di FRANCO CIMINO

Per fare politica ci vuole passione. La passione è il fuoco che arde il corpo e accende gli occhi sugli ideali per i quali si darebbe la vita senza chiedere nulla in cambio. Per fare giornalismo ci vuole freddezza, forza fisica straordinaria, capacità di analisi dei fatti e di raccontarli per come sono avvenuti. Entrarci con decisione e dimorarvi il tempo necessario per cercare la verità oggettivabile e poi rapidamente uscirne per non confondersi con essi. Ci vuole costanza, spirito di sacrificio e ardore.
Per fare politica ci vuole immaginazione, forza di superamento della realtà, trasformazione della stessa, ricostruzione del reale, del già edificato, e costruzione dal reale, il reale “ impossibile”, cioè l’utopia. Ci vuole visione, la capacità cioè di vedere con la mente ciò che braccia collettive costruiranno. Per fare giornalismo occorre coraggio, anche quello della ricerca e disponibilità piena ad esporsi al rischio di qualsiasi natura.
Per fare politica occorre uscire dall’io per farsi noi, l’io con gli altri, camminare con compagni amici e sconosciuti nella stessa direzione e operare per il comune obiettivo. Per fare giornalismo occorre restare prevalentemente se stessi in quello spazio che a volte è tormento, avere la forza di resistere alla tentazione di farsi altro, figura estranea al proprio essere. O dipendere da un altro al soldo del quale stare.
Fare politica significa cercare la folla e parlarvi per ottenere il consenso, vivere una mezza vita dentro stanze in cui chiasso e fumo annebbiano la mente e impoveriscono i concetti. Fare giornalismo significa lavorare per gli altri a volte in solitudine, con lo sguardo sempre puntato sugli avvenimenti, il naso a fiutarli quando sono nascosti, e parlare solo con la macchina da scrivere e con i fogli da annerire, di inchiostro e fumo.
Matteo Cosenza voleva fare l’uno e l’altro. Infatti ha iniziato a fare quasi contemporaneamente( aveva quattordici anni appena) le due cose, che erano o sembravano, e di certo lo sono, incompatibili.
Era giovanissimo quando Matteo dovette scegliere. Scelse il giornalismo, forse perché tra le due attività consentiva di portare più sicuramente il pane a casa, quella che si sarebbe costruito nell’amore, e farsi presto un mestiere. Ovvero per la curiosità e la forza della ricerca, per uscire da Castellammare di Stabia, la sua radice più profonda mai recisa, e tuffarsi nel mondo. Scelse il giornalismo, di certo, perché la sete di giustizia e la battaglia per il riscatto dei deboli e l’affermazione di una società pienamente democratica, egli pensava di poterla meglio meglio esprimere attraverso la carta stampata.
E se la scelta l’avesse compiuta per rompere il cordone “ombelicale” con un padre capolavoro, grande quanto il suo corpo e la fatica di operaio in fabbrica e di militante comunista ricco di purezza infantile e di intelligenza saggia e profonda, quel compagno Saul, padre aperto, rigoroso e dolce, maestro di libertà e autodeterminazione? Chi può dirlo? Forse, Matteo, più esplicitamente, in questa terza fase della sua vita, quella del pensamento, della interrogazione profonda, delle risposte coraggiose, finalmente liberate.
Matteo fa la scelta più dolorosa, quindi, si separa dal partito, il corpo del suo corpo. Allora il partito era totalizzante. Lo era per tutte le militanze, lo era in assoluto per quella nel PCI. Il partito era compagno e padre, generale in battaglia, maestro di formazione. Era il pane duro e malfermo e falce per tagliare il grano nuovo, martello sul ferro da trasformare. Era libro, quel libro, in cui c’era la verità o la ricetta per raggiungerla, una e una sola. Era anche i primi libri, quelli che Matteo ragazzo, costretto da una lunga malattia a non star fuori, trovò in casa e lesse freneticamente divorandoli, una alla volta senza mai saziarsene. Dai primi “giornalini”, pochi fogli ciclostilati con il ciclostile della sezione del partito e poi nella prima tipografia quando l’impresa “ individuale” incomincia a prendere corpo insieme alla passione, a riviste più importati per approdare a Paese Sera, il quotidiano con il quale il PCI cercava di parlare a una platea progressivamente più vasta. Seguì la lunga e straordinaria esperienza al Mattino, lo storico quotidiano di Napoli per poi approdare, come finale di corsa professionale, alla direzione de Il Quotidiano della Calabria, dove diede una svolta significativa al purtroppo debole sistema d’informazione e una grande lezione di giornalismo, e di “ giornalismo politico” , purtroppo disattesa, anche nelle tre tracce che egli, dopo un decennio di esaltanti battaglie, ha lasciato impresse.
