La camorra che violenta la politica

Come da tradizione, quella notte era destinata all’affissione dei manifesti. Era venerdì e a mezzanotte era stata chiusa la campagna elettorale, bisognava andare a dormire ma a quel tempo non si usava e ognuno cercava di ricoprire quanti più tabelloni e muri in un tripudio di simboli, prevalenti la falce e martello del Pci e lo scudo crociato della Dc. All’incrocio di via Regina Margherita con viale Europa ci ritrovammo schierati noi comunisti da una parte e i democristiani dall’altra. Tensione alta, non era chiaro il motivo, di sicuro era forte la voglia un po’ guasconesca di prevalere. Ed era evidente la preoccupazione dei dirigenti dell’uno e dell’altro fronte anche perché tra i galoppini, molti pagati, della Dc e tra qualcuno dei nostri non si aspettava altro che di venire alle mani. Non mancavano teste calde. Tra noi c’era “palla ‘e sciore”, un pregiudicato che compariva solo dopo il comizio di chiusura delle campagne elettorali per dare una mano a quello che diceva era il suo partito. Cacciarlo? Non era semplice, in ogni caso si sapeva che come era comparso all’improvviso, così il lunedì sera, a schede scrutinate, sarebbe sparito. Fatto sta che platealmente mise le mani in tasca ed estrasse una “cordamiccia” agitandosi per innescarla con la brace di una sigaretta e minacciando di lanciarla sugli avversari. Si evitò il peggio grazie a un dirigente con le spalle solide e, sull’altro schieramento, al parlamentare calato da Gragnano.

Castellammare viveva di pane, lavoro e politica. Nelle fabbriche non c’era spazio per i delinquenti, sarà così per decenni e quando al tempo del terremoto la camorra tentò di mettere le mani sulle ditte appaltatrici del cantiere navale la difesa fu tanto granitica che un sabato mattina la città fu svegliata dalla bomba che esplose al Supercinema dove doveva tenersi – e si tenne! – una manifestazione del Pci annunciata da un manifesto che a caratteri cubitali intimava: “Giù le mani dal cantiere”. Non che la camorra non ci fosse stata nei decenni precedenti, essa era rigorosamente confinata nell’angolo benché alcuni suoi esponenti svolgessero attività bene in vista, anche alberghiere, e ambissero a loro modo al “rispetto”. Ma il rispetto, per dirla tutta, ce l’avevano, anche loro, per i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni del tessuto democratico, in uno strano sistema di convivenza.

Poteva accadere che il futuro boss antagonista e sconfitto del clan D’Alessandro, Mario Imparato, addirittura svolgesse attività politica prima di dileguarsi nei boschi tra Quisisana e Pimonte dove trovò la morte. E ancor prima che il futuro suocero del boss di Torre Annunziata venisse incautamente proposto come funzionario di partito mentre scriveva sonetti politici. E si potrebbe continuare.

Un po’ ci giustificavamo ricordando spesso una frase attribuita a Togliatti: siamo un fiume in piena che lungo il suo corso accoglie di tutto ma via via si depura e arriva pulito e trasparente alla foce… Un giallo fresco di stampa, “Il comunista” di Angelo Mascolo, ambientato nella settimana delle elezioni politiche del 1948, ne racconta qualche frammento.

