Di Consalvo Fernandez di Cordova si è scritto tanto. La sua vita è un’epopea che dalla Spagna attraversa il Mediterraneo e si dipana nelle tormentate terre italiane, soprattutto in quel Meridione che nel lontano Cinquecento è un boccone succulento sulla tavola delle grandi potenze europee. È il tempo della cattolicissima Spagna e dell’Inquisizione che diffonde un acre odore di carne bruciata per mezza Europa, roba che con il senno di poi fa risultare angioletti anche i più feroci giustizieri dell’Isis. Il fatto è che quando si governa e si fanno guerre in nome di Dio il destino dell’uomo prima o poi diventa tragedia collettiva. Anche Consalvo, il grande condottiero, diede il suo contributo facendo arrostire e impalare i mori nel periodo della sua ascesa in Spagna, poi però, quando divenne viceré di Napoli, impedì che l’Inquisizione diffondesse più di tanto i suoi miasmi nelle nostre terre. Evidentemente presentiva che anche la sua amata Carlotta sarebbe finita su un rogo in quel di Seminara, nella profonda Calabria. Consalvo è soprattutto uno stratega militare che introduce nella guerra una tecnica che non solo consentirà alla Spagna di espandere la sua forza in ogni direzione ma che sarà studiata e adottata nel corso dei secoli a venire. Non a caso è a lui e a Cristoforo Colombo, per scenari e caratteristiche differenti, che la Spagna, dagli orizzonti vasti e dalle mire sconfinate, deve il dominio e l’egemonia di cui ancora si sentono tracce – vedi la sua lingua, che dopo il cinese è la più parlata – sul pianeta.

Si è scritto tanto, ripeto, ma mancava il romanzo che ben si attaglia alla sua vita appunto romanzesca. Ora questo libro c’è, ed è probabile che, come è accaduto per “Artemisia Sanchez”, anche questa nuova opera di Santo Gioffrè, “Il Gran Capitán e il mistero della Madonna Nera” (Rubbettino editore), finisca sullo schermo. E, se così sarà, ne potrà venir fuori un colossal alla vecchia maniera. La materia, come si è detto, è storia, storia nostra, europea e mediterranea, meridionale e napoletana, molto calabrese. E il libro, che si legge tutto d’un fiato, è già una perfetta sceneggiatura, precisa e feconda di avvenimenti e personaggi, condita e colorita di amori, sesso, vagine accoglienti e falli imperiosi e instancabili, supplizi atroci e crudamente descritti, tradimenti, campi di battaglia, misteri. Il fatto che anche io sia qui a parlarne credo sia dovuto alla mia recente attività in Calabria, che qui entra dalla porta principale nella grande storia, al mio vivere a Napoli, che compete con la prima nell’animo del Gran Capitán, e al mio essere stabiese, perché in un paio di pagine, con l’artificio di un incontro diplomatico, Gioffrè descrive il “mirabile scenario” di “Castel di bell’aria a Stabia”.   Soprattutto consiglio la seconda edizione che ha depurato e reso più fluido il racconto.

L’io narrante è lui, il Gran Capitán, don Consalvo Fernandez de Cordova, che racconta, con la sua lingua elegante e non fastidiosa benché aulica, al suo contabile Juan Franco la sua avventurosa esistenza che volge al termine. Ne scaturisce, inevitabilmente, una lettura partigiana di sé e degli avvenimenti che lo videro ad un passo dal diventare re di Napoli, compresi quelli che l’avrebbero visto protagonista di speculazioni e malversazioni. Credo che questa sia stata una felice soluzione trovata dall’autore: Gioffrè, nel romanzare una materia così viva e complessa, poteva rischiare di suo direttamente, ma delegando la piena responsabilità al protagonista del romanzo ha potuto dare libero sfogo, nell’ambito di un quadro storico definito e certo, alla fantasia che rende viva e palpitante una grande fase storica.
Viceré di Napoli, Consalvo, lo diventò sull’onda delle battaglie combattute nel nostro paese per conto della Spagna e dei suoi regnanti impegnati a fronteggiare la Francia che, ottimamente organizzata sui campi di battaglia, appariva invincibile. Se ne accorse Consalvo bevendo l’amaro calice della sconfitta in una battaglia che riteneva di aver vinto prima di combatterla. Alle porte di Seminara il suo esercito fu letteralmente annientato dal generale Robert Stuart d’Aubigny. Consalvo, ferito gravemente, vagò lungo il fiume Petrace e  si salvò per l’intervento di Carlotta, una bellissima calabrese, molto più giovane di lui, che aprì a lui il cuore e tutti i pertugi del suo bollente corpo e nel cui letto tornò innumerevoli volte per tutto il tempo che restò in Italia e fino alla morte tremenda, che lei e i suoi figli trovarono per la vendetta dei Baroni umiliati e spodestati dal Gran Capitán.
Gioffrè introduce un motivo che diventa titolo e trama sottile e profonda del romanzo. La Madonna Nera, meglio nota come la Madonna dei Poveri, che si trova nella basilica di Seminara a lei dedicata. Nella fantastica narrazione di Gioffrè, alla quale rimando affinché resti integro il piacere della scoperta, è lei, questa Madonna, che insieme al figlio avrà il volto scuro per volontà dello stesso Consalvo, che in essa aveva visto la madonna Nera di Montserrat, che ispira e guida le scelte del grande condottiero, che tale diventa dopo aver studiato i motivi della sua sconfitta militare nello scontro con il generale francese.

