“È lui chi parla”

Un tempo c’era il Grand Tour e Napoli era il luogo privilegiato di studiosi, intellettuali, scrittori, artisti, filosofi, pittori. Grande e vera capitale europea, la città affascinava il mondo e diventava laboratorio di studio, di ricerca, di produzione culturale. Mi ci ha fatto pensare la morte di Percy Allum, un inglese che non ha viaggiato da “turista” verso Napoli ma qui vi si è insediato per decenni, quasi una vita intera, lavorando, producendo, insegnando, vivendo. Un Grand Tour diverso, più attuale e moderno, sicuramente molto incisivo se si pensa alla qualità e quantità delle prestazioni del politologo di Reading.
Questa mattina ho trascorso molto e proficuo tempo a leggere i documentati e stimolanti ricordi di persone che lo hanno conosciuto, per tutti cito Ernesto Mazzetti , Mauro Calise e Luciano Brancaccio. Mi ci sono ritrovato avendo avuto anche io la fortuna di frequentare da vicino e per lungo tempo Percy. Erano gli anni indimenticabili della “Voce della Campania” e lui era una presenza non dico quotidiana ma quasi all’undicesimo piano di via Cervantes 55. Scriveva per il periodico, per anni anche con una rubrica con tanto di fotina, ma soprattutto l’aveva scelto – credo come aveva fatto o continuava a fare per “Nord e Sud” di Francesco Compagna – come sede per lavorare, telefonare, scrivere. Si era diventati naturalmente amici tanto che in redazione qualcuno scherzava con il suo italiano ancora impreciso e gli telefonava anonimamente da un’altra stanza per sentirsi rispondere alla domanda se fosse Percy Allum: “è lui chi parla”.
Per dirla tutta, vedemmo nascere in quelle stanze molto del libro che lo rese celebre, “Potere e società a Napoli nel dopoguerra”, il ponderoso volume edito da Einaudi che, dato dopo dato, numeri alla mano, biografie sviscerate, relazioni ricostruite, parentele passato al microscopio, restituì all’opinione pubblica il complesso palazzo del potere di Lauro e, soprattutto, dei Gava. Ce ne regalò un pezzo importante con il suo capitolo, il ventisettesimo della “Storia della Campania” che realizzammo a fascicoli con il giornale, “La Campania: politica e potere 1945-1975”.
Ha scritto tanto altro ancora, ha insegnato per anni anche al nostro “Orientale”, avendo sempre un piede qui e un altro in Inghilterra, da dove non cessava mai di tenere lo sguardo verso di noi spesso “dipingendo immagini di Napoli”. Figura poliedrica e a volte anche eccentrica, un inglese-napoletano dal ciuffo svolazzante, ha conquistato a suo modo un posto significativo nella storia culturale e, direi, politica della città. Alla quale è rimasto sempre legato. In un’intervista di qualche anno fa ne diede un’ennesima prova, quando a Giovanni Santaniello che gli chiedeva, a proposito di Castellammare, se «oggi non è più tempo di quei “vicerè” e di quel sistema di potere contro cui tanto ha scritto: non ci sono più né Lauro, né Silvio né Antonio Gava…», rispose: «Negli anni Sessanta si sperava che un partito progressista al posto della Dc potesse cambiare le cose. Invece, mi rendo conto che il vecchio ha annullato il nuovo o che il nuovo è stato annullato dal vecchio…». Chissà che non avesse ragione.
*29 aprile 2022

