente, a lungo e realizzò un magnifico racconto di Castellammare. Per valorizzarlo scelsi un formato audace, decisamente orizzontale. I testi furono realizzati da un’équipe di prim’ordine: Antonio Barone, Antonio Caccioppoli, Liberato De Filippo, Alfonso Di Maio, Franco Martoriello, Franco Perez, Antonio Polito, Catello Polito e Luigi Vicinanza. L’opuscolo fu stampato nelle Arti Grafiche Boccia di Salerno. Qui pubblico quasi tutte le foto di Mimmo Jodice. Certo, sono scannerizzate da un vecchio documento consumato dal tempo ma forse per questo risultano più preziose. Ecco la Castellammare come la vide un Maestro della Fotografia.

Senza eskimo da papà Cervi, nella nebbia di Campegine

A Reggio Emilia! Con un desiderio covato da anni. Da quando avevo letto il libro, che era entrato ancora fresco di stampa in casa del“compagno Saul”, l’operaio comunista che era anche mio padre. Volevo conoscerlo, stringergli la mano, sentirlo parlare, sperando che raccontasse anche a me la sua storia. E ora ero in treno verso l’Emilia insieme ai delegati napoletani per partecipare al congresso della Fgci. Era il 2 gennaio 1969, ci aspettavano giorni di discussione, che si annunciava tempestosa come quei tempi di cambiamento, avevamo in tasca un biglietto di andata e ritorno che durava diversi giorni. Il ritorno era previsto per il sabato, ma potevamo anche prolungare.

Non so come ma io e Ciro Oliviero ci ritrovammo con lo stesso desiderio. Ciro aveva 21 anni, io due in meno. Barbe d’ordinanza, non indossavamo l’eskimo perché tanti giovani comunisti già avevano qualche riserva. Tutt’e due della provincia, lui di Ercolano, io di Castellammare. Anche lui aveva letto il libro. Durante il viaggio ne parlammo. Certo, ricordammo i sette figli fucilati dai fascisti nel dicembre 1943 ma ci affascinava quello che loro e tutta la famiglia avevano fatto per affermare il diritto a coltivare i campi senza dover dare il cinquanta per cento del ricavato ai padroni terrieri. Il livellamento! Di un terreno di 20 ettari, tutto gobbe e buche, fecero una pianura: tonnellate di terreno sparivano dalle gobbe e riempivano le buche, e contemporaneamente si realizzava una canalizzazione con una pendenza perfetta che non faceva disperdere neanche una goccia d’acqua. Il raccolto si raddoppiò. Guardati all’inizio con sospetto e curiosità e poi a cose fatte con meraviglia dagli altri coltivatori, finirono con il diventare un esempio per tutti. Quando ci si chiede quale sia stato il segreto del modello emiliano bisognerebbe ritornare a quelle storie che intrecciavano laboriosità, fantasia, intraprendenza e senso di comunità trasformatosi quasi naturalmente in coscienza politica. Lui, Alcide Cervi, poteva orgogliosamente scrivere: «Da allora, tutti i contadini della zona impararono a livellare. E oggi nel reggiano non si trovano più appezzamenti a gobbe e buche».

«Perché non andiamo a trovarlo?». Non so chi dei due lo disse, ma decidemmo subito che non saremmo ripartiti il sabato, tanto il biglietto ce lo consentiva. Alloggiammo in un albergo adeguato alle quasi inesistenti risorse finanziarie dell’organizzazione, mangiavamo in una mensa nei pressi della federazione del partito, circondata da casa del popolo, qualche circolo e anche, se non ricordo male, un sindacato, ma i giorni e anche qualche notte li trascorremmo nel teatro Ariosto perché in una città dove il partito era tutto ce lo potevamo permettere.

Quel sito magnifico fu investito dall’impetuoso vento del tempo. Al punto che il congresso, quando terminò, fu praticamente e clamorosamente cancellato dalla storia del Pci e della sua organizzazione giovanile. Eravamo in pieno ’68 anche se avevamo già un piede nel ’69 e la Fgci si trovò ad essere un fragile ponte tra il partito e il mondo, soprattutto giovanile, che premeva per il cambiamento. Uscivamo dalla Primavera di Praga e dal Maggio Francese. I giovani comunisti nelle piazze, nelle scuole e soprattutto nelle università partecipavano al sommovimento profondo della società mentre nel partito spesso dovevano difendersi dalla critica di essersi spinti troppo avanti. Non da tutto il partito, ovviamente, se si pensa alle novità della linea del Pci che aveva già dovuto superare traumaticamente la rivolta ungherese del ’56, ma le resistenze non erano mai cessate. E in quei giorni reggiani ne avemmo conferma.

Tensione, polemiche, un dibattito acceso, si stava dentro il teatro e si pensava a quello che accadeva nel Paese, spesso anche scontri duri. L’epilogo più clamoroso, e che segnò la ricordata cancellazione, avvenne appena prese la parola il compagno della Direzione che era venuto a dettare la linea. Il tramestio in sala fu un presagio. E, mentre lui andava al microfono, dal tavolo della presidenza il segretario della Fgci, Claudio Petruccioli, mostrava in viso chiaramente la preoccupazione per quello che temeva potesse accadere. Non si sbagliò. Ugo Pecchioli, responsabile della cultura per il partito, non le mandò a dire, entrò subito in argomento parlando di Dubcek e di quello che si agitava negli atenei, ma quando a proposito del Maggio Francese invitò a fare attenzione agli evidenti rischi “controrivoluzionari” successe il finimondo, il teatro scattò in piedi e fischiò a lungo. Il volto di Pecchioli, che non si aspettava certo applausi scroscianti, divenne a tratti rosso per la rabbia e a tratti bianco per la sorpresa. Il resto avvenne di conseguenza. A conti fatti il congresso, che era già alla giornata conclusiva, finì lì e fu presto archiviato per essere sepolto sotto la polvere di qualche deposito.

Tutti tornarono alle loro case, tranne io e Ciro. Ci eravamo preparati all’appuntamento che ci premeva di più. Il sabato sera avevamo appuntamento con un compagno di Boretto, il comune sul Po confinante con Brescello. Ciro lo aveva conosciuto nella campagna elettorale della primavera del 1968 quando era venuto dalle sue parti come aiuto della Rossa Emilia ai compagni del Mezzogiorno. Dormimmo a casa sua. La domenica, quando ancora non albeggiava, andammo via. Ci mettemmo in marcia in una strada che non vedevamo perché eravamo dentro una nebbia così fitta che, se non fossimo stati quasi attaccati l’uno all’altro, ci saremmo persi. Quando finalmente, con un‘umidità che ci era penetrata nelle ossa, entrammo nella stazione di Boretto ci guardammo e quasi non ci riconoscemmo: le nostre barbe erano diventate bianche. Andammo alla federazione di Reggio dove il partito ci aveva messo a disposizione una macchina e un autista per accompagnarci. E così raggiungemmo Gattatico di Praticello, una frazione di Campegine.