La prima, avere cura e difendere i beni più preziosi di questa terra, inaridita ma piena di frutti non colti, desertica ma ricca di beni coperti nel suolo riammantato. Lo stabiese di Napoli mette insieme, pur distanziandoli giornalisticamente, Saverio Strati, il grande scrittore abbandonato e dimenticato nella povertà estrema, e la Sibari sepolta nel fango di terra e acqua e dell’ignoranza colpevole di una politica malata e di una società insensibile. La seconda, cercare la verità come momento essenziale per contrastare un potere cinico, arrogante, connivente con il male. Prende a simbolo il capitano della Marina De Grazia di Amantea, che si batteva contro le navi dei veleni nel nostro mare, la cui morte strana rafforza più di un sospetto circa i veri motivi che quella morte hanno provocato.
E, ancora, la necessità di sostenere le donne di ‘ndrangheta, che hanno denunciato, alcune pagando con la vita, gli uomini della propria famiglia malavitosa. L’intento recondito del direttore era anche quello di aprire la via dell’unità delle donne calabresi per costruire, loro protagoniste, una società nuova, tutta orientata alla difesa della pienezza della vita, senza la quale non potrà mai esserci crescita civile ed economia. Su questa scia, fatti di Duisburg, nella mattanza delle contrapposte famiglie di San Luca, a parte, la terza traccia, la più importante. Essa ha un nome che dice tutto: la marcia dei quarantamila contro le mafie, svoltasi a Reggio Calabria, sabato 25 settembre, 2010. C’ero anch’io e me la ricordo bene. Mai vista una cosa simile dalle nostre parti. C’era la migliore gente della nostra terra, pur se se a sfilarle accanto, come ben ricorda Cosenza, c’era la “ mafia” in doppiopetto e la mafia dell’antimafia, mi permetto di aggiungere.
Matteo, dunque fa questa scelta e la veste di sé per tutto il tempo a venire, la macchina da scrivere e le gambe per cercarsi la notizia. Camminando sempre verso la verità o le verità, che erano dentro un fatto, sebbene egli, intellettualmente, attraverso uno sguardo sociologico attento sulla vita di relazione degli esseri umani, credesse che la verità sia il prodotto dalle azioni degli uomini e che queste siano determinate dalle condizioni materiali in cui vivono. E qui pulsa il cuore del politico, anzi del comunista. Del giovane che cercava il comunismo nelle lotte di classe del padre e dei compagni stabiesi.
Matteo Cosenza, ribaltando tutti gli stereotipi, compie, tra i pochi nella storia del giornalismo e della politica, il capolavoro di essere due cose in una sola persona, il politico e il giornalista.
Si badi bene, politica e giornalismo, con la e congiunzione, che lega e collega due forme separabili e non confondibili. Non la è verbo, che potesse confondere, mischiandole, l’una e l’altra. Lui non è mai stato politico e giornalista, magari sostituendo la congiunzione con il verbo.