In quella Fiat 850 con Pio La Torre

IN QUELLA FIAT 850 CON PIO LA TORRE
Più di mezzo secolo fa la mia giovinezza era dedicata quasi esclusivamente alla politica. Passione e militanza, impegno e partecipazione, anche tanta – a quell’età è quasi naturale – partigianeria ai limiti della faziosità. Stavo, stavamo, tanti ragazzi e ragazze, da una parte, ci interessavamo della nostra città, dell’Italia, del mondo e anche quello che avveniva dall’altra parte del pianeta ci riguardava. Errori? Una caterva. Ma io non rimpiango nulla anzi ho nostalgia di quel mondo, non solo per l’età che non c’è più, ma anche e soprattutto perché ci sentivamo parte dell’umanità e del mondo. E io e gli altri compagni facevamo di tutto, ci svegliavamo di notte per andare a scrivere sui muri della città slogan sull’ultimo evento che ci aveva scosso, a Pasquetta mentre tutti andavano ai boschi di Quisisana per trascorrere ore liete noi, sempre di notte, disegnavamo con pittura bianca raffazzonata le strade d’accesso con frasi di impegno politico, realizzavamo giornali, organizzavamo convegni e dibattiti, facevamo venire in città il fiorfiore degli intellettuali (Pasolini, Rosi, Zangrandi…), occupavamo spiagge indebitamente privatizzate, facevamo comizi, cortei, volantinaggi, accendevamo confronti e alimentavamo polemiche. Vivevamo la nostra giovinezza in questo modo.
Perché mi è venuto alla mente questa memoria straordinaria, lontanissima, irripetibile, anche a suo modo pesante? Perché mi toccò, ed io me l’accaparrai prepotentemente, anche il compito di andare spesso a Napoli a prelevare dalla stazione o dalla federazione del partito o dall’albergo il compagno autorevole che doveva tenere un comizio a Castellammare e quasi sempre dovevamo fare anche il percorso all’incontrario. Io e Franco Perez, l’unico tra di noi che avesse un’auto, una Fiat 850 di colore celestino, lo consideravamo un privilegio. Franco aveva l’età della patente, io neanche quella. E così viaggiavamo con i dirigenti del partito, discutevamo con loro, respiravamo, mi consenta Gaber, il sentimento dell’appartenenza ai massimi livelli: Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Giorgio Napolitano…
Scrivo di questo perché vedo che oggi si ricorda che quarant’anni fa Pio La Torre fu ucciso dalla mafia. Chi sia stato questo grande italiano non devo ricordarlo io. Un martire dell’Italia repubblicana, protagonista di iniziative che hanno segnato la sua storia, a cominciare dal motivo per cui la mafia ne decretò la morte: con le sue leggi furono messe le mani sui patrimoni dei mafiosi dando una svolta alla lotta fino ad allora flebile se non peggio dello Stato al crimine organizzato che funestava la Sicilia (e altre regioni meridionali). Una foto della sua auto crivellata di proiettili ritrae anche magistrati e poliziotti (Chinnici, Falcone, Cassarà) che saranno uccisi da Cosa Nostra.
Ecco, io e Franco andammo a prelevare La Torre all’albergo Mediterraneo a Napoli, lo conducemmo a Castellammare e poi lo riportammo a Napoli dopo il comizio. Non sapevamo quale fosse il reale valore del “nostro” dirigente, sapevamo soprattutto che era un siciliano. “Com’è la situazione a Castellammare?”. Entrò subito in argomento e io, che non aspettavo altro, risposi. Dialogammo da Napoli fin nei pressi del Miramare dove parcheggiammo, ma continuammo sul lungomare che percorremmo fino alla Cassa Armonica, salimmo sul palco e lui dopo che io lo presentai iniziò il comizio. Certo, tanti slogan (dagli oratori pretendevamo anche questo) ma soprattutto ragionamento, concretezza, analisi della realtà, i compiti del partito, l’invito finale a sostenere la causa. Poi facemmo il percorso all’incontrario e finalmente parlò quasi solo lui, che era felice di com’era andato il comizio anche perché Castellammare era considerata a livello nazionale una “piazza” importante. Con Franco, al ritorno, commentammo a lungo quest’esperienza manifestando ambedue la stima e l’ammirazione per un comunista tutto sostanza che avevamo avuto la fortuna di conoscere così da vicino.
Da quel momento seguii per anni con attenzione l’attività di La Torre e ovviamente provai un dolore immenso quando dalla Sicilia arrivò la brutta notizia. Ma ormai avevo anche capito che quella fine per lui era una delle possibilità reali sul suo cammino di riscatto. Un grande siciliano, un grande italiano. E posso dire anche qualcosa di più personale perché in quell’auto ci diede un altro, non secondario, segno del suo valore: la funzione pedagogica della politica che si espresse con quella disponibilità a dialogare con dei ragazzi con rispetto e curiosità. Il mio partito e i miei dirigenti erano anche questo.
* 30 aprile 2022

Una classe (poco) dirigente

Sostiene l’assessore comunale Edoardo Cosenza che per ovviare al disastro dei treni della Metropolitana serve un mago. Ovviamente è una “voce dal sen fuggita” o, volendo malignare, la scoperta di “Alice nel paese delle meraviglie” dove queste ultime potrebbero anche leggersi come orrori. Continuando lungo tale china potremmo immaginare che ci sia un diavolo che si aggiri tra rotaie, convogli e depositi del metrò o tra le funi e i motori delle funicolari, o anche sui bus costretti a tornare mestamente ai depositi e lì a permanere, o ancora tra giardini, parchi e ville per impedire potature e innaffiamenti e semmai consentire troncamenti mortali di pini e conifere varie, o, via di questo passo, per bendare vigili, ufficiali e comandante in modo da non fargli vedere il tappeto di auto in sosta più che selvaggia che trasforma arterie capienti in vicoletti e vicoletti in arditi passaggi pedonali, o, perdonate questo limitato elenco di magie all’incontrario, in un’area strategica come Bagnoli (si legga l’editoriale di Claudio Scamardella) in un deserto di intenzioni e chiacchiere nascoste sotto la coltre di iniziative giudiziarie, o, per concludere davvero, nella testa dei ricercatori dell’Istat in modo da fargli dipingere (si rimanda ancora a un editoriale, quello di Enzo d’Errico) il nostro territorio come il ricettacolo di tutti i primati negativi.

Certo sarebbe divertente spiegare i fallimenti ricorrendo alla magia e alle diavolerie e verrebbe da consigliare a Vittorio Del Tufo di aggiungere una voluminosa appendice al suo “Napoli magica”, ma, dubitando di maghi e diavoli, voliamo basso e ci atteniamo alla Napoli alla nostra portata, quella vera, bellissima e invivibile allo stesso tempo. Perché questo splendore si coniuga con la difficoltà del vivere la città? Forse perché le due cose si tengono insieme e così facendo la rendono unica? Si sente anche questo ovviamente nel dibattito perenne, specie sui social, che si accende ogni volta che qualcuno, specie di fuori, del Nord s’intende, si permette qualche critica ma anche quando i sussurri negativi vengono dall’interno.

Diciamola tutta: troppo facile prendersela con il decennio demagistrisiano o con il settennato deluchiano, pur dovendo riconoscere che il primo fortunatamente è alle nostre spalle e il secondo è purtroppo in pieno svolgimento. Anzi a proposito di quest’ultimo si minacciano nuove opere faraoniche (vedi progetto della sede della Regione in zona Garibaldi) quando primaria sarebbe l’esigenza di far funzionare quello che c’è e garantire una decorosa manutenzione della città.