«Siete missionari?», papà Cervi ci chiese dal letto dove si trovava. Le barbe, sempre loro! Il nostro accompagnatore gli spiegò che eravamo compagni venuti da Napoli, mentre la figlia lo aiutava a stare più sollevato sui cuscini. Aveva 94 anni, dopo pochi mesi sarebbe morto, in qualche momento non era lucidissimo ma quando incominciò a raccontare il suo passato i pensieri furono chiari e precisi: l’aia, la terra, la fatica nei campi, la lotta contro i padroni, i diritti conquistati, l’impegno politico dei figli, in particolare di Aldo, fino alla loro morte, qualche frase ripetuta chissà quante migliaia di volte come quella sull’andare avanti perché “dopo un raccolto ne viene un altro”. Non so quanto tempo stemmo seduti accanto a quel letto mentre la figlia ci girava attorno e ci serviva ora un caffè ora un bicchiere d’acqua. A pensarci bene lui con la sua saggezza non era andato lontano dal vero quando ci aveva scambiato per missionari, in fondo eravamo dei pellegrini che, per le loro convinzioni, invece di andare a venerare le stimmate di Padre Pio erano venuti lì per pregare laicamente sulle ferite di sette uomini, legati dallo stesso sangue e da un atroce destino di morte, che il loro padre testimoniava con la sua vita e la sua parola, quella sì una missione straordinaria. Una sensazione così forte provata poche volte nella vita, sicuramente quando in un altro pellegrinaggio volai sull’oceano per andare nell’isola caraibica a sostare religiosamente davanti al “Treno di Santa Clara”.

Avevamo ormai dimenticato i tumulti del congresso quando ritornammo a Reggio per spostarci in treno a Bologna in attesa di quello per Napoli che partiva attorno a mezzanotte. Senza un centesimo in tasca, con un freddo per noi inusuale, vagammo per ore sotto i portici distraendoci, mentre battevamo i denti, davanti alla vetrina di un negozio di elettrodomestici chiuso che trasmetteva la finale di Canzonissima.

17966178_1871983613044681_541582686644539832_ojpg(foto di Matteo Cosenza)

Sono tornato con Anna tre anni fa a Campegine, alla casa che ora è il Museo Cervi. Un luogo visitatissimo nonostante i tempi di smemoratezza che viviamo. Naturalmente io vedevo tutto, per quanto così diverso da cinquant’anni fa, con gli occhi di allora e sentivo la voce di Alcide Cervi. E ora, prima di scrivere, ho telefonato a Ciro Oliviero, che vive a Oristano dopo aver girato mezza Italia tra le sedi dell’Inps. Con una memoria più sveglia della mia, è lo stesso di allora e se fosse possibile fischierebbe di nuovo Pecchioli. Come me ha ancora la barba e pure la sua è bianca, ma la nebbia non c’entra.

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/senza-eskimo-da-pap%C3%A0-cervi-nella-nebbia-di-campegine

 

Cosenza, utopia e potere delle parole

di FLORIANA GUERRIERO

È un racconto che attraversa la storia del giornalismo, di una generazione e insieme del paese quella che consegna Matteo Cosenza in “Casomai avessi dimenticato”, Rogiosi edizioni. Una narrazione che consegna la forza del giornalismo e insieme la fatica di un mestiere, che non ha mai smesso di raccontare la società in cui viviamo. Tanti i protagonisti della politica e del mondo del giornalismo che fanno la loro comparsa nelle pagine, da Maurizio Valenzi a Enrico Berlinguer fino a Giancarlo Siani. Cosenza, una vita dedicata al giornalismo, dal Mattino alla guida del Quotidiano della Calabria, racconta di aver scoperto per caso come la storia di Siani abbia intrecciato la sua. Una scoperta avvenuta leggendo il soggetto del film di Maurizio Fiume “E io ti seguo” sull’assassinio del giornalista del Mattino.

«Oggi sono andato – scriveva Giancarlo – a prendere Matteo Cosenza per portarlo al liceo Umberto per una lezione. Matteo voleva sapere perché ogni giorno dal Vomero vado a Torre. Sorridendo ho risposto: visto cosa mi tocca fare per diventare giornalista ed entrare al Mattino». Siani aveva infatti collaborato tra il 1983 e il 1984 attivamente con Lamberti sia al corso di giornalismo che all’Osservatorio sulla camorra. «Lo conoscevo bene – scrive Cosenza – per gli articoli che scriveva da Torre Annunziata per il Mattino, che ogni tanto mi costringevano a fare qualche rimprovero al nostro corrispondente. Il suo, come si sa, non era il lavoro spesso un po’ routinario di cronaca locale, lui leggeva la realtà, collegava, ricostruiva, scavava, resocontava e commentava». Inevitabile il richiamo alle polemiche su una morte che poteva forse essere evitata e sulle responsabilità del Mattino. «Penso che il direttore del Mattino – scrive Cosenza – sia stato tormentato da questi pensieri e si sia convinto davvero che Siani fosse stato mandato allo sbaraglio. Si chiedeva “Abbiamo sbagliato qualcosa?” Pietro Gargano gli rispondeva: “Sbagliammo tutto”». Eppure, ricorda Cosenza, l’errore era nel sistema, l’essere abusivi era una strada obbligata anche se si poteva contare su una raccomandazione. Una strada, quella di Cosenza, direttore de La Voce della Campania e poi di Paese Sera Napoli, che abbraccerà presto quella del Mattino, dap-rima con la querela per un articolo diffamatorio sul caso Siani pubblicato da Paese Sera, risolto con una cena e poi con la proposta di entrare nella squadra. «Eravamo al dolce – racconta Cosenza – quando Calise si rivolse al nonno e gli chiese: Direttò ma quanno c’o pigliammo a Matteo?. Dalle reazioni capii che l’unico a sorprendersi ero io. Infatti, il direttore del Mattino rispose con tutta calma “Se lui è d’accordo, si può fare”. Iniziò così il mio viaggio non facile verso il giornale della città». 