Che c’entra questo amarcord con i fatti di questi giorni? L’arrivo della commissione di accesso agli atti del Comune è un vulnus per la città. Si vedrà quanto ci sia di vero nel sospetto che le attività amministrative siano condizionate dalla camorra, ma l’immagine che viene fuori dalle inchieste di questi anni, propedeutiche alla decisione del prefetto Valentini e del ministro Lamorgese, è quella di una città di camorra. Se un clan da tre generazioni spadroneggia in ogni direzione, dominando da un quartiere collinare trasformato in una fortezza inaccessibile, qualche domanda bisogna farsela: sullo Stato, sul Comune, sugli imprenditori, sulla politica, sui cittadini, sulla scuola. Mentre le terme restano chiuse, le acque minerali sono a rischio, l’industria è abbarbicata al suo cantiere-simbolo, l’antica fertile campagna è ridotta al lumicino dalla disordinata e spesso selvaggia espansione urbanistica, un capillare sistema di tangenti è un normale fattore dell’economia e minacce e perfino due omicidi hanno investito il mondo della politica e del Comune, da anni una battaglia più sotterranea che pubblica è in corso sul destino delle aree dismesse, specialmente quelle in prossimità del mare dalle parti di via De Gasperi: una vicenda su cui si sono giocate, vinte e perse tante campagne elettorali. Che quegli spazi, così appetibili, debbano essere utilizzati non ci piove ma l’incognita è su che cosa e come fare e chi debba tenere le redini del comando. Gli squarci che le recenti inchieste giudiziarie hanno gettato sull’operazione non lasciano tranquilli.

In uno scenario di progressivo decadimento della città e di incertezze sul suo destino si registra una presenza della camorra, non più ai margini ma soprattutto dal terremoto in avanti asfissiante e insopportabile anche se ad essa, fatta salva l’iniziativa meritoria ma ancora inadeguata degli apparati dello Stato e la schiena diritta di tanti sindaci e amministratori, in qualche modo ci si è fatto il callo.

Il simbolo di questa deriva dell’etica pubblica è in quanto accaduto nell’ultimo Consiglio comunale, la proverbiale goccia che ha portato alla nomina della Commissione d’accesso, quando il neo eletto presidente del Consiglio comunale ha elogiato il padre, un camorrista a termini di legge. Le sue parole non sono l’aspetto rilevante perché un figlio che ricorda il genitore, dei cui errori non porta responsabilità, può essere criticato ma anche umanamente compreso. Di grave c’è stato l’applauso dei consiglieri di maggioranza. In quella sala dedicata a Falcone e Borsellino era l’ultima cosa che doveva accadere.

La città, promette lo stemma comunale, deve risorgere. Con un bagno di verità. Si è troppo lasciato correre, lo si faceva anche in quel tempo di cui scrivevo all’inizio, ma, pur tra contraddizioni, esisteva un presidio democratico forte e articolato. Quando la camorra decise di non stare più alla porta ma di scendere in campo con crescente spregiudicatezza e prepotenza – Castellammare vantò anche il primato di un consigliere comunale “giustiziato” in quanto capo locale della Nuova Camorra di Cutolo – tra paure, complicità e sottovalutazioni si è intrapreso un cammino più che accidentato. E tutto questo è intollerabile in una città baciata dalla natura e storicamente resa vitale dalla passione e dalla maestria dei suoi abitanti. Sui social imperversano con successo gruppi che ricostruiscono non senza nostalgia per immagini e documenti il passato. “Libero Ricercatore”, una banca della memoria attivissima, ha pubblicato una foto della Villa Comunale splendidamente ombreggiata da un “bosco” di platani. Dava fresco, stimolava identità, invitava a stare insieme in quello spazio della cultura, della politica, della vita. Pure quello ora è un dolce e amaro ricordo.

*Articolo pubblicato il 29 maggio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

Napoli, si discute dei nomi non dei progetti

Un nuovo sindaco? Una nuova amministrazione? Per fare che? Soprattutto, per quale Napoli? Domanda più che lecita almeno per due motivi: il chiacchiericcio interminabile sui candidati senza uno straccio di discussione – e non parliamo di idee – sui programmi, e la constatazione che la città da decenni è ferma al palo, sottoposta a cambiamenti per lo più dettati dalle circostanze. L’unica opera di valore strategico – qui c’è per davvero un’idea di futuro – è la metropolitana il cui completamento va faticosamente realizzandosi. Ma pensiamoci un attimo, essa è il frutto di un colpo di mano geniale: il buco che Maurizio Valenzi e Luigi Buccico fecero a piazza Medaglie d’Oro quarantacinque anni fa. Furono dileggiati come la “banda del buco”, ma Napoli è così, una città dialettica, molto dialettica, e chi rompe gli indugi deve attendere il riconoscimento tardivo della storia, spesso post mortem. A dire il vero, in quegli anni, tra un colera e un terremoto, si progettò anche altro per il futuro. Un’interminabile discussione non fu inutile perché produsse una scelta urbanistica che ha definito il nuovo skyline della città: il Centro Direzionale progettato da Kenzo Tange, il primo agglomerato di grattacieli realizzato in Italia.