La domanda probabilmente più pertinente è: ma esiste una classe dirigente o, più precisamente, questa cosiddetta è all’altezza dei compiti elementari e straordinari richiesti da una città per quanto complicata anche antropologicamente come Napoli? La risposta è implicita e va da sé che il ceto politico è speculare a detta classe dirigente, tant’è che gli insuccessi della prima fanno da contraltare alle regole di improvvisata formazione del secondo.

Infine la domanda delle domande: ma questa classe dirigente in senso lato è migliore o peggiore di chi le assicura la dominante (egemone sarebbe troppo) posizione? Per la risposta non rimandiamo al mago bensì a un indovinato titolo di questo giornale: “Nessuno può dirsi innocente”.

*Editoriale pubblicato il 26 aprile 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Il conflitto e la paura di restare a digiuno

Nell’attesa della pioggia dei missili su ll’Iraq, una guerra così lontana, facemmo cose che solo la
perdita di lucidità poteva spiegare e non giustificare. A mia memoria sugli scaffali non ci fu più
traccia di scatole di legumi e pomodori, di barattoli di marmellata, di bottiglie di passate e oli, di
pacchi di farina e zucchero. E poco ci preoccupammo di donne, vecchi e bambini che furono
trucidati dalle carezze americane o dei sopravvissuti, che riportarono ferite non solo fisiche, forse
perché dalla pelle diversamente pigmentata o dalle fede in altre divinità se non soprattutto perché
prescelti dalla natura a poggiare i piedi su un suolo che ricopriva un bene prezioso e ambito. Ma la
paura della guerra e di rimanere a digiuno quella sì che ci angosciava, ci terrorizzava e ci spingeva a
fare cose irrazionali perché prese il sopravvento l’istinto della sopravvivenza e della precarietà. Un
modo efficace per ricordarci che la globalizzazione non era un’invenzione degli economisti o dei
geografi.
Ora, mentre è in corso una guerra più vicina e quasi si sente il rimbombo delle bombe e il grido di
dolore di vecchi e bambini, di mamme e nonne, le file alle pompe di benzina e gli scaffali svuotati
dei supermercati anche con scene poco eleganti forse si possono pure spiegare ma non senza
qualche riflessione.
Io che la guerra non l’ho vissuta e ne ho solo letto e sentito parlare, mi ritrovo a vivere la guerra
nella sua rappresentazione di commestibile corsa alle vivande e di gara con i prezzi dei carburanti
(che altro è la coda per fare un pieno per risparmiare qualche euro rispetto a quello che costerà il
giorno dopo!) che, appunto dopo Bush e l’Iraq e ora con Putin e l’Ucraina, ci è arrivata dentro casa.
Ovviamente ce n’è anche un’altra, più importante e vera. Penso a Irina che per poche ore gira per
casa con aspirapolvere e detersivi cercando di nascondere il viso che di tanto in tanto si riga di
qualche lacrima e, se le chiedo notizie sui suoi, balbetta la sua disperazione, o a mia sorella che mi
telefona per dirmi che, dopo molte ricerche, è riuscita a prendere contatti con la bambina di
Chernobyl, oggi una donna, che entrò nella sua famiglia per molti mesi per rigenerarsi dall’aria
infetta che aveva respirato nel suo paese, e mi racconta il dramma di queste ore.
E poi c’è anche un’altra guerra che mi tormenta. Esprimere il mio pensiero e manifestare le mie
preoccupazioni. Non trascuro il fatto che sia in corso una genuina gara di solidarietà, commovente
e necessaria, verso i profughi, spesso parenti e amici di persone che vivono da anni nelle nostre
città e nelle nostre case, e quando ci penso non nascondo che mi sento orgoglioso di appartenere
a questa gente. Però, basta avvicinarsi a un social ma anche a spazi ben più qualificati per
constatare come ci voglia così poco coraggio a fare la guerra delle parole e, a dosi copiose, delle
contumelie. Stai di là o stai di qua? E giù odio, veleni, accuse. Se non ci fosse la trincea del video
volerebbero a dir poco le sedie. Non mi piace tutto questo e provo disagio a esprimere il mio
pensiero, tant’è che questa è la prima volta che lo faccio non tanto, come si vede, per dire come la
penso sull’aggressione di Putin all’Ucraina quanto soprattutto per chiedermi, date queste
premesse, che cosa accadrebbe se davvero finissimo in una guerra.

  • Racconto pubblicato il 17 marzo 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Castellammare, bandiere ammainate

