Gli errori si pagano. La “mia” città sta pagando. Se osservo l’indefinito e infinito cantiere di Bagnoli e ricordo l’acciaieria di Nitti e la sua classe operaia svanita nel nulla, penso a Castellammare, la “piccola città” di un libro di Franco Ferrarotti. Piccola poi… di misure, di spazi, di numeri sì, ma un motivo doveva esserci se la chiamavano la “piccola Napoli”. Del resto, che cosa le mancava? Storia, tradizioni, mare, collina, montagna, campagna, industria, porto, terme, cultura, politica: aveva tutto, certificato e documentato, in dosi abbondanti, in una prodigiosa miscela che generava identità e orgoglio di appartenenza.
Che c’entra Bagnoli? Che cosa lega, in questa riflessione in parallelo, Bagnoli e Castellammare, il quartiere che stette alla fabbrica come il liquido amniotico alla nuova vita e la città che ha visto il tramonto non solo delle sue industrie? Forse solo il trovarsi in mezzo al guado, che non sempre è fatto di acque chiare, fresche e dolci, o, chissà, la moria di operai e le sue conseguenze sociali e politiche, o probabilmente il mare che bacia il quartiere e che nella città si è insinuato perfino nel nome. Dunque, gli errori. Mi riferisco a quelli di Castellammare, perché su quelli di Bagnoli non saprei cosa dire dopo le pagine di Ermanno Rea.
“Figlio” non so quanto “difficile” benché Michele Prisco non si riferisse alla mia generazione, anche la mia «giovinezza odorava del profumo dei biscotti della ditta Riccardi», ascoltava la musica delle sirene del cantiere navale, si dissetava o curava a una delle ventotto acque minerali, invocava la primavera per raschiare a denti stretti le foglie dei carciofi degli orti di Schito rigorosamente arrostiti, si alternava tra incursioni al Castello medievale, alla villa di Plinio il Vecchio e al Palazzo Reale e, di giorno e pure fino a notte inoltrata, consumava la vita sul lungomare e in Villa comunale tra una vasca e l’altra.
Era, il nostro, un tempo non perduto, tra il sogno del domani e l’illusione di costruirlo con la fragile arma della passione. I fatti, testardi come si sa, andavano altrove. Ci fu, però, chi aveva lavorato, fatto proposte, approntato progetti e messo paletti importanti, e, quando si decise altrimenti, avvertì i suoi concittadini del vicolo cieco in cui si stavano infilando. Ho riletto un suo discorso, grazie a un libro di Raffaele Bussi, stabiese molto attento alla memoria della città. Pasquale Cecchi, ultimo vicesindaco prima del fascismo e primo sindaco dopo la Liberazione, lo pronunciò in Consiglio comunale il 22 settembre 1954. In quell’anno, sconfitto in elezioni molto contestate, passò il testimone al sindaco democristiano Giovanni Uberti, che tra i suoi vezzi aveva quello di far precedere il cognome da un “degli” per acquisire la discendenza dal Messer Neri degli Uberti della novella di Boccaccio ambientata a Castellammare. Al centro dello scontro politico il tema, che negli anni a venire divenne spartiacque tra il Pci cosiddetto industrialista e la DC portabandiera dello sviluppo turistico. In realtà la divisione era più complessa.
La città discuteva del destino delle Terme, collocate di fronte al cantiere navale. Sul tavolo due progetti. Uno della Società Stabia gradito alla Cassa per il Mezzogiorno e sponsorizzato dalla DC, redatto dall’architetto Marcello Canino che prevedeva la realizzazione di un nuovo stabilimento dall’altra parte della città, sul pianoro deserto del Solaro, che doveva diventare il volano dello sviluppo turistico. L’altro, redatto dal professore Luigi Cosenza insieme agli architetti Massimo Napolitano e Eduardo Vittoria per conto dell’amministrazione comunale presieduta da Cecchi, proponeva la ristrutturazione e l’ampliamento delle Terme esistenti mediante la demolizione di vecchi fabbricati e la creazione di nuove strutture alberghiere con costruzioni basse e inserite nel contesto naturale, diffuse da un lato verso Pozzano lido e dall’altro verso la Madonna della Libera, con uno sviluppo che si sarebbe dovuto riconnettere attraverso i boschi di Quisisana con Palazzo Reale e Monte Coppola. In questo quadro era centrale il recupero, sicuramente lentissimo ma necessario, del Centro Antico che dalle Terme e dal cantiere si allunga fino a piazza Municipio. Infine, ed era un elemento di scontro, Cecchi non intendeva alienare il patrimonio idrotermale, un tesoro ingente”, che era del Comune e al quale ambiva la Cassa per il Mezzogiorno. Con il cambio della guardia a Palazzo Farnese, passò la scelta delle Nuove Terme al Solaro e in quel Consiglio comunale Cecchi pronunciò un discorso profetico.