È molto? È poco? Complicato rispondere. Perché in una città così riccamente stratificata non è facile, per esempio, scegliere tra un’opera di rammendo, come raccomanda Renzo Piano, che poi architettonicamente fa scelte a suo modo rivoluzionarie, o interventi radicali sul tessuto urbano degradato. Sarebbe comunque un modo, sia l’uno che l’altro, per un’operazione urbanistica volta a migliorare la qualità della vita, il fatto è che Napoli da tempo non è rammendata – e come ce ne sarebbe bisogno! – ma al tempo stesso non è destinataria di alcun intervento di programmazione. A conti fatti la più importante scelta strategica, mentre il suo destino industriale è stato compromesso in profondità e vastità, fu la variante urbanistica generale fatta approvare da Vezio De Lucia, assessore della prima giunta Bassolino.

Ricordate il “Regno del Possibile”? In questi giorni, a seguito di uno scambio di messaggi, l’architetto Gerardo Mazziotti, che ancora non ha digerito la fine ingloriosa di quel progetto, mi ha indotto a riprendere i molti volumi che raccolgono il piano, il dibattito, la cartografia e tutti i documenti della società “Studi Centro Storico Napoli”. Il suo presidente, Enzo Giustino, non edulcorò la pillola e pubblicò un volume conclusivo in cui puntualmente si dava conto di tutte le posizioni. Le accuse furono pesantissime: l’operazione fu definita da un fronte vasto e qualificato una nuova edizione di “mani sulla città” e gli imprenditori privati che avevano lanciato la proposta si videro affibbiare propositi di ogni tipo, in sintesi esclusivamente speculativi. La città, la cultura e la politica si divisero, non si fecero desiderare gelosie accademiche e l’esito fu zero più zero. Quell’immenso lavoro non fu bocciato perché non fu mai esaminato in una sede istituzionale, semplicemente finì nel nulla (Raffaele Cantone una volta ha affermato che “Napoli è la città in cui si decide il Nulla”).

Andrea Geremicca, il dirigente comunista ricordato in questi giorni, anni dopo dichiarò che «il “Regno del Possibile” fu un tentativo di modernizzare la città e anche di sperimentare collaborazioni nuove tra privati e amministrazione pubblica», e rammentò che «negli Anni Quaranta Luigi Cosenza, certo non sospettabile di simpatie speculative, aveva proposto un piano regolatore che prevedeva lo sventramento dei Quartieri Spagnoli con l’apertura di una parallela di via Toledo». Severo fu il giudizio di Gerardo Chiaromonte: «Non vorrei che un giorno dovessimo rimpiangere l’occasione mancata di un dibattito serio e responsabile». Aldo Masullo: «È immorale, incivile e impolitico, per opporsi al male (le mani sulla città) difendere il peggio (la sofferenza delle persone e l’immobilismo mortale della città). Se ne discuta almeno».

Chiude questa piccola antologia (ci fu anche un clamoroso scambio di messaggi tra Gorbaciov e il sindaco Lezzi) Giuseppe Galasso: «L’urbanistica è la via per cui Napoli può stendere il ponte di cui ha bisogno tra il suo passato (che è tutt’altro che da rimpiangere in blocco) e il suo futuro (che è ancora tutt’altro che chiaro), ed essa è ormai, assai più di ieri, anche una lotta contro il tempo. L’adulterazione dell’identità e dell’immagine di Napoli sarebbe, lasciando passare il tempo infecondamente, assai più grave di altri attentati ad essa».