In un giorno dominato dalla paura collettiva della guerra gli stabiesi, residenti e non,
sono costretti a vedersela con i guai della loro città. Amarezza e dolore i sentimenti
prevalenti per lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche.
E soffrono non di meno gli abitanti di Torre Annunziata e San Giuseppe Vesuviano,
nei quali arriva il commissario prefettizio. Un’onta pesante per tutti e che a
Castellammare connoterà nel tempo la storia un tempo gloriosa della città passata
nel volgere di qualche decennio dai fasti alle miserie. È evidente che non si è arrivati
a questo punto per un evento improvviso ma a conclusione di una serie di fattori di
decadenza civile e morale. Nessuno potrà gioirne perché un po’ tutti, chi con la
condivisione, chi con una debole opposizione, chi candidamente stava alla finestra
come se la sorte della propria città non lo riguardasse, ne portano in quote
ovviamente diverse la responsabilità.
Si vedrà meglio dalla lettura delle carte che cosa sia realmente accaduto a
Castellammare, quante e quali siano state le contaminazioni, le pressioni, gli accordi,
gli affari e chi e in quali sedi ne dovrà rispondere. La sintesi è che è stata scritta una
brutta pagina non solo della massima istituzione locale ma soprattutto della politica
perché è il suo decadimento che ha reso fragili le difese etiche, affievolito la
partecipazione e abbassato il livello del confronto fino alla compromissione
dell’interesse collettivo. La città ormai viveva di memoria del suo passato. Un tempo
lo scontro era stato anche durissimo, ma i partiti non erano un territorio riservato a
pochi come dimostravano le aspre contese che appassionavano e dividevano la città
ma la preservavano dalle ingerenze pericolose. Lo spartiacque era abbastanza netto
e potevi essere democristiano o comunista, liberale o socialista, repubblicano o
fascista (non ci si scandalizzi), ma da una parte c’era la città legale dall’altra il suo
contrario. Poi…
Con il terremoto del 1980 e i soldi della Ricostruzione avvenne la svolta decisiva. La
guerra di camorra lo testimoniò con le croci che riempirono ampi spazi del cimitero,
ma soprattutto fu evidente che i clan non vollero più stare fuori dalla porta. Certo,
dopo la storia non è stata lineare, Castellammare ha avuto buoni amministratori e
altri meno. Intanto cambiavano storia e geografia, lo Stato non garantiva più
l’apparato industriale e neanche le terme. Risultato: crisi doppia crisi, assenza di
un’alternativa percorribile, neanche il risanamento del Centro Antico da cui la città
sarebbe potuta ripartire. Addirittura con le Terme ormai fallite si continuava ad
assumere personale che non aveva nulla di cui occuparsi. Sullo sfondo la grande
partita del destino delle aree industriali della zona nord e gli appetiti su via De
Gasperi oggetto, tanto per cambiare, anche di inchieste giudiziarie. Ciliegina sulla
torta consigli comunali sciolti davanti al notaio, addirittura un paio di omicidi di
consiglieri comunali.
La crisi è diventata irreversibile da quando con i nuovi sistemi elettorali si vince
avendo più liste in una coalizione. A momenti c’erano più candidati che elettori.
Sulla carta questa poteva sembrare una buona occasione per allargare la

partecipazione ma invece si è solo abbassata la qualità della politica. E bastava
seguire da vicino una campagna elettorale per capire che cosa accadeva nel
“sottosuolo”. Anni fa chi scrive, sollecitato da un gruppo di stabiesi di antica
immacolatezza, si fece convincere a candidarsi. Il risultato era scontato e non fu
smentito dalle urne. Molti episodi da raccontare ma inutile tediare il lettore, solo
uno abbastanza emblematico. Una ventina di giorni prima del giorno del voto ci
recammo in un quartiere popolare nella zona di via De Gasperi. Bussammo a tutte le
porte di quei palazzi senza ascensori. Ci aprivano con il sorriso, si parlava sulla soglia,
molti ci facevano entrare e accomodare, discutevamo e ci offrivano il caffè.
Tornammo in quei palazzi e bussammo di nuovo nell’ultima settimana prima del
voto. Aprirono sì e no quattro cinque signore, che sbrigativamente, e non tutte,
presero il volantino e chiusero la porta. Che cosa era successo? Me lo spiegò un
vecchio commerciante della città: “Negli ultimi giorni sono scesi in campo i pezzi da
novanta”. Andò come diceva lui anche nel rione che era stato fino a qualche
decennio prima teatro di discussione e partecipazione.
A Castellammare molti si stanno chiedendo da dove riprendere un cammino
virtuoso. L’impresa è molto complicata. Lo Stato, anche con lo scioglimento del
consiglio comunale, interviene quasi sempre a cose fatte, sta ai cittadini trovare la
strada e imboccarla liberandosi dei lacci della nostalgia e sfruttando con equilibrio e
rispetto lo straordinario patrimonio ambientale e culturale che ancora si ritrovano. E
sarà dura a Torre Annunziata che, attaccata a Castellammare, vede anch’essa
lacerata la sua bandiera. Forse è tempo di farne di nuove.

*Articolo pubblicato il 25 febbraio 2022 sul Corriere del Mezzogiorno

Michele Albanese il ribelle

«Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, rispose alla figlia che era appena uscita dalla scuola elementare: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame». Vai poi a spiegare a una bambina che il papà, che è un giornalista, per il suo lavoro viene considerato un amico degli sbirri, quindi un infame. Ma il colpo allo stomaco fu forte perché evidentemente nella famiglia del compagno di classe si parlava di lui e del suo lavoro, e si poteva pensare che fosse una famiglia ‘ndranghetista ma in caso contrario non sarebbe stato meno grave perché si sarebbe trattato di un’evidente manifestazione di subcultura mafiosa. E non potette, il padre, non pensare alla sua infanzia, di quando all’età di sette anni fu testimone di un delitto: «Allora ho conosciuto l’orrore del sangue e il fuoco delle armi». Lui è Michele Albanese, giornalista del “Quotidiano della Calabria”, cronista che da sette anni vive sotto scorta perché, solo per un pelo, non saltò in aria con la sua macchina. La sua storia è ora raccontata da Gabriella D’Atri in un libro (La ribellione di Michele Albanese, Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50) che è consigliato a chi vuol capire, al di là dei luoghi comuni, che cosa è la Calabria.