Lo dimostra, a me lo dimostra, la sua esperienza calabrese. Io l’ho conosciuto da lontano, qualche mail e poche telefonate, le mie. Alcune di educato rimprovero, o di gentile consiglio, le sue, quando scrivevo molto, nel mio diletto protettivo di scrivere. E in continuazione quando, persa la mia “ tribuna politica” e il mio partito per il quale parlavo, la Democrazia Cristiana, per continuare a pensare alto e non impazzire di dolore per il nuovismo che avanzava sulle macerie della cosiddetta prima Repubblica, mi ero messo a scrivere. In verità, iniziai con l’ottimo suo predecessore Ennio Simeone, che mi incoraggiò molto. Matteo Cosenza mai mi chiese di accorciare i miei testi o di modularli secondo una determinata linea magari improntata alla prudenza. Ho da tempo in tasca la tessera di giornalista pubblicista. Sì, ce l’hanno in molti in Italia e in Calabria, ma io la sento forte vibrare nel portafogli perché, in qualche modo, da analista sociale, politologo o opinionista, questa vocazione io l’ho coltivata e rafforzata nel tempo. Se faccio bene o male, quel poco o molto che ho imparato, lo devo principalmente a Matteo Cosenza, il direttore.
Di lui mi colpirono subito lo spirito democratico e il rigore, la lucidità del pensiero e l’onestà radicata, la forza della scrittura e la eleganza quasi poetica del verso, il suo rispetto per la parola e lo studio severo della stessa. Mi colpirono la capacità di leggere i fatti oltre ciò che i fatti , quasi volutamente, qui in Calabria mostravano e la determinazione di andare a cercare, scavando nel monticciolo di centinaia di notizie piccole, la notizia nascosta, la più importante. Quella che altri non vedevano o non volevano vedere o che, addirittura, si facevano spostare dagli occhi, lui invece la trovava e la dava, così si dice, senza veli o filtri.
Appariva timido e riservato, discreto ed essenziale, a volte sbrigativo non tanto perché avesse mille cose da fare ma per evitare ridondanze, cerimonie e fronzoli. Il contrario del suo essere napoletano di Castellammare di Stabia. Un giorno venne a Marina di Catanzaro a tenere una conferenza nel Liceo dove insegnavo. Fu uno dei nostri migliori incontri con “docenze” esterne, non solo per la bella lezione svolta, ma per l’immagine piena di movimento dei ragazzi rimasti attentissimi incollati sulla sedia. Tutti catturati dal suo modo pacato e dolce di dire cose molto intense, a tratti dure, in cui i consigli che elargiva erano incastonati, come gemme, nei valori più alti della nostra Democrazia. Alla fine della giornata lo invitai a pranzo in un bel ristorante di pesce fresco, vicinissimo al mare. Il direttore era in compagnia della sua adorata Anna, “la compagna della mia vita”, donna dolce e premurosa.
Rivolto alla signora, pronunciai queste parole: “io amo molto, e di più stimo, questa bella persona, che vedo fisicamente per la seconda o terza volta oggi, perché è un uomo romantico, tenero, sensibile e delicato. Ama tutto ciò che è poesia. Di poesia parla quando dice e scrive della realtà che vede. E poesia scrive con i suoi articoli, in cui l’amore per la parola in ogni parola viene esaltato. Suo marito è una persona piena d’amore. Anche la fede nei suoi ideali è frutto del suo amore, così come le più accese passioni.”
Queste mie parole venivano da ciò che ho conosciuto in Matteo Cosenza. In particolare, il suo rapporto con la Calabria, le battaglie fatte in suo nome.
Il suo modo di raccontarla era da innamorato. E chi si innamora di una terra che non è la sua è un grande uomo. Dovevo scrivere del libro, ma ho finito con lo scrivere dell’autore. Me ne accorgo ora, dopo la fatica compiuta di sera sul tardi. E la stanchezza che mi prende. Un errore? Una sbadataggine? Un andare fuori traccia, come si rimprovera agli studenti? No, nulla di tutto questo. Quel Matteo è in questo libro. C’è quasi tutto di lui lì dentro. Un libro bellissimo, che si legge tutto d’un fiato. Che va letto senza alcuna anticipazione che lo disturbi. Io ne ho scritto lungamente non per lui o per chi mi leggerà. Ne ho scritto per me, casomai dimenticassi la grandezza di quest’uomo e le sue lezioni che dovrei avere imparato.

Recensione pubblicata su “La Nuova Calabria” l’11 agosto 2020