Tra storie, voci e volti a prendere forma è una riflessione sul giornalismo: «Quando ero entrato al Mattino avevo cercato una risposta ad una domanda che mi facevo da sempre: perché quello era il giornale per antonomasia della città, da dove derivava il suo radicamento fino a farlo diventare un suo imprescindibile punto di riferimento, quasi uno dei monumenti di Napoli?… Una volta dentro quel palazzo una risposta me la diedi: a quel tempo – negli anni poi molte cose sono cambiate – realizzavano il giornale persone che rappresentavano Napoli nei suoi vari aspetti, che in essa erano intrecciate con una fitta trama che consentiva di cogliere umori, sensibilità, storie e notizie. Nel bene e nel male». 

Ma il libro è soprattutto il racconto di come sia nata la passione per il giornalismo, autobiografia e memoria si fondono, così grande e piccola storia, Matteo spiega come sia nata in lui la passione per la lettura, frutto di una malattia che lo costrinse a letto, una passione che viaggia di pari passo con quella per la politica, ereditata dal padre, operaio comunista, tanto che presto Cosenza si ritroverà costretto a scegliere tra le due. «Perchè all’inizio, nella mia Castellammare, non erano gli altri a chiedermi di fare i giornalisti bensì ero io a caccia di loro per far crescere l’egemonia culturale prima che politica del mio partito nel territorio». Fino alla fuga a Torino, dopo una lite con i suoi per toccare con mano la fatica del lavoro, la disperazione dei tanti che emigravano al Nord in cerca di fortuna ma non sempre la trovavano. 

O ancora la scommessa de La Voce della Campania che sceglieva di pubblicare la Storia della Campania, riunendo intorno ad un tavolo il gotha dell’Università campana. Una scommessa strettamente legata al sogno del riscatto delle aree interne, impreziosita dalla partecipazione di Giuseppe Galasso. Era proprio Galasso a sottolineare come «un punto di unificazione regionale c’è stato soprattutto negli ultimi mille anni più che in precedenza quando Napoli ha svolto le funzioni di capitale del Regno in modo da fungere da centro metropolitano di tutte le altre province del Mezzogiorno e non soltanto di quelle tre più vicine di cui parliamo nel caso della Campania… Dopo la fine del Regno, Napoli si è trovata esposta ad una quasi insuperabile difficoltà di convertirsi da capitale del Regno a capitale del territorio diversamente definito».

O ancora la risposta di Enrico Berlinguer alla lettera di Cosenza che gli manifestava il disagio di un compagno sconcertato per le trame visibili o nascoste intorno a Paese Sera, dopo le dimissioni di Andrea Barbato e l’ombra di una società di import-export europeo che incombeva. «Caro Cosenza – rispose Berlinguer – ci sono diversi compagni che lavorano in giornali che non sono del partito e alcuni di essi non sempre si comportano da comunisti. Pur comprendendo i sentimenti che ti hanno spinto a scrivermi non vedo perché debba sentire disagio un compagno per il fatto di lavorare a Paese Sera. Tieni conto, fra l’altro che la linea e gli atteggiamenti politici del giornale saranno influenzati in misura notevole dal lavoro e dell’orientamento dei redattori». La sera del 3 aprile del 1983 l’editore annunciava la chiusura di Paese Sera che però giornalisti e poligrafici decisero di tenere in vita.

È lo stesso Cosenza a spiegare il senso del volume che ribadisce la forza delle idee e delle passioni e insieme il potere delle parole: «Io lo intendo come un tributo alla carta, alla parola scritta e dattiloscritta, a quella stampata, al nero su bianco che mi ha accompagnato da sempre. Non senza qualche tormento e tradimento. Quando in uno stanzino di Paese Sera comparvero tre postazioni video dove noi giornalisti portavamo i nostri articoli dattiloscritti per vederli trasformati in caratteri verdi che comparivano su uno schermo nero, eravamo curiosi, scettici, perplessi”. 

Recensione pubblicata sul “Quotidiano del Sud” edizione Irpinia domenica 27 settembre 2020 – VISUALIZZA ARTICOLO

Ma Matteo non ha dimenticato proprio nulla

di LINO ZACCARIA

Matteo Cosenza viene da molto lontano. E lo dimostra con il libro “Casomai avessi dimenticato” (196 pagine, Rogiosi Editore), una sorta di autobiografia che si snoda attraverso molteplici flash back, tasselli della sua straordinaria esperienza professionale e di vita.
L’ancoraggio delle reminiscenze, tratte dagli appunti rigorosamente conservati nel cassetto, è Castellamare, la città dove è nato e dove si è formato, seguendo le orme del padre, il compagno Saul, un monumento della storia del Pci stabiese (e non solo).
Matteo è un ragazzo precoce, cresciuto a pane e politica. Ingaggia un duello personale con l’insegnante di italiano, che lo boccia perché a suo dire non sa scrivere e lo provoca con il contenuto dei suoi compiti in classe. Ma il ragazzo ha grande orgoglio, passa l’estate a leggere di tutto, divora migliaia di pagine dei libri della biblioteca di casa, messa su dall’operaio Saul ed imprime una svolta alla sua vita. Il professore di italiano è duramente sconfitto.
Contemporaneamente Matteo si autoproclama segretario giovanile cittadino del Pci, si ritaglia un posto nella sede del partito e ne combina di tutti i colori, compreso un “chiarimento” telefonico con l’allora segretario della federazione napoletana, Giorgio Napolitano. E’ di quegli anni la rocambolesca conoscenza con Ruggero Zangrandi, un grande inviato di Paese Sera. Matteo è un vulcano, seppure ancora ragazzo esorbita dalle attribuzioni, incide sulla vita del partito a Castellamare, prova il brivido della ribellione, fugge di casa nella chimerica impresa di trovare un lavoro della Torino operaia della Fiat. Ma la rivolta dura poco. A Castellammare c’è l’humus della sua esistenza, ci sono gli affetti. Ritorna e scopre in sé il sacro fuoco del giornalismo, abituato com’è ad avere sotto mano tutti i giorni L’Unità, Paese Sera ed anche Il Mattino. Si inventa un ciclostile, poi avvia la collaborazione alla “Voce della Campania”, di cui diventa ben presto direttore e dove prende sotto la sua protezione due ragazzi che ne faranno di strada, Antonio Polito e Gigi Vicinanza, ma anche, tra gli altri, Enzo Ciaccio, Procolo Mirabella, Giuseppe D’Avanzo e Michele Santoro.
Nel ripercorrere i passaggi più importanti della carriera Matteo svela un episodio che non ha timore di rivelare e che ribadisce quella profonda onestà intellettuale che è una caratteristica pregnante del suo atteggiamento etico e civico. E’ il 1979, il direttore di Paese Sera gli offre un contratto a tempo indeterminato e soprattutto la prospettiva di diventare, nel breve, responsabile dell’edizione napoletana del giornale. È al bivio tra giornalismo e politica. Fa parte anche della direzione regionale del partito, Bassolino ne è il segretario. Si riunisce il comitato regionale, oltre al segretario è presente anche il dirigente nazionale Giorgio Napolitano. Il Pci è reduce da una serie pesante di sconfitte elettorali. Cosenza prende la parola e legge le dieci pagine di fuoco della sua relazione. Ne ha per tutti e lancia i suoi strali contro le scelte politiche, o meglio contro le mancate scelte. Ma il “tribunale” del partito, attraverso un’apposita commissione, non perdona, arriva la “condanna” per iscritto. Attorno a lui, improvvisamente, si fa il vuoto. E quella promessa di nominarlo capo della redazione di Napoli tale rimane per due lunghi anni.