Rinato grazie alle cure e alle amorevoli prestazioni di Carlotta, Consalvo riflette sui motivi della cocente sconfitta ed elabora una tecnica militare, il cosiddetto tercio spagnolo che si rifaceva alla legione romana, che attuerà da quel momento in poi sui campi di battaglia, passando di vittoria in vittoria, fino alla sconfitta a Cerignola e sul Garigliano del generale francese che l’aveva umiliato a Seminara. Scrive Giuseppe Galasso: «Per Napoli quella guerra significò la conferma dell’ incapacità del Regno di resistere alle offese esterne. Era stato così nel 1266, nel 1442, nel 1494; sarebbe stato così nel 1707, nel 1734, nel 1799, nel 1806, nel 1821, nel 1860: una serie impressionante di cedimenti che dovrebbe dare molta materia di riflessione agli allegri revisionisti della storia italiana. Significò anche l’inizio del legame napoletano con la Spagna, durato per duecento anni: un terzo dell’ intera esistenza del Regno tra l’avvento degli Angioini e la caduta dei Borboni».

Il 16 maggio 1503 Consalvo entrò in una Napoli acclamante, preceduto dall’accordo con i rappresentanti della città. Fu viceré e fece molto sentire la sua mano nel governo del regno, soprattutto ai Baroni che lo tenevano sotto torchio e senza speranza. Ma il suo cruccio fu di non diventare re. Lo poteva diventare, ma non accadde sia per le grandi manovre di «monarchi insolenti – fa dire Gioffrè a Consalvo –  che erano sicuri che il proprio io corrispondesse a Dio» e che si giocavano con cinica spregiudicatezza i destini del mondo conosciuto a quel tempo come una partita a scacchi tra un letto e un convivio, sia per i tradimenti e le congiure dei Baroni che così consumarono la loro vendetta. Consalvo rimane «a guardare quelle teste coronate ed a pensare quanto inutile fosse stata l’immensa strage di Cavalieri e Fanti, in tutti i campi di battaglia», e li bolla pensando «ai miei soldati morti e mangiati dai cani perché…(quelle teste coronate) potessero dirsi Re, senza che mai avessero annusato l’odor del sangue, impastato con la terra, sotto cumuli di cadaveri».

Il legame tra Consalvo e Napoli fu molto saldo, come testimoniò la folla che lo accompagnò al porto per salutarne la partenza e il ritorno in Spagna. Machiavelli parla esplicitamente di ingratitudine quando scrive: «Ne’ nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a’ Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d’armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove poco tempo poi inonorato, morì».

E forse è questa ingratitudine che spinge Gioffrè a ritenere che il ritorno in Spagna del Gran Capitán, a cui fu costretto per non ostacolare i giochi delle grandi monarchie europee, segnò la fine di un sogno, se si può dire, di autonomia del Meridione. Tesi ardita, ma da lui motivata soprattutto con il legame fatto di carne e di fede che Consalvo stabilì con il Sud e soprattutto con la Calabria. E qui, più che la Madonna Nera, una delle tante sparse nella regione, in Italia, in Europa e nel mondo, è Carlotta la straordinaria protagonista del romanzo. Lei è dominatrice e pecora, un corpo accogliente e sempre pronto, ma anche colta e avveduta, fidata. E da lei il condottiero prende amore, sesso, intelligenza, consigli. Ed è lei che viene punita, con una vendetta trasversale feroce, per colpire lui. Una metafora, probabilmente, che tiene Santo Gioffré saldamente ancorato alla sua città natale, Seminara, e al suo presente, una ricerca non a caso chiusa alla maniera di Proust, sebbene Consalvo non ritrovò il suo tempo e continuò, come dice, la sua navigazione «tra un tempo sparito ed un altro smarrito…».