«Non si sentiva parlare che di vampiri fra il 1730 e il 1735: se ne scopriva dappertutto, gli si tendevano agguati, gli si strappava il cuore, li si bruciava. Qualcosa di simile a quanto era capitato agli antichi martiri cristiani. Più se ne bruciavano e più se ne trovavano. Si ebbe la prova che i morti mangiano e bevono. La difficoltà era se a nutrirsi era l’anima o il corpo. Fu deciso che erano tutti e due: le vivande delicate e poco sostanziose, come meringhe, panna montata e frutti canditi, andavano all’anima; il roast-beef al corpo. Mentre i vampiri menavano la bella vita in Polonia, in Ungheria, nella Slesia, nella Moravia, in Austria e nella Lorena, non si avevano notizie di vampiri nelle città di Londra e di Parigi. Debbo ammettere che in queste due città ci fossero speculatori, strozzini e altri affaristi che succhiavano il sangue del popolo, e in pieno giorno, ma non erano certo morti, benché indubbiamente corrotti. Le vere sanguisughe non abitavano nei cimiteri, ma in palazzi assai confortevoli».

Così parlò Voltaire quasi tre secoli fa ironizzando sulle teorie del filosofo Dom Calmet che nei vampiri trovava “una prova irrefutabile della resurrezione”. Si deve pensare che i vampiri non siano mai morti – del resto per natura sono morti-non morti, morti-vivi – se i loro gemelli, gli zombie, per quanto teatralmente acconciati, sabato prossimo sfileranno in via Toledo.

Gioirà Vito Teti che ha appena ripubblicato, con sostanziosi ampliamenti, aggiornamenti e note a piè di pagina che di fatto costituiscono un secondo volume, il suo libro “Il vampiro e e la melanconia” (Donzelli Editore, pagg. 382, euro 34). Libro attuale se è vero che l’epidemia settecentesca produce ancora i suoi frutti, non ha mai cessato di farlo come documenta la sua puntuale e vasta ricognizione delle forme e dei caratteri che, dalla letteratura al cinema, dalla psicologia all’antropologia, dal teatro e ora alle “maschere” napoletane, raccontano un fenomeno che accompagna il rapporto dell’uomo con la morte e con la vita nonostante le differenze di cui le più vistose: i vampiri si nutrono di sangue e gli zombie di carne umana, i vampiri sono eleganti  e perversamente belli e gli zombie orrendi e mostruosi.

A Teti, autorevole antropologo di una scuola che nel Mezzogiorno ha annoverato Ernesto de Martino, Alfonso Mario Di Nola e Luigi Lombardi Satriani, interessa ricostruire il rapporto, richiamato nel titolo, tra il vampiro e la melanconia, perché «il vampiro è mutevole, cangiante, errante, ambiguo e dovunque si trasferisca, dovunque si nasconda, si presenta con un’insopprimibile melanconia». Scrive Baudelaire: «Sono del mio cuore il vampiro,/ – uno di quei grandi derelitti/ condannati all’eterno riso/ e che non possono più sorridere!». «È – chiarisce Teti – la melanconia dell’individuo che si avverte condannato a una “non morte” e a una “non vita”, di chi non può vivere una “vita normale” e di chi non può morire una “morte normale”, di chi deve vegliarementre gli altri riposano».

Irrazionale, inconscio, magia, potenze nascoste in una città “patria dello spirito” come Napoli, dove trovi più fantasmi che vampiri, la melanconia può assumere il volto dello jettatore. Teti torna indietro nel tempo, a un’opera del 1857 che «narra la potenza distruttrice ed eversiva dello sguardo»: “Jettatura” di Théophile Gautier. Nel celebre racconto di Paul, giunto a Napoli dall’Inghilterra per incontrare la fidanzata Alicia e accompagnato da una fama di jettatore che troverà tragiche conferme, lo scrittore ci dice che «erano soprattutto straordinari i suoi occhi… Allor che non erano particolarmente fissi su qualcosa, appariva in essi una vaga malinconia, una tenerezza languente in un’umida luce; se si fissavano su qualche persona o su qualche oggetto, le sopracciglia si ravvicinavano, si contraevano, scavando una ruga perpendicolare sulla fronte; le pupille grigie diventavano verdi, si picchiettavano di punti neri, si striavano di fibbrille gialle; lo sguardo diventava acuto, quasi micidiale…».

E Napoli torna come “luogo di esotismo e magia” in “Varney il vampiro, ovvero il festino di sangue”, di Preskett Prest e J. M. Rymer nel quale il melanconico Varney anticipa la disperazione di celebri vampiri della letteratura contemporanea e del cinema (si pensi al “Nosferatu” di Herzog) quando per porre fine alla sua drammatica condizione, «stanco e disgustato da una vita di orrore», decise di distruggersi gettandosi “nella bocca infuocata” del Vesuvio evocando le pratiche delle aeree europee dell’epidemia vampirica, il fuoco purificatore quando non bastavano il paletto conficcato nel petto, la croce e l’aglio. Teti ci ricorda che i morti ci parlano sempre. Come i luoghi, anche quando – e qui la sua calabresità è evidente – sono vuoti come i paesini deserti delle montagne appeniniche: continuano a vivere se solo noi ci prestiamo ad ascoltarli.

Occhio e malocchio, ci sarà ancora spazio per la materia nella città del Totò jettatore: tra tre mesi all’ex base Nato di Bagnoli si terrà il ”Napoli Horror Festival”. Il precedente, nell’agosto 1985 a Padova, ebbe grande successo, in particolare la “festa horror” che gli organizzatori definirono “un carnevale col diavolo”.

Ma dove e chi è oggi il diavolo? Ecumenicamente, dopo aver rievocato “i fiumi di sangue” che, nel nome della giustizia, i dittatori hanno sparso in Russia e nel mondo, Amos Oz si chiede: «Certo, Wall Street è un vampiro che ciuccia il sangue del mondo, e allora? Con il sangue versato nessuno ha mai cacciato via i vampiri, anzi li ingrassi, li nutri con altro sangue innocente!».