17 luglio 2014. Prima di mezzogiorno Albanese si trova a Sinopoli, nella Piana di Gioia Tauro, per prendere le notizie di un omicidio, ha appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili sul corpo quando riceve una telefonata: deve essere condotto urgentemente alla Questura di Reggio Calabria. Da Sinopoli a Reggio pensa alle più svariate ipotesi, anche quella “di essere arrestato”, ma non immagina che da quel momento la vita sua e della sua famiglia sarebbe cambiata per sempre. «Lei è in pericolo. Il piano per ucciderla era pronto. Si erano già procurati l’esplosivo. L’intercettazione è chiarissima. Inequivocabile». Poche ore prima i due ‘ndranghetisti parlavano al telefono, certi di non essere ascoltati perché erano andati in zone senza campo, ma non sapevano di essere intercettati da una microspia di ultima generazione sistemata sull’auto. «U vogghiu mortu”, poi prendono accordi per un “lavuru pulitu”, il tritolo da mettere sotto la vettura “sutta u latu da guida” e poi “nu radiucumandu… buum”.

Dava fastidio, Michele Albanese, perché ogni giorno i suoi articoli erano strali che si conficcavano nel corpo della ‘ndrangheta: non cronaca arida, ma relazione tra fatti, uomini e cose, analisi delle strategie, un lavoro giornalistico completo, a tutto campo, dalla cronaca nera alla giudiziaria, dalla politica all’economia, che goccia dopo goccia aveva riempito il vaso di chi, non solo la ‘ndrangheta, riteneva intoccabile il suo potere. Ricorda il metodo di Giancarlo Siani che, se ai suoi tempi ci fossero stati gli strumenti di oggi, probabilmente non sarebbe diventato un martire. Cattolico militante dall’infanzia, conosce vita e miracoli della sua terra. Quando raccontò l’inchino della processione del santo davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta locale si guadagnò l’odio del prete e della gente, ma poi la chiesa di papa Francesco cambiò le regole e gli inchini sono finiti. Dice Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria che dispose la scorta: «Aveva dato parecchio filo da torcere, e chi conosce Michele Albanese sa che nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo».

È cambiata la sua vita ma non il mestiere. In condizioni ben più complicate fa il suo lavoro dalla Piana. «Quello che ho sempre più apprezzato in Michele Albanese – scrive don Luigi Ciotti – è aver fatto dell’impegno a testimoniare la verità una scelta non solo professionale ma di vita». Ed è forse ciò che non gli perdonano quelli che sminuiscono – lo fanno anche per altri colleghi sotto scorta, purtroppo – i sacrifici quasi insinuando che sia comoda la vita sotto scorta. Bisognerebbe parlare con la moglie e le figlie senza il cui sostegno perfino commovente non si sa se lui avrebbe retto, ma si rimanda a una lettera molto bella che Michele scrive ai tantissimi poliziotti che si sono succeduti a proteggere lui e la famiglia in questi anni ricordando che all’inizio li vedeva come “intrusi”, «poi sono diventati amici e infine fratelli». Non c’è nel libro una cosa sentita dalla sua voce: il suo piacere più grande da sempre, fare un bagno nel “mare di Omero”, «ma non ne faccio uno da sette anni perché non me la sento di tuffarmi mentre i “ragazzi” in divisa che mi proteggono se ne stanno sotto il sole e gli sguardi dei bagnanti».

Testardo sicuramente, ma non fino al punto, come spesso si sente dire dai denigratori, di “essersela andata a cercare”. Per capirci non una testa calda ma una persona responsabile. Valga questa testimonianza di chi scrive. Il dirigente della squadra di calcio di Rosarno, poi finito in galera con tutto il vertice del clan dei Pesce che erano i padroni della società, aveva proibito al corrispondente, non gradito, del “Quotidiano della Calabria” di accedere al campo. Mi recai da Michele a Polistena e gli dissi che pensavo di andare simbolicamente io allo stadio per fare la cronaca della prossima partita. Stemmo a lungo a parlare e lui, in tutti i modi, quasi fino alla commozione, mi disse che non me lo avrebbe consentito perché non si poteva esporre il direttore del giornale. Tornando a Cosenza convenni che aveva ragione lui perché la ‘ndrangheta si combatte con i fatti e non con gesti simbolici.

*Recensione pubblicata il 18 dicembre 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

Se la sinistra divora se stessa

Quando e come finirà la parabola di Vincenzo De Luca, sarà possibile trarne un giudizio più vicino alla storia che alla cronaca, meglio restare ai fatti che, per quanto testardi, in tempi di confusione generale lasciano aperte le porte a più di una previsione. Dal 1970 la Regione ha avuto due presidenti di sinistra: Antonio Bassolino e De Luca. Quasi coetanei, sono militanti e dirigenti del Pci e via via seguono anche da protagonisti le trasformazioni di quel partito. Personalità assolutamente diverse sotto molteplici profili, a partire dallo stile e dal carattere: combattivo ma tutto politico il primo, al quale non sono mai scappate un’offesa a un avversario o un cedimento nel rispetto delle istituzioni; brutale e arrogante il secondo che al confronto preferisce il comizio, specie se televisivo, condendolo con sberleffi e colpi di teatro. Ambedue sindaci apprezzati per anni nelle loro città, Napoli e Salerno, lasciano i rispettivi municipi nelle mani di persone chiaramente volte a continuarne l’opera. E tutt’e due approdano alla Regione per due mandati, conclusi per Bassolino, in corso quello di De Luca. Sono uomini della Prima Repubblica, della Seconda e chissà di quale altra in corso o all’orizzonte, e soprattutto attraversano spesso da protagonisti la crisi della politica e dei partiti: anche una breve esperienza di ministro l’uno e di sottosegretario l’altro. Quanto alla loro considerazione dell’impegno di governo della Regione la differenza non è irrilevante: Bassolino, pur essendosi ricandidato per la seconda volta, non vedeva l’ora di arrivare a conclusione e ha riconosciuto di aver commesso un errore quando lasciò prima della fine del mandato il ruolo di sindaco; De Luca è di tutt’altro avviso considerato che intende candidarsi per la terza volta provocando un acceso dibattito contro la proposta di rendere possibile il terzo mandato.