Per non dimenticare proprio nulla Cosenza ripercorre altri momenti decisivi del suo percorso umano e professionale: il confronto con il “nemico” Antonio Gava, la lunga esperienza al “Mattino”, e svela i particolari del suo passaggio al più importante quotidiano del Sud, i suoi rapporti con Pasquale Nonno, la sua conoscenza, quando lavorava ancora a Paese Sera con Giancarlo Siani. Ne ha anche per citare la sua straordinaria esperienza alla direzione del “Quotidiano di Calabria”, culminata con l’organizzazione di una spettacolare e gremitissima marcia contro la ndrangheta.
Oltre alla prefazione di Enzo d’Errico il volume si articola in tredici capitoli. Si legge tutto d’un fiato, la frammentazione numerica cui è ricorso l’autore è solo apparente. Tutta l’opera appare come un unico avvincente capitolo di una storia che non è finita. Perché il “sacro fuoco” del giornalismo non si è spento, e Matteo Cosenza continua ad esibirsi dalle colonne del “Corriere del Mezzogiorno”. I suoi fondi colpiscono, fanno sempre discutere.

Recensione pubblicata su Quotidiano Napoli” il 5 agosto 2020

Caro Matteo,

di NANDO MORRA*

ti rubo tempo con una “particolare“, atipica, lettera personale che mette insieme il “ tu “ e l’Autore. Parlo, al contempo, con l’amico Matteo, compagno d’arme, e “vedo“ lo scrittore a modo mio .

Ho letto “ Casomai…” con immaginabile partecipazione e coinvolgimento, nel verde e nella quiete del mio “buco” cilentano . Bellissimo. Più che un libro, un “lavoro” dell’anima. È impresa ardua definire una antologia fatta di avvenimenti, persone, sentimenti, idee e valori, caposaldi e sintesi di un percorso lungo e impegnativo in circa duecento pagine connesse con l’immateriale ma robusto filo rosso proprio del DNA. Certo, sorregge l’esperienza dello scrittore non neofita e del giornalista di alta caratura, ma sempre impresa grande è. Il libro è opera notevole. Complimenti davvero. Sei bravo.

Penso che un libro non sia solo esercizio di buona scrittura; nel caso, leggera, lineare ma intensa, capace di parlare alla testa e al cuore e, soprattutto, di indurre nei lettori emozioni forti che intrecciano il tuo vissuto e le tue esperienze, in qualche occasione, anche con mie personali assonanze. Ne parleremo.

Anche se carente di specifici accreditamenti culturali e accademici”, mi permetto ritenere il testo non solo un originale intreccio di rimembranze indelebili ma anche espressione di significativa “cifra“ letteraria. Questa opinione ha radici in mio profondo convincimento. Consentimi una digressione. Poi ritorno alla tua opera.

Spesso nelle mie molte vite e nel mio lungo cammino che ha attraversato il secolo con oltre sessanta anni di “vita pubblica”, mi capita riscontrare come, da tante parti, alcune “categorie sono ancora considerate sulla base di stereotipi stagionati e stantii per cui un medico, un ingegnere, un giornalista stesso, non può essere portatore, per definizione, di altri profondi interessi e specificità culturali o artistiche . Nemmeno a parlare dei “sindacalisti. Nella vulgata una categoria prigioniera di angusti schemi e forti limiti culturali. È per molti esercizio difficile immaginare che possono anche esserci, gli esempi sono tanti, politici o sindacalisti come degli “intellettuali atipici (anche considerando le università, differenziate per livelli di responsabilità, di Frattocchie, di Ariccia e anche della Verna nel Casentino per i DC…), formatisi come lettori appassionati (io, come te ragazzo…) a 360°; di avere letto e riletto classici, controclassici, russi, americani, contemporanei o di altri mondi. Ne conosciamo tanti; per me Maestri, da Trentin a Peppino Vignola a Antonio Lombardi, ex operaio ma un pozzo vero di cultura, a Lama, a Foa, a Bodrato, a Mario Ciriaco, Geppino Castaldo e tanti altri…

Ed anch’io come te e altri, non sono ”dottore”: per quattro esami non sono laureto in Economia… ho anche qualche trenta sul libretto che conservo, matricola 3068, Università allora in via Partenope… La CGIL mi assorbiva al midollo, poi a Roma e poi nelle Istituzioni… sono stato anche a lungo componente il CdA della Federico II e dell’Orientale, ma non ho mai pensato di utilizzare la posizione… Un errore “storico”, comunque, anche di presunzione. Ma anch’io ho studiato e letto tanto; ancora oggi i libri sono la mia passione… L’ultimo comprato il 13 agosto a “ Iocisto “: il tuo…

Libri non soprammobili ma quali testimoni del tempo e suscitatori di pulsioni reali derivanti, appunto, da continue e attente letture; oltre duemila testi nelle librerie di casa (tutti letti, compresi “La leggenda di Thyl Ulenspiegel“ e “Don Chisciotte“ che ancora troneggiano nella libreria centrale; meno, confesso, qualche tomo del Capitale, della Storia d’Italia e dello stesso Lenin…); proprio stamane ho fatto l’inventario, dopo aver chiuso con il tuo testo, dei volumi che abbiamo nella libreria al “buco“ cilentano: 80. Sarebbero 81 con il tuo ma lo porto dietro a Napoli… Una galleria, da Saramago a Boll, a Fante, Starnone, Marai, Rea, Baricco, ecc. ecc.

