Lì dove il mare è già profondo, a trecento metri da dove sto seduto su una comoda sdraio, furono trovati i Bronzi. Neanche Luna riusciva a distrarmi mentre guardavo in quel punto e quel pensiero mi accompagnava dolcemente. Cercavo di immaginare l’emozione che provò Stefano Mariottini, il sub romano che li scoprì il 16 agosto 1972, nel vedere quelle due statue coricate sul fondale quasi dormissero, chissà da quale Grecia venuti e per quale motivo finite lì sotto, da millenni in pace con il mare e in paziente attesa di stupire il mondo. Dovevo ringraziare Luna se ero lì a volare con la fantasia sul nostro mare materno, a assecondare le onde, pervaso dalla tentazione di andare giù fino a calpestare la dimora millenaria di quei due giganti di assoluta, inarrivabile bellezza. 

Cercavamo un posto sul mare dove accettassero la nostra cagnetta. Lo Ionio con le sue sterminate spiagge grigie mi affascinava, la Locride volevo conoscerla meglio e qualche giorno di vacanza poteva essere l’occasione buona per godere delle prime e esplorare la seconda. Da un anno ero in Calabria, con Anna si rischiava di cancellare l’estate. Già l’avevo costretta al sacrificio di fare la pendolare del fine settimana da Napoli. Lei condivideva, mi faceva fare. Chiesi a un collaboratore del giornale, Francesco Sorgiovanni, un imponente abitante di Stilo, diviso tra l’orgoglio della Cattolica e la venerazione per Tommaso Campanella, di aiutarmi. E così ci trovammo in quel piccolo albergo.

La mattina mi intrattenevo sotto un portico che dava sul magnifico giardino attraverso il quale si andava in spiaggia. Giornali, telefono e computer, al lavoro, con l’alibi di stare in vacanza. Intravedevo i pochi ombrelloni, che sembravano ancora di meno in quell’interminabile arenile. Alzavo lo sguardo quando vedevo passare un signore con un asciugamano e un pacco di giornali sotto il braccio sinistro. Mi colpiva anche per il suo passo lento e incerto e per il braccio sinistro sempre in verticale. Avevo anche la sensazione che, senza darlo a vedere, pure lui mi osservasse furtivamente. In spiaggia poi, quando finalmente la raggiungevo, lo scrutavo.

Sedeva su una sedia di plastica bianca, la sua compagna intanto spillava due quotidiani, il “Mattino” e il “Corriere della sera”. Lui li leggeva con metodo, dopo averli piegati in verticale scorreva titoli e testi dall’alto in basso. Dopo la lunga “preghiera del mattino” si alzava con qualche difficoltà e, al braccio di Paola, entrava in acqua. Con prudenza, perché dal bagnasciuga al non “toccare” bastavano pochi metri. 

Ero curioso. Dovevo conoscerlo. Ma dentro di me avvertivo che forse già lo conoscevo. Fu lui, una mattina, a variare il suo cammino verso la spiaggia e a venire verso di me: «Matteo!». E io: «Tonino!». Era Di Nunno. Eh, sì che ci conoscevamo! Lui, un giornalista della Rai di Napoli, ma ancora più noto come sindaco di Avellino, l’avevo incontrato poche volte in qualche occasione di lavoro, ma, come capita tra colleghi, il senso di appartenenza che «non è un insieme casuale di persone/ non è il consenso a un’apparente aggregazione», ci rendeva amici a prescindere. 

Parlavamo – oh, quanto parlavamo! – con la stessa lingua, di professione e di politica, di libri e di avvenimenti. Io gli raccontavo, lui mi raccontava. Ma era lui ad avere la meglio. Perché io, per lavoro, ero troppo calato nel presente, mentre lui viveva delle sue storie, della sua città. Non aveva ancora metabolizzato i suoi epici scontri con De Mita, il padre-padrone di una pattuglia di allievi eccellenti che si era sentito tradito dal ragazzo che non poteva più “dirigere”, e così lo aveva combattuto con tutte le armi. 

Il mare, Anna, la sua Paola, Luna, le cene, i cubi di tonno passato per pochi minuti alla brace, un fresco bicchiere di Critone erano la musica di sottofondo del nostro ritrovarci, compreso il suo compleanno, che fortunatamente capitava nei giorni di agosto che per qualche anno ci videro insieme. Non parlammo mai dell’ictus che lo aveva colpito nel momento più infuocato della sua esperienza amministrativa. Se n’era fatto una ragione, ma non sapeva che la natura matrigna aveva in serbo altro per lui, come anni dopo, un paio di giorni prima della fine, constatai quando lo trovai attaccato a un tubo ma combattivo come sempre mentre mi mostrava l’articolo a dir poco critico verso De Mita che aveva appena pubblicato sul suo giornale irpino. 

Era lontano il ricordo del mare, ma sapevamo che dovevamo a quel mare la nostra appartenenza. Dall’altra parte, da un punto lontano all’orizzonte, dalla civiltà di cui siamo figli, erano venuti quei Bronzi fieri e solenni che sentivamo vicini quasi stessero con noi in quelle giornate serene sulla spiaggia di Riace. Lui un giorno lo dedicava a un rito. Con Paola andava a trovarli a Reggio non mancando mai di attraversare la strada tra il museo e il chiosco di Cesare per gustare il miglior gelato dello Stretto. Al ritorno me ne parlava, anche del gelato, quasi fosse andato a trovare dei parenti. Ci assomigliavamo perché da allora quando vado a Reggio devo stare un po’ anche io con i miei “parenti”. Meridionale Tonino, meridionale io, perché i rami si potano, le radici no. Un po’ bronzi pure noi. Come «avere gli altri dentro di sé».

Racconto pubblicato il 7 agosto 2019 sul Corriere del Mezzogiorno