Ora, non so quanto sia azzardato analizzare un altro aspetto, vale a dire l’azione di contrasto alle loro esperienze di governo regionale. Da tempo va crescendo un vasto e qualificato movimento di opinione che intende limitare il potere di De Luca e il sistema non solo familiare che gli ruota attorno. Anche la popolarità conquistata durante la pandemia incomincia a scricchiolare proprio in materia sanitaria. In altri ambiti ormai monta la protesta. Si è detto del terzo mandato che ha fatto scendere in campo figure della cultura e della politica di rilievo, ma ancora più eclatante (il terzo mandato sarà pure un errore ma va detto che esiste potenzialmente già in altre regioni) è il terremoto che sta avvenendo in un settore, in cui il presidente svolge pure le funzioni di assessore, la cultura in questa comprendendo con un po’ di arbitrio spettacoli, feste e sagre. Non è dato prevedere che cosa questa protesta possa sortire, tenuto conto che i numeri alla Regione sono quelli che sono, ma è un fatto nuovo dopo anni di grigiore, assuefazione, silenzi e convenienze.

Ed è altrettanto un fatto che molti protagonisti di questo movimento sono, per quanto il termine più che desueto risulti incerto, di sinistra o, volendo largheggiare, di centrosinistra se non comunisti o, meglio, ex comunisti. Tanti nomi, uno per semplificare: Isaia Sales, che è un saggista di grande valore specie per i suoi lavori sulla criminalità, e che è stato un dirigente salernitano del Pci e poi del Pds, deputato, e che fu consigliere economico di Bassolino alla Regione dal quale poi dissentì tanto da dimettersi.

Bassolino, appunto. Lui ha vissuto più vite, sicuramente uno spartiacque furono le ultime fasi della sua seconda esperienza regionale. Con i rifiuti per le strade fu investito da uno tsunami, corredato da diciannove inchieste giudiziarie che si sono concluse con assoluzioni. Massiccia fu l’azione del suo “mondo” che o non lo difese o lo contrastò senza risparmio fino a contemplare la discesa in campo, con interventi dal Quirinale e da Villa Rosebery, del presidente Napolitano. Lunga è stata la fatica per risorgere ma a modo suo è sempre presente sulla scena.

Queste due storie, diverse per molteplici e sostanziali fattori e dall’esito per quella di De Luca ancora tutto da vedere, hanno in comune la rivolta all’interno dello stesso mondo di cui i due hanno fatto e fanno parte, il che risulta ancora più rilevante se si ricorda il non sempre deciso impegno delle forze di opposizione. E allora viene da chiedersi se non sia anche questa una conseguenza della crisi della politica, del tramonto dei partiti e della personalizzazione dei processi decisionali per cui quel mondo vagamente di sinistra alla maniera di Crono genera figli e poi li divora.

*Editoriale pubblicato il 6 aprile 2022

Spiagge, un bene non comune

Scena prima: «Guardate che incanto… era nascosto a tutti, sebbene sia nel cuore del paese… Oggi abbiamo iniziato a pulirla, con il tapiro. Oggi l’abbiamo curata, riportata alla luce. Oggi è continuata la rimozione degli abusi. E torna la bellezza. Passateci, scendete in spiaggia, toccate l’acqua. È vostra, è di tutti. Adesso è di nuovo un patrimonio del popolo… E di chiunque ama la nostra terra. Passeggiate. Andateci. Ammirate le albe ed i tramonti. State lì con il vostro fidanzato, correte con gli amici, giocate con i bimbi. Portatevi asciugamano e ombrelloni. Portate le sedie a sdraio. Andate con un panino a pranzo, una pizza la sera».

Scena seconda: sedici lotti, sedici spazi per i privati dove poter allestire lidi balneari, qualche chilometro di arenile urbano interdetto ai cittadini che, se non pagheranno, la loro spiaggia la potranno vedere in cartolina.

Succede nel golfo di Napoli, ma, se la prima è un’eccezione, la seconda è norma, o quasi, un po’ dappertutto. Ora, se togliamo al sindaco di Bacoli, Giosi Della Ragione, l’enfasi del discorso, compendiamo che l’aver recuperato dopo mezzo secolo una spiaggia di tremila metri quadri e soprattutto l’averla messa a disposizione dei cittadini senza il vincolante acquisto di servizi non sono fatti che rientrano nelle nostre consuetudini. Il caso vuole che nello stesso giorno a Castellammare venga presentato il nuovo piano spiagge che dovrebbe privatizzare un arenile vastissimo e appetibile, nonostante sia solo da qualche tempo utilizzabile mentre il mare dovrebbe ritornare prima o poi balneabile. Il piano interessa tutta la linea di costa, dagli ex Cantieri Metallurgici, quasi al confine con Torre Annunziata, fino alla Villa Comunale. E la quota obbligatoria per legge del trenta per cento di spiaggia libera è prevista di fronte alla Villa Comunale, dove una barriera di stabilimenti balneari sarebbe impensabile oltre che oscena, mentre tutta l’area a nord fino alla “Marina di Stabia” verrebbe riservata ai privati. Solo per inciso va ricordato che alle spalle di questa linea di costa da anni, anche con rilevanti strascichi giudiziari, insiste una vasta e appetibile area in attesa di futuro. Infine sull’altro versante, direzione penisola sorrentina, è in forse il destino pubblico delle due uniche spiagge libere attrezzate che furono il risultato di una mobilitazione popolare di esattamente cinquant’anni fa in cui chi scrive ebbe un ruolo.