Persone che leggono o capaci come te ed è bello ritrovare identità anche… operative di raccogliere non solo libri ma di catalogare documenti e articoli. Circa 1300 oltre i dispersi (dal primo intervento scritto a mano, nel 1962 per il convegno CGIL sui “Tecnici nella industria elettrica“ a Parma ad oggi) classificati per anni e per temi . Oppure essere interessato da sempre alla musica ed all’arte, visitando i musei del mondo, maggiori e minori, o di dedicare le vacanze della estate 2019 alle città d’arte, grandi e piccole, della ex Germania Est o Polonia.

O di sostenere le arti visive, come ho fatto da rappresentante istituzionale, sostenendo l’Accademia, il Conservatorio e tanti giovani diventati nel tempo star internazionali della Foto d’Arte come Antonio Biasucci, Rafaela Mariniello, Gianni Fiorito e altri oggi assai noti o supportando mostre e aprendo la Mostra d’Oltremare agli allievi delle Belle Arti per la prima volta chiamati ad arredare il nuovo Palazzo dei Congressi con le loro opere scelte dai loro diretti Maestri. Esposizione pubblica meritata per giovani artisti.

Ancora: di avere battagliato con Luigi Compagnone (eravamo amici e mi ha passato tutti i suoi libri con dedica…) dalle colonne del “ Mattino “ per fare conoscere il capolavoro di Enzo Striano (Maestro di un giovanissimo Nando, accolto come cronista sportivo nella redazione dell’Unità, edizione Napoli),”Il resto di niente“, ignorato dalla cultura e dalla critica “ufficiale“, o anche le tante sollecitazioni pubbliche e private per John Fante, allora “milite ignoto“, oggi finalmente, ritrovato da tanti con Festival nel Molise dove nacque .

Tutto questo sproloquio è per farmi capire e per ribadire che pure senza essere, con il giusto rispetto, “accademicamente patentati “, ritengo possibile intervenire con qualche notazione di merito su un lavoro letterario o, come si è anche verificato, su alcune importanti mostre. Rientro in picchiata sul tuo libro.

Ecco, dico subito che il tuo lavoro, anche se con sintesi attenta che svela il giornalista di classe, esprime compiutamente la tua “identità“ complessiva e, insieme, le idealità e i valori che hanno radici solide e antiche e esaltanti (in primo luogo il Compagno Saul che, sai bene, stimavo molto ed al quale ero legato da affetto schietto ) e riesce a dare il senso di un percorso importante e impegnativo. Connota la “vita bella, intensa e appassionata“ (Luciano Lama) che emerge nella sua compiutezza dalle pagine nitide e dalla calibrata sequenza dei capitoli .Un film con colonna sonora di rara qualità e riscontro: la sincerità.

Quando un libro ti “prende“ e non si fa lasciare significa che “funziona“. E se funziona non è solo per i contenuti e temi non sorpassati ma di stringente attualità che propone e affronta con analisi dura ma anche pregna di umanesimo; suscita interesse in quanto è capace di innescare e donare emozioni .

Emerge la capacità di narrare, declinando al contempo ricordi, realtà, dolori, disincanto, riflessioni, esperienze positive o amare, con piena libertà intellettuale, politica e professionale; con la lievità di una scrittura trasparente e la forza della verità anche nel rivivere e proporre situazioni e passaggi di peso strategico e politico rilevante .

È questa tonica “leggerezza dell’essere“, da scrittore autentico per dirla con Kundera, che rende possibile proporre fatti e situazioni complesse, difficili, scomode, con la serena consapevolezza di contribuire alla conoscenza della verità: su tutto e tutti, avvenimenti, uomini, partiti .

I capitoli si presentano come gouaches che con colori, intensità e sfumature diverse, raccontano le “tue“ storie“ fatte di persone vicine o lontane, personalità autorevoli o semplici compagni e amici, cardini di una vita in prima linea, dalla Sezione Lenin alle redazioni, da giovane cronista precario e speranzoso alle responsabilità della direzione; dalla lotta politica anche sorda e ambigua, nel PCI sulle “liste di lotta“; dal positivo e poi conflittuale e difficile percorso di “Paese Sera” alla “emigrazione verso Sud “, alla “marcia“ di Reggio Calabria contro la criminalità e a sostegno delle Istituzioni.

Sfilano e si intrecciano in controluce ma con nette connotazioni, schizzi che interpretano con rigore intellettuale passaggi e momenti di vita vissuta e protagonisti e partecipi della “storia” personale dell’Autore: il ragazzo bocciato; Chiaromonte, sempre netto nelle posizioni, un dirigente politico da riconsiderare; Berlinguer, Napolitano, Gava con il riconoscimento e rispetto reciproco della valenza culturale e politica; Nonno con i suoi tardivi tormenti per il dramma di Giancarlo Siani; Mimmo Maresca vittima della solitudine politica; Pino, il “torinese“ e poi Luigi Vicinanza, Antonio Polito, Enzo d’Errico, Nora Puntillo, punte di diamante della valida “Scuola di giornalismo “ nata nelle redazioni napoletane dell’Unità e di Paese Sera.

Una galleria dove c’è anche Michele Santoro che deve tanta parte del suo successo alla incapacità dimostrata di potere essere un valido dirigente politico o direttore di giornale. La “punizione” da parte del PCI della Campania (ero, all’epoca, membro della segreteria) di… trasferirlo a Rai3 fu la sua fortuna insieme alla sua intuizione che era tempo del giornalismo tv di assalto più che di inchiesta.

Oltre la eccellenza narrativa e la cifra letteraria è da sottolineare la valenza culturale e politica del contributo alla verità che “Caso mai avessi dimenticato” apporta con assoluta nettezza critica alla comprensione di talune vicende “storiche“ che hanno investito il PCI della Campania. Lo stile narrativo dell’Autore declina con eleganza e senza infingimenti, le tensioni e le torsioni del gruppo dirigente del PCI napoletano e campano su tanti punti focali, togliendo impietosamente il velo agli opportunismi personali o del partito nel suo insieme. L’Autore ha il merito di non fare sconti; espone lasciando il giudizio al lettore.

Sono le questioni relative a Zangrandi-Badoglio-Palermo; di Francesco De Martino e Giulio; l’etica e la pulizia politica e morale di personalità come Chiaromonte, Mola e Amodio; il PCI e la Lega Cooperative; la storia dolorosa di Paese Sera e il Berlinguer che risponde a Cosenza ma appare in pantofole come celebrato da nota vignetta e altro.

Senza usare l’accetta ma con colpi precisi e secchi di fioretto come nel suo stile, Matteo Cosenza punta episodi, persone e dirigenti del PCI proponendoli nella loro a volte disperante realtà fatta di un mix di opportunismo e pseudo-rigorismo di facciata che insacca e ingabbia i problemi eludendoli e, dunque, aggravandoli e non risolvendoli.

