Non mi aveva convinto. So che lo scrittore ha licenza di osare, ma Bussi ha osato fino all’inverosimile, miscelando tempi e persone, luoghi e fatti con una disinvoltura molto evidente al primo impatto. Un’operazione ardita, quasi temeraria, quella, dopo ventisette secoli, di rimettere Ulisse in navigazione, di giocare con il suo genio multiforme, con la sua astuzia proverbiale, con la sua sete insaziabile di conoscenza, con la sua “mente colorata”. Un modo per rispondere a una domanda sottintesa: che cosa farebbe oggi se fosse ancora tra noi? che cosa tenterebbe di scoprire e conoscere in un mondo così profondamente mutato? rimpiangerebbe il suo, di mondo, o si troverebbe a suo agio nel nostro? E sarebbe anche un modo per proseguire la ricerca, mai conclusa, dell’Ulisse che è in ognuno di noi.

Poi l’ho riletto. Ma prima mi ha aiutato Pietro Citati con una pagina di grande profondità, come tante delle sue, che leggo con voi: «Come fare allora per capire l’Odissea? Dobbiamo capirla perché comprenderla significa comprendere l’Occidente, la Grecia, noi stessi. Ci sono due strade. La prima è quella che da tempo i migliori studiosi di oggi stanno seguendo. Come ogni grande libro, l’Odissea è un sistema di relazioni, dove le scene si illuminano a vicenda, i temi e le immagini ritornano o si oppongono o si rispecchiano; e non c’è niente di meglio che paragonare tra loro queste scene. Ognuna di esse illumina l’altra. La seconda strada è più ardua e può portare a fraintendimenti. Ma dobbiamo percorrerla se non vogliamo capire troppo poco. Noi tutti possediamo quella che si chiama “immaginazione oggettiva”. Bisogna leggere un testo, e poi rileggerlo, e poi rileggerlo ancora e ancora, fino a quando siamo completamente penetrati dentro di esso, diventando il “secondo Omero” sebbene il nostro corpo resti qui, in bilico tra l’anno duemila e il duemilauno (è il tempo in cui Citati scriveva queste cose). Allora – così continua – noi siamo Penelope, Ulisse, Polifemo: nessuna delle loro sensazioni e dei loro sentimenti ci sfugge. Come diceva Musil, esiste anche un’esattezza dell’anima».

Ecco, la rilettura, accurata come può esserla una seconda lettura, del libro di Bussi ha stimolato la mia “immaginazione oggettiva” e mi ha convinto che lui abbia fatto altrettanto, ma non una sola volta, prima di accingersi a questa impresa, sottolineo ardita, e poi di raccontarcela estraendo il buon vino da una vigna ben governata. Perché dietro questo “Ulisse e il cappellaio cieco” c’è una ricerca accurata, certamente antica, a partire dalle due opere di Omero e, anche, dall’Eneide di Virgilio, a memoria dei nostri anni scolastici, ma approfondita e rielaborata con puntualità e precisione. I rimandi sono chiari ed evidenti e sono sapientemente utilizzati per il racconto del nuovo viaggio.

Bussi gioca con la materia per piegarla al suo disegno. Si appella addirittura a Zeus perché incarichi Minerva di scendere su Itaca e convincere Ulisse a lasciare Penelope, il cui silenzio varrà più di un divorzio, Telemaco, che dovrà governare al suo posto, i suoi uomini e la sua terra. Decisione discutibile, considerato che il suo quotidiano lavoro di re per quanto alla lunga noioso era consono a uno che era tornato, dopo la distruzione di Troia, da un pellegrinaggio tumultuoso e tempestoso di dieci anni nel grande mare e che come primo compito, una volta a Itaca, aveva dovuto eliminare i Proci che avevano profanato la casa e insidiato sua moglie. 