Sia chiaro, Castellammare è solo una tessera di un mosaico di sdemanializzazione di fatto a uso privatistico che contraddistingue gran parte delle nostre coste, e non solo regionale, qui se ne parla per la coincidenza temporale delle due notizie, ma in verità la notizia davvero nuova è quanto accaduto a Bacoli perché assolutamente in controtendenza e, chissà, se durerà nel tempo, perché, come si dice dalle nostre parti, «dicette ‘o pappice vicino a’ noce, ramme ‘o tiemp’ ca te spertose». Previsione, questa, molto realistica se solo si tiene presente la campale battaglia condita di polemiche, carte bollate e sentenze in atto da mesi sulla durata delle concessioni delle spiagge ai privati e dell’idea degli stessi di considerare le medesime loro proprietà a vita. Un po’ come le strade e i marciapiedi di tante nostre città, Napoli in testa, invasi da gazebo gastronomici di variegata qualità che un po’ alla volta diventano parte della cartolina iconica con la differenza che il pino prima o poi lo abbatti mentre lo scempio lo conservi gelosamente.

 

*Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’11 febbraio 2022

Flessibilità ma anche rigore

«Stiamo lavorando ad un progetto senza ideologie o integralismi, nel segno della flessibilità». È quanto dice a Anna Paola Merone, che lo intervista, l’assessore Edoardo Cosenza anticipando le imminenti decisioni sul piano traffico per il Lungomare. Questo dovrebbe, infatti, essere flessibile nel senso che in giorni prestabiliti circolerebbero le auto (non tutte) e in altri no. Ora, senza entrare nel merito del dispositivo che sicuramente vede favorevoli e contrari, pesiamo quel termine, flessibilità, che Cosenza (nessuna parentela… che io sappia) ha utilizzato e che evidentemente può essere anche riferito a una linea di condotta più generale. Nel 1992, alla vigilia delle Olimpiadi, chi scrive visitò Barcellona e, provenendo da una città caratterizzata da un tappeto di auto parcheggiate in luoghi straordinari come, uno per tutti, piazza Plebiscito o in improbabile movimento nelle sue arterie piccole e grandi, rimase impressionato fin dal primo impatto quando con la sua vettura penetrò nel cuore della capitale della Catalogna scoprendo che in alcune grandi arterie urbane le corsie destinate ai due sensi di marcia, regolati da semafori intelligenti, variavano di numero a seconda dei volumi di traffico, per cui potevi ritrovarti con due corsie in un senso e sei nell’altro o, due ore dopo, con quattro e quattro e così via. Un’innovazione per quei tempi nel segno, appunto, della flessibilità.

Dunque, nessun pregiudizio ideologico o di altra natura sul proposito dell’assessore Cosenza. La città non è un corpo ingessato e tutto quanto congiura a renderla più vivibile, sicura ed efficiente garantendone caratteri e bellezza, ben venga. Poi si giudicherà dai risultati sperando che si abbia anche la capacità di ritornare sui propri passi se non dovessero essere quelli sperati. Ciò detto, va però consigliato all’amministratore di aggiungere un’altra parolina, non affatto scontata a Napoli, in modo che lo slogan suoni così: nel segno della flessibilità e del rigore. E non è assodato che la flessibilità venga prima del rigore, anzi c’è da ritenere che sia vero il contrario.

Il disordine della città e i mille abusi che avvengono in ogni angolo fino a rendere faticosa e a volte insopportabile la vita degli abitanti, al tempo stesso vittime e carnefici, sono tanto evidenti che non serve rifarne il noioso e stucchevole elenco. Da anni, da troppo tempo, salvo qualche passeggero sprazzo di legalità, sono parte integrante del panorama. Certo sarebbe bello e auspicabile che gli abitanti facessero la loro parte con comportamenti rispettosi dei diritti degli altri, ma ciò non avviene e, dunque, occorrono controlli e consigli dove i primi sono indispensabili considerato che i secondi sono… consigli. Diamo la colpa a loro? Certo, anche a loro. Prendiamo ad esempio il ruolo dei vigili urbani e lasciamo stare la scusa del loro esiguo numero perché le cose non andavano diversamente quando non erano a ranghi ridotti. Diamo la colpa a loro? Certo, anche a loro? Ma essi sono la base di una piramide risalendo la quale si arriva agli ufficiali, al comandante, all’assessore (il collega di Cosenza) e al sindaco. E il rigore deve venire dall’alto per diventare una regola di comportamento e, nel caso in esame, di ingaggio, che poi si rifletterà inevitabilmente sui cosiddetti utenti, i cittadini, che devono uniformarsi alle regole per convinzione o per necessità.