Un lavoro importante, un libro dai pensieri schietti, tutto da leggere. Un romanzo di formazione, ma atipico e particolare in quanto interseca e intreccia il vissuto dell’Autore e un mondo di “infiniti mondi“: adolescenza, militanza, lotta politica, emigrazione, giornalismo, responsabilità istituzionali, cultura, società, Famiglia. Che non è ultima ma prima nella scala di valori di Matteo Cosenza. Lo dimostrano e confermano i richiami commossi al “Compagno Saul “, alla Madre, ad Anna compagna di una vita, la dedica ai nipoti. Cioè ai giovani perché abbiano e conservino memoria delle radici. Un libro anche per i giovani, da portare e leggere nelle scuole: per discutere e capire.

Ha ragione, dunque, Enzo d‘Errico nella fascinosa, essenziale eppure corposa prefazione quando scrive: «Immagino sia vicino il giorno in cui un ragazzo comincerà a sfogliare le pagine del libro e ne verrà rapito».

Recensione in forma di lettera ricevuta il 31 agosto 2020

* Nando Morra nella foto

Matteo e noi ragazzi di via Cervantes

di PROCOLO MIRABELLA

Consiglio a tutti la lettura dell’ultimo bel libro di Matteo Cosenza “Casomai avessi dimenticato”. Giornalista di razza qual è sempre stato Cosenza, Matteo, come per me e per gli amici e i colleghi che hanno avuto la fortuna di incrociarlo nella vita e nel lavoro è affettuosamente e inequivocabilmente sempre stato chiamato, lo riconosci nell’incedere della narrazione. Leggi e senti la voce rotonda e intelligentemente sorniona, ironica, mai banale, appassionata a tratti sinceramente commossa di Matteo che racconta e ti fa ricordare. Naturalmente, non voglio minimamente entrare nei contenuti, negli spunti, tanti, politici, storici, giornalistici, sociali che l’amarcord della sua vita professionale propone al lettore. No. Voglio rimanere sull’onda delle emozioni che la narrazione ti, o quantomeno, mi smuove dentro. E qui posso garantire che lo scossone c’è tutto. Un salto nel tempo che il titolo preannuncia e nel quale chi legge viene catapultato, come in un velocissimo ed efficacissimo flash back. Mi fermo qui per non rovinare la sorpresa di chi leggerà. Ma non senza qualche ultima notazione e qualche ricordo personale che voglio dedicare io a Matteo. 

Innanzitutto, un doveroso riconoscimento all’amico, collega e mio primo direttore alla “Voce della Campania”: perché ,quasi certamente, senza di lui e senza l’iniziale apprendistato in quella specialissima palestra, la “Voce” appunto, ricordata da Matteo, giornalisti, io e tanti altri futuri bravi professionisti non saremmo mai stati. E infine qualche aneddoto, davvero personalissimo. Su tutti un episodio per cui Matteo mi ha sfottuto per anni. Io in verità non mi ricordo sia andata proprio così. Ma siccome era il direttore gliel’ho sempre fatta passare. Ero da pochissimo semifisso, semiabusivo come tutti i ragazzi di via Cervantes 55 nella redazione della Voce. Timidissimo, timorosissimo di sbagliare qualcosa. E un giorno Matteo mi fa: esco un attimo, vedi se squilla il telefono. Esce e quando torna mi chiede: allora? Ha squillato? Sì, gli rispondo. E chi era? Ah questo non lo so, avrei detto io all’incredulo direttore: mi hai chiesto di controllare se squillava, non di rispondere… Avendo preso più confidenza, qualche anno dopo, mi vendicai, e alla fine del pranzo che facevamo nella pausa del lavoro di tipografia in un ristorante vicino alla mitica “Arti grafiche Boccia”, a Pontecagnano, Salerno, dove si stampava il quindicinale, io e quello scapocchione di Marino Marquardt facemmo servire a Matteo il caffè condito col sale… ci voleva uccidere, prima che tutto finisse in una irrefrenabile risata collettiva. Erano quelli gli anni. Eravamo ragazzi. I ragazzi di via Cervantes 55. E grazie a Matteo per avercelo ricordato.

Noi ragazzi di via Cervantes

di GIUSEPPE IMPROTA

Le recenti presentazioni e le recensioni sui quotidiani del nuovo libro di Matteo Cosenza (Casomai avessi dimenticato, Rogiosi editore) hanno evidenziato l’impegno politico costante ed il contributo dato dall’autore, per alcuni decenni, al giornalismo di qualità campano e meridionale.

Un contributo sottolineato anche da diversi post apparsi su Facebook, dove Matteo, con interventi quasi quotidiani continua a farci apprezzare la sua fluida penna e lucida mente.

Nel suo post Procolo Mirabella si è soffermato, da ex redattore, sulla “creatura” fatta crescere e sviluppare da Matteo negli anni Settanta: la rivista La Voce della Campania. L’ex giornalista RAI per ricordare quei primi suoi anni di esperienza giornalistica presso il quindicinale napoletano ha premesso un simpatico titoletto, “Noi ragazzi di via Cervantes”, con riferimento alla strada che al n. 55 ed al 12° piano ospitava la sede della redazione. Un titoletto ricco di ricordi.

C’ero anch’io, infatti, tra quei “ragazzi”. Fresco di laurea, mentre completavo il servizio militare a Caserta, fui presentato a Matteo Cosenza da Giovanni Squame, allora segretario della sezione Pci di Ponticelli (la rivista, pur nella sua autonomia, era finanziata dal Pci).

Matteo, che proveniva da quell’esperienza politica nella Fgci di Castellammare efficacemente illustrata nel suo libro, accolse sempre con interesse ed attenzione ogni mia proposta. Mi occupai così del “dissenso cattolico”, della crisi e dei vari gruppi interni alla Dc, dei “Cristiani per il socialismo, delle comunità di base, della rivista “il tetto”…

Per me e per gli altri “ragazzi” La Voce della Campania fu una palestra di giornalismo. Ma anche un “cenacolo politico-culturale” (con esperienze ed età diverse), in cui insieme si scandagliava la società e la politica del tempo, andando al di là delle cronache politiche quotidiane. L’obiettivo era quello di dare un contributo di analisi e proposte alla società, alla Sinistra, al Pci.