Ma gli dei, guarda un po’ che si inventa Bussi, non comprendono quanto sta succedendo nel Mediterraneo e pretendono che lui vada a trovare per loro spiegazioni convincenti. Per aiutarlo gli mettono al fianco un vecchio cappellaio, cieco come Omero, che, a differenza del capostipite della letteratura occidentale che presumibilmente narrava fatti avvenuti, ha in un cappello la dote di guardare ciò che altri non vedono, vale a dire il futuro. Questi ha un nome simbolico, Yanis Varoufakis, che ha qualche familiarità con l’ex ministro greco tant’è che Bussi, ove mai ci fosse stato qualche dubbio, nella tappa di Cartagine, costringe Didone a chiedere: «ma è un economista?», e fa rispondere a Ulisse: «non lo è, eppure ha capacità straordinarie alle quali non riesco ad attribuire un nome ed un significato».

Ritorna, dunque, Ulisse, sui luoghi del poema omerico. Fa tappa a Lesbo, a Siracusa, a Ischia, a Napoli, si ferma alle Eolie, infine a Cartagine, poi, prima di attraversare finalmente le colonne d’Ercole, dove lo lasceremo, si ferma per una notte d’amore ritrovato con Calipso a Ogigia. Che cosa vede e scopre? Quello che è davanti ai nostri occhi o schermi quotidiani: guerre, popolazioni che emigrano dalla fame e dai conflitti verso la speranza di pane e serenità, uomini malvagi che sfruttano masse di diseredati, i veleni che infettano mare, terra e aria, i valori di una civiltà (l’Ellade che sta per l’Europa) in crisi e insidiati da ogni parte. C’è anche il riferimento al diavolo della finanza a partire da un albero, il tasso, che accarezza il profilo delle isole greche e le cui bacche rosse sono velenose, ma il tasso è anche un animale che l’uomo non riesce ad ingabbiare come i sovrani che tentano di irreggimentare i popoli, ed infine, si fa per dire, è anche uno strumento della finanza che può soffocare i popoli medesimi. Resta impressa nella memoria l’immagine dei cadaveri di migranti dalla pelle non bianca che al largo della costa asiatica si confondono con il luccichio delle onde. Migranti che ritroviamo anche dalle parti dello Stretto, tra Scilla e Cariddi, mostri non più immaginari, che «li obbligano a spezzarsi la schiena per poche dracme l’ora». 

Insomma l’oggi. Ulisse, con la sua vecchia per quanto possente nave, procede, come ai tempi di Omero, con la sola forza del vento e dei remi che affondano in acqua, ma osserva il Mediterraneo che vediamo noi e ci trasferisce, con le sue domande senza risposte, più che la voglia di conoscere, la paura che vada a finire male. E anche quando, consigliato da Didone, si avvia oltre lo Stretto di Gibilterra sulle orme dei tanti, anche “il mercante siriano York”, che l’hanno già fatto per raggiungere la nuova città che sta dall’altra parte del mare, non ci dice che cosa trova ma si accomiata da noi senza spiegazioni. 

Ora, comprendete benissimo perché all’inizio ho parlato di operazione ardita e temeraria e della licenza di osare che ha lo scrittore. Ma può farlo se lo scopo è «capire che cosa sta sconvolgendo il grande mare e ricercarne le cause». Anche mischiando le carte e confondendo l’ieri remoto e l’oggi incombente. La chiave di questo lavoro, che, ricordiamolo, è un romanzo, l’ho trovata a pagina 56 nelle parole che Bussi mette in bocca al “vedente cieco”: «Ecco la necessità del racconto, per riannodare i fili tra passato e presente nel tentativo di leggere il futuro che ci attende. Senza il racconto ogni tentativo risulterà vano, perché in esso riverseremo il nostro pensiero di affidare a quanti dopo di noi avranno la possibilità di leggerci… Quest’impresa travalica il normale… Ulisse, per poter raccontare, dobbiamo prima raccontarci».

Bussi fa correre a Ulisse il rischio che brutalmente Penelope aveva rinfacciato al marito pronto a lasciarla di nuovo: «Ti stai inoltrando in un’avventura dalla quale non caverai un ragno dal buco». E forse alla fine la fedele e infelice moglie avrà anche ragione.