Siamo appena all’inizio di una fase, si spera nuova, della vita cittadina, non sappiamo ancora se questa amministrazione comunale, stante la situazione finanziaria e, non dimentichiamolo mai, sanitaria, possa muovere i suoi passi come è necessario. Ma serve partire con il piede giusto. Sicuramente con scelte razionali e anche flessibili ma rigorosamente. Non per creare una situazione poliziesca e comprimere diritti e bisogni, bensì per tutelare i diritti di tutti e la bellezza della città. Poi discutiamo pure di Terzo, Primo e di Tutto Il Mondo, tanto in questo siamo bravi e vinciamo a mani basse il campionato del nulla.

*Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’1 dicembre 2021

 

 

 

 

Due nodi per Manfredi

I due nodi che il nuovo sindaco è chiamato a sciogliere sono i soldi e il personale. Come farà e se ci riuscirà non si sa ma in ogni caso non potrà prescindere da queste strettoie: al Comune di Napoli servono circa cinque miliardi di euro per onorare i debiti e qualche migliaio di dipendenti per far funzionare la macchina. Si vedrà. Ma se questi obiettivi in toto o in parte saranno raggiunti ci si dovrà anche chiedere come evitare che un disastro di tale portata sia replicabile in futuro, anche perché Napoli non si trova per la prima volta in queste condizioni come ci insegna il ricorso o richiamo a leggi speciali. Nel frattempo la città, dal Banco di Napoli all’Italsider, ha via via perso i presidi che le garantivano prestigio, agibilità finanziaria e lavoro, e non è detto che il passaggio dall’acciaieria alle friggitorie sia stato un buon risultato. Basta che ce sta ‘o sole… Beh, bisognerebbe finirla con questo unguento sulle ferite se poi ti ritrovi in coda alla classifica della vivibilità. Un dato del bilancio comunale appena approvato va messo bene in evidenza: solo un napoletano su tre paga le tasse. A parte i portoghesi padroni del nostro sistema di trasporto su gomma, piaga forse sanabile con i tornelli alla salita sui bus e con i carabinieri all’uscita dagli stessi, parliamo piuttosto di tasse. Quell’unico napoletano che le paga è vessato molteplici volte: lo fa, ma poi paga in buona parte anche per i due che mancano all’appello. E spesso e volentieri si sente ribollire dalla rabbia quando, essendo un contribuente raggiungibile, se malauguratamente viene richiesto di sanare un errore è sottoposto anche alla beffa di una sanzione spesso molto onerosa dopo file e attese scoccianti. Intanto le casse del Comune languono.. Colpa del personale carente che non stana gli evasori? Ma ciò accadeva anche quando negli uffici non c’erano posti a sedere. Anni fa in un’inchiesta giornalistica sulle pratiche di abusivismo piccolo e grande che giacevano impolverate negli scaffali, il dirigente si appellò alla mole spropositata dell’arretrato e alla mancanza di impiegati: gli fu replicato che se nei 365 giorni dell’anno, sottratti festivi, riposi e ferie, l’ufficio avesse evaso due-tre pratiche al giorno quella montagna sarebbe diventata una collinetta e nel giro di qualche anno una pianura. Sorrise.

Cambiamo orizzonte ma non argomento. Le cronache prima ancora delle serie televisive ci ricordano quanto grave sia la presenza della camorra. Ma poi c’è la camorria, un veleno insidioso e contagioso evidenziato da una sterminata casistica di piccoli e grandi episodi di egoismo, prepotenza, abusi, violazione di regole civili e leggi. Prendiamo la sosta in doppia fila. Da sempre, quando si è chiesto al comandante dei vigili urbani come mai la città fosse così poco controllata la risposta è stata: abbiamo pochi uomini. Sia quando erano molti sia ora che sono davvero pochi. Ma qualche amministratore si è mai posto il problema di domandargli, per esempio, come mai le auto in doppia fila siano una piaga d’Egitto con conseguenze devastanti sul traffico, la mobilità e la tranquillità dei cittadini? Riflettete sull’automobilista che dal negozio dove è andato a fare compere o a prendere un caffè giunge trafelato dicendo che va via, al quale il vigile non fa la multa dal momento che la vettura è stata spostata. Ma che accade dopo? La doppia fila si riforma e sparisce solo di notte perché tanto c’è la scappatoia se si è appena vigili e si sta attenti a guardare casomai dovesse arrivare il… vigile. Invece se si facessero drasticamente le contravvenzioni, si ridurrebbe via via il numero dei trasgressori e forse sparirebbe anche la sosta in doppia fila, mentre ora per eliminarla occorrerebbe non un vigile di quartiere bensì uno fisso di strada. Responsabilità dei vigili o delle regole di ingaggio?

I napoletani fanno bene ad augurarsi che il Comune sia messo nelle condizioni finanziarie adeguate ai bisogni della città ma il sindaco si dovrà preoccupare non prima né dopo bensì contestualmente e risolutamente delle procedure e modalità di funzionamento della macchina comunale partendo dalle fondamenta: far pagare le tasse (e i biglietti) a tutti e non solo a un terzo dei napoletani, garantire il rispetto delle regole elementari per l’agibilità e il decoro della città, verificare che le direttive dai vertici agli uffici siano precise, rigorose e valide, che i controlli siano costanti e chiedere conto dei risultati. Senza questi presupposti, che dovrebbero essere scontati ma non lo sono affatto, il pur necessario ragionare di progetti e di futuro rischia di essere una fuga in avanti. E poi continueremo, di tanto in tanto, a risentirci quando ci muovono l’accusa, gratuita per una ex capitale e oggi faro di creatività culturale, di essere una città del Terzo Mondo.

*Editoriale pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno venerdì 19 novembre 2021