Da qui indagini, inchieste, “speciali”, dibattiti, interviste… Come, per ricordarne qualcuna, la mia inchiesta in otto puntate sui “Gruppi”, partiti e movimenti extraparlamentari di quegli anni (la si può leggere sul mio sito www.giuseppeimprota.it), lo “speciale” sul ’68 a Napoli, l’inchiesta sul “Potere a Napoli”, utilizzata da Percy Allum nel suo capitolo per la “Storia della Campania” pubblicata dalla rivista a fascicoli (seguiranno la “Geografia della Campania” e “ Cultura materiale, arte e territorio in Campania”)…

Non posso elencare i vari collaboratori e redattori. Potrei ometterne qualcuno. Ricordo solo lo scomparso Ubaldo Grimaldi e le sue approfondite analisi del mondo della scuola, che gli permisero in breve di diventare consulente e collaboratore de Il Sole 24 Ore (due anni fa ne ho parlato nel mio libro L’amico preside Ubaldo, Il Quartiere edizioni).

Uno dei tanti bei risultati di cui, insieme con molto altro, può ben essere soddisfatto Matteo Cosenza!

Recensione pubblicata sul sito www.giuseppeimprota.it il 23 luglio 2020

Innamorato della Calabria

di FRANCO CIMINO

Per fare politica ci vuole passione. La passione è il fuoco che arde il corpo e accende gli occhi sugli ideali per i quali si darebbe la vita senza chiedere nulla in cambio. Per fare giornalismo ci vuole freddezza, forza fisica straordinaria, capacità di analisi dei fatti e di raccontarli per come sono avvenuti. Entrarci con decisione e dimorarvi il tempo necessario per cercare la verità oggettivabile e poi rapidamente uscirne per non confondersi con essi. Ci vuole costanza, spirito di sacrificio e ardore.
Per fare politica ci vuole immaginazione, forza di superamento della realtà, trasformazione della stessa, ricostruzione del reale, del già edificato, e costruzione dal reale, il reale “ impossibile”, cioè l’utopia. Ci vuole visione, la capacità cioè di vedere con la mente ciò che braccia collettive costruiranno. Per fare giornalismo occorre coraggio, anche quello della ricerca e disponibilità piena ad esporsi al rischio di qualsiasi natura.
Per fare politica occorre uscire dall’io per farsi noi, l’io con gli altri, camminare con compagni amici e sconosciuti nella stessa direzione e operare per il comune obiettivo. Per fare giornalismo occorre restare prevalentemente se stessi in quello spazio che a volte è tormento, avere la forza di resistere alla tentazione di farsi altro, figura estranea al proprio essere. O dipendere da un altro al soldo del quale stare.
Fare politica significa cercare la folla e parlarvi per ottenere il consenso, vivere una mezza vita dentro stanze in cui chiasso e fumo annebbiano la mente e impoveriscono i concetti. Fare giornalismo significa lavorare per gli altri a volte in solitudine, con lo sguardo sempre puntato sugli avvenimenti, il naso a fiutarli quando sono nascosti, e parlare solo con la macchina da scrivere e con i fogli da annerire, di inchiostro e fumo.
Matteo Cosenza voleva fare l’uno e l’altro. Infatti ha iniziato a fare quasi contemporaneamente( aveva quattordici anni appena) le due cose, che erano o sembravano, e di certo lo sono, incompatibili.
Era giovanissimo quando Matteo dovette scegliere. Scelse il giornalismo, forse perché tra le due attività consentiva di portare più sicuramente il pane a casa, quella che si sarebbe costruito nell’amore, e farsi presto un mestiere. Ovvero per la curiosità e la forza della ricerca, per uscire da Castellammare di Stabia, la sua radice più profonda mai recisa, e tuffarsi nel mondo. Scelse il giornalismo, di certo, perché la sete di giustizia e la battaglia per il riscatto dei deboli e l’affermazione di una società pienamente democratica, egli pensava di poterla meglio meglio esprimere attraverso la carta stampata.
E se la scelta l’avesse compiuta per rompere il cordone “ombelicale” con un padre capolavoro, grande quanto il suo corpo e la fatica di operaio in fabbrica e di militante comunista ricco di purezza infantile e di intelligenza saggia e profonda, quel compagno Saul, padre aperto, rigoroso e dolce, maestro di libertà e autodeterminazione? Chi può dirlo? Forse, Matteo, più esplicitamente, in questa terza fase della sua vita, quella del pensamento, della interrogazione profonda, delle risposte coraggiose, finalmente liberate.
Matteo fa la scelta più dolorosa, quindi, si separa dal partito, il corpo del suo corpo. Allora il partito era totalizzante. Lo era per tutte le militanze, lo era in assoluto per quella nel PCI. Il partito era compagno e padre, generale in battaglia, maestro di formazione. Era il pane duro e malfermo e falce per tagliare il grano nuovo, martello sul ferro da trasformare. Era libro, quel libro, in cui c’era la verità o la ricetta per raggiungerla, una e una sola. Era anche i primi libri, quelli che Matteo ragazzo, costretto da una lunga malattia a non star fuori, trovò in casa e lesse freneticamente divorandoli, una alla volta senza mai saziarsene. Dai primi “giornalini”, pochi fogli ciclostilati con il ciclostile della sezione del partito e poi nella prima tipografia quando l’impresa “ individuale” incomincia a prendere corpo insieme alla passione, a riviste più importati per approdare a Paese Sera, il quotidiano con il quale il PCI cercava di parlare a una platea progressivamente più vasta. Seguì la lunga e straordinaria esperienza al Mattino, lo storico quotidiano di Napoli per poi approdare, come finale di corsa professionale, alla direzione de Il Quotidiano della Calabria, dove diede una svolta significativa al purtroppo debole sistema d’informazione e una grande lezione di giornalismo, e di “ giornalismo politico” , purtroppo disattesa, anche nelle tre tracce che egli, dopo un decennio di esaltanti battaglie, ha lasciato impresse.
La prima, avere cura e difendere i beni più preziosi di questa terra, inaridita ma piena di frutti non colti, desertica ma ricca di beni coperti nel suolo riammantato. Lo stabiese di Napoli mette insieme, pur distanziandoli giornalisticamente, Saverio Strati, il grande scrittore abbandonato e dimenticato nella povertà estrema, e la Sibari sepolta nel fango di terra e acqua e dell’ignoranza colpevole di una politica malata e di una società insensibile. La seconda, cercare la verità come momento essenziale per contrastare un potere cinico, arrogante, connivente con il male. Prende a simbolo il capitano della Marina De Grazia di Amantea, che si batteva contro le navi dei veleni nel nostro mare, la cui morte strana rafforza più di un sospetto circa i veri motivi che quella morte hanno provocato.