Infine, una confessione personale. Credo proprio nel periodo in cui Raffaele stava immaginando se non già realizzando questo romanzo, avevo avuto a che fare con Ulisse. Ai primi di luglio del 2016 ero nella mia isola greca prediletta, Cefalonia, dalle parti di Poros. Pubblicai su Facebook una foto in cui si vedeva sullo sfondo Itaca. Il carissimo amico e collega, Luigi Necco, che ho avuto anche la fortuna di avere come vicino di pianerottolo, commentò e da lontano si sviluppò un dialogo tra di noi. Lui mi chiese: «A proposito, l’hai vista la “tomba di Ulisse”? Ci sto scrivendo un librettino…». Io a mia volta: «Me lo dicesti, ma non ricordo: dov’è, in base alle tue ricerche? Porto Ateras?». Mi rispose: «A Poros. Ho costretto a farci un sopralluogo anche Bruno d’Agostino, l’Itacese, che ha confermato: tomba regale… ma di duecento anni più antica del necessario… C’è un particolare curiosissimo. Vediamo se qualcuno te lo fa notare, perché se no, al ritorno ti farò mangiare le mani…». 

Andammo, io e Anna, ma la trovammo chiusa. Ritornammo cinque giorni dopo e la visitammo. Pubblicai le foto precedute da questo testo: «Caro Luigi, ritornando sulla conversazione di lunedì scorso sulla presunta tomba di Ulisse a Poros che non potemmo visitare perché chiusa, oggi l’abbiamo vista. Tu scrivesti di un particolare che avremmo dovuto scoprire o farci raccontare. Non ci siamo riusciti. Forse è la forma a cupola? O l’impianto a dolmen: camera singola a sette sepolture? Svela il mistero e, visto che stai per pubblicare un libretto sull’argomento, puoi anticipare qualche conclusione?». E lui: «Caro Matteo, il segreto è tutto lì, in quel particolare… sul quale fonda il libretto che sto scrivendo. Ne ho discusso a lungo (ho la registrazione) con lo scopritore. Leggerai, leggerai, porta pazienza». Con lo scopo non recondito di conoscere questo segreto lo ebbi a cena in una serata indimenticabile allietata da un fresco Ribolla che gli avevo promesso. Parlò di tutto ma non volle svelare il mistero. Purtroppo, non ha avuto il tempo di pubblicare quel libretto e chissà che la figlia 

Alessandra

non abbia trovato gli appunti se non il manoscritto tra le sue carte o la registrazione di cui parlava il papà.

Perché ho ricordato questo episodio, capirete, a me molto caro? Perché in quei giorni Raffaele lesse, ora comprendo con quale curiosità, lo scambio tra me e Necco. Poi in una telefonata accennò alla tomba. E leggendo il suo libro mi sono chiesto e gli chiedo se, tra spunti e motivi, non ci sia anche il fatto che Ulisse non abbia una tomba. Di sicuro non l’hanno trovata nella sua Itaca e dubbi consistenti permangono sulla tomba di Poros, che, mi fido di Necco, non era la sua. Ulisse, a ben vedere, non ha ancora una tomba: non è mai morto. Raffaele, quindi, lo ha riportato in mare, nel suo mare, per fargli fare il suo mestiere: scoprire, conoscere, sapere. Il grande tema del suo fascino, la sua immortalità. E cosa poteva spingerlo a fare se non tentare di svelare, in un mondo che sa tutto su tutto, le ragioni dei nostri mali, delle sofferenze, delle tensioni, degli scontri, delle guerre, delle tragedie? Ulisse lascia la scena per andare verso l’ignoto. Ma non sapremo mai se anche questa volta non è morto. Lo scrittore avrebbe potuto osare l’impossibile: Ulisse che imbraccia l’arco e elimina i Proci del nostro tempo.

Mio intervento alla presentazione del libro “Ulisse e il cappellaio cieco” di Raffaele Bussi a Castellammare il 16 ottobre 2019