«Si parla – disse Cecchi – di turismo e di terme e di trasformare il volto di Castellammare, quando vi sono zone malsane, antigieniche dove la vita umana si svolge in condizioni assolutamente incompatibili con la vita civile… Voi eliminerete solamente un’immensa ricchezza patrimoniale che dal Comune traferite nelle mani degli speculatori che si celano dietro la Cassa per il Mezzogiorno. Non si risolvono i problemi cittadini creando due stabilimenti termali… La città rimarrebbe nello stesso abbandono, con quell’ammasso uniforme di topaie che sorgono alle Terme Comunali dove vive tanta parte del popolo di Castellammare».
Il 26 luglio di dieci anni dopo, al termine di un’aspra contesa, furono inaugurate le Nuove Terme al Solaro e le miracolose acque furono pompate dalla pianura alla collina. Sono chiuse e vandalizzate da anni. Desolatamente. Il turismo annunciato è un desiderio, il termalismo, finanziato con il welfare, non ha innescato processi virtuosi in una città vieppiù disordinata urbanisticamente e soffocata da un tappeto di auto che neanche a Napoli. E il Centro Antico di Raffaele Viviani, immobile nel tempo, abbandonato e decaduto, ulteriormente ferito dal terremoto del 1980, è un argomento di campagna elettorale.
Incurante del suo storico centro, Castellammare è cresciuta dall’altra parte, verso il Vesuvio. Cemento, naturalmente, che come un magma non ha risparmiato i vantati orti. Abusi a piene mani, e non potevano mancare, nell’area archeologica e sulla collina. Ah, le industrie! Molte chiuse, di altre ci sono tracce in scheletri di edifici cadenti, di alcune non si ha più memoria. Certo c’è il cantiere che è stato difeso fin quando c’è stata una classe operaia come quella estintasi a Bagnoli, e che, tolto il vanto una tantum della portaerei, è ridotto a produrre tronconi di navi da destinare agli stabilimenti settentrionali.
Le Antiche Terme, ristrutturate e chiuse per anni, con qualche parziale riapertura a singhiozzo negli ultimi tempi, erano un gioiello. Con quello stile un po’ neoclassico un po’ liberty che le stazioni termali europee più accorsate hanno gelosamente protetto. Fu demolito il padiglione Moresco e la facciata, che dialogava felicemente con quella del cantiere navale, fu sostituita dall’attuale, a dir poco anonima, imitata dal dirimpettaio sicché il dialogo, ora infelice, continua. Turismo by by. Salvo, grazie al lungomare finalmente risistemato, quello “mordi e fuggi” proveniente dai comuni vicini.
Dal grande terrazzo della Reggia o dalla Madonna della Libera, la città, con molto sforzo, è ancora un soggetto per gouaches. Sembra una quinta teatrale: il Faito, il Castello, il cantiere, il porto, il Centro Antico, la Villa e il lungomare, l’isolotto di Rovigliano, il Vesuvio, il Golfo. Da lontano…
Tanti errori, ma gli errori sono state scelte. Andare in una direzione o in un’altra non è mai senza conseguenze. Annibale Ruccello avrebbe consigliato di ritornare al passato per progettare il futuro, ma è morto precocemente e di lui c’è solo un busto in Villa comunale.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 15 maggio 2020