«Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, rispose alla figlia che era appena uscita dalla scuola elementare: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame». Vai poi a spiegare a una bambina che il papà, che è un giornalista, per il suo lavoro viene considerato un amico degli sbirri, quindi un infame. Ma il colpo allo stomaco fu forte perché evidentemente nella famiglia del compagno di classe si parlava di lui e del suo lavoro, e si poteva pensare che fosse una famiglia ‘ndranghetista ma in caso contrario non sarebbe stato meno grave perché si sarebbe trattato di un’evidente manifestazione di subcultura mafiosa. E non potette, il padre, non pensare alla sua infanzia, di quando all’età di sette anni fu testimone di un delitto: «Allora ho conosciuto l’orrore del sangue e il fuoco delle armi». Lui è Michele Albanese, giornalista del “Quotidiano della Calabria”, cronista che da sette anni vive sotto scorta perché, solo per un pelo, non saltò in aria con la sua macchina. La sua storia è ora raccontata da Gabriella D’Atri in un libro (La ribellione di Michele Albanese, Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50) che è consigliato a chi vuol capire, al di là dei luoghi comuni, che cosa è la Calabria.

17 luglio 2014. Prima di mezzogiorno Albanese si trova a Sinopoli, nella Piana di Gioia Tauro, per prendere le notizie di un omicidio, ha appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili sul corpo quando riceve una telefonata: deve essere condotto urgentemente alla Questura di Reggio Calabria. Da Sinopoli a Reggio pensa alle più svariate ipotesi, anche quella “di essere arrestato”, ma non immagina che da quel momento la vita sua e della sua famiglia sarebbe cambiata per sempre. «Lei è in pericolo. Il piano per ucciderla era pronto. Si erano già procurati l’esplosivo. L’intercettazione è chiarissima. Inequivocabile». Poche ore prima i due ‘ndranghetisti parlavano al telefono, certi di non essere ascoltati perché erano andati in zone senza campo, ma non sapevano di essere intercettati da una microspia di ultima generazione sistemata sull’auto. «U vogghiu mortu”, poi prendono accordi per un “lavuru pulitu”, il tritolo da mettere sotto la vettura “sutta u latu da guida” e poi “nu radiucumandu… buum”.

Dava fastidio, Michele Albanese, perché ogni giorno i suoi articoli erano strali che si conficcavano nel corpo della ‘ndrangheta: non cronaca arida, ma relazione tra fatti, uomini e cose, analisi delle strategie, un lavoro giornalistico completo, a tutto campo, dalla cronaca nera alla giudiziaria, dalla politica all’economia, che goccia dopo goccia aveva riempito il vaso di chi, non solo la ‘ndrangheta, riteneva intoccabile il suo potere. Ricorda il metodo di Giancarlo Siani che, se ai suoi tempi ci fossero stati gli strumenti di oggi, probabilmente non sarebbe diventato un martire. Cattolico militante dall’infanzia, conosce vita e miracoli della sua terra. Quando raccontò l’inchino della processione del santo davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta locale si guadagnò l’odio del prete e della gente, ma poi la chiesa di papa Francesco cambiò le regole e gli inchini sono finiti. Dice Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria che dispose la scorta: «Aveva dato parecchio filo da torcere, e chi conosce Michele Albanese sa che nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo».

È cambiata la sua vita ma non il mestiere. In condizioni ben più complicate fa il suo lavoro dalla Piana. «Quello che ho sempre più apprezzato in Michele Albanese – scrive don Luigi Ciotti – è aver fatto dell’impegno a testimoniare la verità una scelta non solo professionale ma di vita». Ed è forse ciò che non gli perdonano quelli che sminuiscono – lo fanno anche per altri colleghi sotto scorta, purtroppo – i sacrifici quasi insinuando che sia comoda la vita sotto scorta. Bisognerebbe parlare con la moglie e le figlie senza il cui sostegno perfino commovente non si sa se lui avrebbe retto, ma si rimanda a una lettera molto bella che Michele scrive ai tantissimi poliziotti che si sono succeduti a proteggere lui e la famiglia in questi anni ricordando che all’inizio li vedeva come “intrusi”, «poi sono diventati amici e infine fratelli». Non c’è nel libro una cosa sentita dalla sua voce: il suo piacere più grande da sempre, fare un bagno nel “mare di Omero”, «ma non ne faccio uno da sette anni perché non me la sento di tuffarmi mentre i “ragazzi” in divisa che mi proteggono se ne stanno sotto il sole e gli sguardi dei bagnanti».

Testardo sicuramente, ma non fino al punto, come spesso si sente dire dai denigratori, di “essersela andata a cercare”. Per capirci non una testa calda ma una persona responsabile. Valga questa testimonianza di chi scrive. Il dirigente della squadra di calcio di Rosarno, poi finito in galera con tutto il vertice del clan dei Pesce che erano i padroni della società, aveva proibito al corrispondente, non gradito, del “Quotidiano della Calabria” di accedere al campo. Mi recai da Michele a Polistena e gli dissi che pensavo di andare simbolicamente io allo stadio per fare la cronaca della prossima partita. Stemmo a lungo a parlare e lui, in tutti i modi, quasi fino alla commozione, mi disse che non me lo avrebbe consentito perché non si poteva esporre il direttore del giornale. Tornando a Cosenza convenni che aveva ragione lui perché la ‘ndrangheta si combatte con i fatti e non con gesti simbolici.

*Recensione pubblicata il 18 dicembre 2021 sul Corriere del Mezzogiorno