E, ancora, la necessità di sostenere le donne di ‘ndrangheta, che hanno denunciato, alcune pagando con la vita, gli uomini della propria famiglia malavitosa. L’intento recondito del direttore era anche quello di aprire la via dell’unità delle donne calabresi per costruire, loro protagoniste, una società nuova, tutta orientata alla difesa della pienezza della vita, senza la quale non potrà mai esserci crescita civile ed economia. Su questa scia, fatti di Duisburg, nella mattanza delle contrapposte famiglie di San Luca, a parte, la terza traccia, la più importante. Essa ha un nome che dice tutto: la marcia dei quarantamila contro le mafie, svoltasi a Reggio Calabria, sabato 25 settembre, 2010. C’ero anch’io e me la ricordo bene. Mai vista una cosa simile dalle nostre parti. C’era la migliore gente della nostra terra, pur se se a sfilarle accanto, come ben ricorda Cosenza, c’era la “ mafia” in doppiopetto e la mafia dell’antimafia, mi permetto di aggiungere.
Matteo, dunque fa questa scelta e la veste di sé per tutto il tempo a venire, la macchina da scrivere e le gambe per cercarsi la notizia. Camminando sempre verso la verità o le verità, che erano dentro un fatto, sebbene egli, intellettualmente, attraverso uno sguardo sociologico attento sulla vita di relazione degli esseri umani, credesse che la verità sia il prodotto dalle azioni degli uomini e che queste siano determinate dalle condizioni materiali in cui vivono. E qui pulsa il cuore del politico, anzi del comunista. Del giovane che cercava il comunismo nelle lotte di classe del padre e dei compagni stabiesi.
Matteo Cosenza, ribaltando tutti gli stereotipi, compie, tra i pochi nella storia del giornalismo e della politica, il capolavoro di essere due cose in una sola persona, il politico e il giornalista.
Si badi bene, politica e giornalismo, con la e congiunzione, che lega e collega due forme separabili e non confondibili. Non la è verbo, che potesse confondere, mischiandole, l’una e l’altra. Lui non è mai stato politico e giornalista, magari sostituendo la congiunzione con il verbo.
Lo dimostra, a me lo dimostra, la sua esperienza calabrese. Io l’ho conosciuto da lontano, qualche mail e poche telefonate, le mie. Alcune di educato rimprovero, o di gentile consiglio, le sue, quando scrivevo molto, nel mio diletto protettivo di scrivere. E in continuazione quando, persa la mia “ tribuna politica” e il mio partito per il quale parlavo, la Democrazia Cristiana, per continuare a pensare alto e non impazzire di dolore per il nuovismo che avanzava sulle macerie della cosiddetta prima Repubblica, mi ero messo a scrivere. In verità, iniziai con l’ottimo suo predecessore Ennio Simeone, che mi incoraggiò molto. Matteo Cosenza mai mi chiese di accorciare i miei testi o di modularli secondo una determinata linea magari improntata alla prudenza. Ho da tempo in tasca la tessera di giornalista pubblicista. Sì, ce l’hanno in molti in Italia e in Calabria, ma io la sento forte vibrare nel portafogli perché, in qualche modo, da analista sociale, politologo o opinionista, questa vocazione io l’ho coltivata e rafforzata nel tempo. Se faccio bene o male, quel poco o molto che ho imparato, lo devo principalmente a Matteo Cosenza, il direttore.
Di lui mi colpirono subito lo spirito democratico e il rigore, la lucidità del pensiero e l’onestà radicata, la forza della scrittura e la eleganza quasi poetica del verso, il suo rispetto per la parola e lo studio severo della stessa. Mi colpirono la capacità di leggere i fatti oltre ciò che i fatti , quasi volutamente, qui in Calabria mostravano e la determinazione di andare a cercare, scavando nel monticciolo di centinaia di notizie piccole, la notizia nascosta, la più importante. Quella che altri non vedevano o non volevano vedere o che, addirittura, si facevano spostare dagli occhi, lui invece la trovava e la dava, così si dice, senza veli o filtri.
Appariva timido e riservato, discreto ed essenziale, a volte sbrigativo non tanto perché avesse mille cose da fare ma per evitare ridondanze, cerimonie e fronzoli. Il contrario del suo essere napoletano di Castellammare di Stabia. Un giorno venne a Marina di Catanzaro a tenere una conferenza nel Liceo dove insegnavo. Fu uno dei nostri migliori incontri con “docenze” esterne, non solo per la bella lezione svolta, ma per l’immagine piena di movimento dei ragazzi rimasti attentissimi incollati sulla sedia. Tutti catturati dal suo modo pacato e dolce di dire cose molto intense, a tratti dure, in cui i consigli che elargiva erano incastonati, come gemme, nei valori più alti della nostra Democrazia. Alla fine della giornata lo invitai a pranzo in un bel ristorante di pesce fresco, vicinissimo al mare. Il direttore era in compagnia della sua adorata Anna, “la compagna della mia vita”, donna dolce e premurosa.
Rivolto alla signora, pronunciai queste parole: “io amo molto, e di più stimo, questa bella persona, che vedo fisicamente per la seconda o terza volta oggi, perché è un uomo romantico, tenero, sensibile e delicato. Ama tutto ciò che è poesia. Di poesia parla quando dice e scrive della realtà che vede. E poesia scrive con i suoi articoli, in cui l’amore per la parola in ogni parola viene esaltato. Suo marito è una persona piena d’amore. Anche la fede nei suoi ideali è frutto del suo amore, così come le più accese passioni.”
Queste mie parole venivano da ciò che ho conosciuto in Matteo Cosenza. In particolare, il suo rapporto con la Calabria, le battaglie fatte in suo nome.
Il suo modo di raccontarla era da innamorato. E chi si innamora di una terra che non è la sua è un grande uomo. Dovevo scrivere del libro, ma ho finito con lo scrivere dell’autore. Me ne accorgo ora, dopo la fatica compiuta di sera sul tardi. E la stanchezza che mi prende. Un errore? Una sbadataggine? Un andare fuori traccia, come si rimprovera agli studenti? No, nulla di tutto questo. Quel Matteo è in questo libro. C’è quasi tutto di lui lì dentro. Un libro bellissimo, che si legge tutto d’un fiato. Che va letto senza alcuna anticipazione che lo disturbi. Io ne ho scritto lungamente non per lui o per chi mi leggerà. Ne ho scritto per me, casomai dimenticassi la grandezza di quest’uomo e le sue lezioni che dovrei avere imparato.

Recensione pubblicata su “La Nuova Calabria” l’11 agosto 2020