Nell’attesa della pioggia dei missili su ll’Iraq, una guerra così lontana, facemmo cose che solo la
perdita di lucidità poteva spiegare e non giustificare. A mia memoria sugli scaffali non ci fu più
traccia di scatole di legumi e pomodori, di barattoli di marmellata, di bottiglie di passate e oli, di
pacchi di farina e zucchero. E poco ci preoccupammo di donne, vecchi e bambini che furono
trucidati dalle carezze americane o dei sopravvissuti, che riportarono ferite non solo fisiche, forse
perché dalla pelle diversamente pigmentata o dalle fede in altre divinità se non soprattutto perché
prescelti dalla natura a poggiare i piedi su un suolo che ricopriva un bene prezioso e ambito. Ma la
paura della guerra e di rimanere a digiuno quella sì che ci angosciava, ci terrorizzava e ci spingeva a
fare cose irrazionali perché prese il sopravvento l’istinto della sopravvivenza e della precarietà. Un
modo efficace per ricordarci che la globalizzazione non era un’invenzione degli economisti o dei
geografi.
Ora, mentre è in corso una guerra più vicina e quasi si sente il rimbombo delle bombe e il grido di
dolore di vecchi e bambini, di mamme e nonne, le file alle pompe di benzina e gli scaffali svuotati
dei supermercati anche con scene poco eleganti forse si possono pure spiegare ma non senza
qualche riflessione.
Io che la guerra non l’ho vissuta e ne ho solo letto e sentito parlare, mi ritrovo a vivere la guerra
nella sua rappresentazione di commestibile corsa alle vivande e di gara con i prezzi dei carburanti
(che altro è la coda per fare un pieno per risparmiare qualche euro rispetto a quello che costerà il
giorno dopo!) che, appunto dopo Bush e l’Iraq e ora con Putin e l’Ucraina, ci è arrivata dentro casa.
Ovviamente ce n’è anche un’altra, più importante e vera. Penso a Irina che per poche ore gira per
casa con aspirapolvere e detersivi cercando di nascondere il viso che di tanto in tanto si riga di
qualche lacrima e, se le chiedo notizie sui suoi, balbetta la sua disperazione, o a mia sorella che mi
telefona per dirmi che, dopo molte ricerche, è riuscita a prendere contatti con la bambina di
Chernobyl, oggi una donna, che entrò nella sua famiglia per molti mesi per rigenerarsi dall’aria
infetta che aveva respirato nel suo paese, e mi racconta il dramma di queste ore.
E poi c’è anche un’altra guerra che mi tormenta. Esprimere il mio pensiero e manifestare le mie
preoccupazioni. Non trascuro il fatto che sia in corso una genuina gara di solidarietà, commovente
e necessaria, verso i profughi, spesso parenti e amici di persone che vivono da anni nelle nostre
città e nelle nostre case, e quando ci penso non nascondo che mi sento orgoglioso di appartenere
a questa gente. Però, basta avvicinarsi a un social ma anche a spazi ben più qualificati per
constatare come ci voglia così poco coraggio a fare la guerra delle parole e, a dosi copiose, delle
contumelie. Stai di là o stai di qua? E giù odio, veleni, accuse. Se non ci fosse la trincea del video
volerebbero a dir poco le sedie. Non mi piace tutto questo e provo disagio a esprimere il mio
pensiero, tant’è che questa è la prima volta che lo faccio non tanto, come si vede, per dire come la
penso sull’aggressione di Putin all’Ucraina quanto soprattutto per chiedermi, date queste
premesse, che cosa accadrebbe se davvero finissimo in una guerra.

  • Racconto pubblicato il 17 marzo 2022 sul Corriere del Mezzogiorno