Città dialettica, molto dialettica? Stando a quel dibattito non si direbbe, ma discutere e non decidere, compresa naturalmente la bocciatura, non è la sintesi tra una tesi e la sua antitesi. A ben vedere anche lo stucchevole dibattito di questi mesi attorno al futuro sindaco è figlio di tale modo di procedere. Prima, e non subito, i nomi e poi, a parte rituali e scontati impegni per il verde, l’ordine, la pulizia e… l’innovazione, si vedrà per fare cosa, per esempio se aprire o chiudere via Caracciolo o la Galleria Vittoria.

*Editoriale pubblicato il 12 maggio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

Il Pd ora ha un problema

Con la discesa in campo di Sergio D’Angelo, ultimo in ordine di tempo dopo Alessandra Clemente e Antonio Bassolino, a sinistra c’è, potrebbe esserci, una folla di candidati a sindaco di Napoli, dove quel condizionale è legato al filo sottilissimo dell’eventualità di qualche “riconciliazione” in corsa o nel probabile ballottaggio. E naturalmente ci sarà un quarto, il candidato di Pd e Cinquestelle, o perfino, ipotesi allo stato più vaga, un quinto se questi all’ultimo momento dovessero prendere strade diverse. Dunque il Pd ha un problema politico prima ancora che elettorale. Finora è stato attento soprattutto a procedere con passo felpato tra le contraddizioni interne, gli accordi sulla scacchiera nazionale e innanzitutto la convivenza con De Luca, ed esterne, la complicata interlocuzione con i Cinquestelle . In questo estenuante lavorio, quasi la costruzione di un traballante castello di carte, ha chiuso molte porte. In una logica di ammiraglia ha fatto capire a tutti: al centro ci siamo noi, voi siete pedine, o vi acconciate alla bisogna o non andrete lontano.

Un messaggio che forse è stato ascoltato con attenzione da Alessandra Clemente, candidata da de Magistris ancora prima dell’apertura dei giochi. Lei ora si trova in una condizione non facile: quando fu lanciata dal sindaco questi era ancora sulla piazza, ma poi, con un colpo, va detto, geniale e, forse, anche vincente, si è candidato alla presidenza della Regione Calabria dove è in piena campagna elettorale per cui la sua presenza e il suo sostegno saranno oggettivamente ridotti. Chissà se quando sono circolate voci a proposito di un eventuale suo ritiro non sia stata questa preoccupazione ad alimentarlo.

Quanto a Bassolino il Pd ha rotto i ponti definitivamente con lui. L’ex sindaco era stato beffato cinque anni fa quando, sbagliando, partecipò alle primarie, poi da lui stesso definite generosamente “farlocche” al punto da ritenere irripetibile un’esperienza del genere. In tutto il tempo in cui Bassolino faceva intendere che sarebbe sceso in campo i dirigenti a vario titolo del Pd lo hanno prima ignorato, poi hanno iniziato a blandirlo: torna a casa, sei una risorsa e via complimentando. Lui ha pensato che fosse un modo per irretirlo costringendolo poi ad accettare e sostenere le loro soluzioni che chiaramente avrebbero teso ad accantonarlo, insomma una trappola. E così, tra avvertimenti e segnali, si è andati avanti per mesi fino alla sua decisione – è pur sempre uno dei fondatori del Pd – di candidarsi.

Infine Sergio D’Angelo. Anche questa era una candidatura annunciata da mesi. E che il numero uno del Terzo Settore, una persona esperta, di pluridecennale esperienza e di provate capacità non ne impedisse la circolazione era un segnale chiaro. Poteva essere sentito. Almeno ufficialmente c’è stato il silenzio che non si sa quanto giustificato dalle precedenti e da tempo concluse collaborazioni con de Magistris. In tremila, si sa, hanno sottoscritto un appello per chiedergli di candidarsi e lui lo ha fatto.

Un problema politico prima che elettorale. Tre candidati, in particolare Bassolino e D’Angelo, di grande spessore e storia, “gente di sinistra” come li definisce Luigi Roano sul Mattino, che se ne vanno per conto proprio, “si allontanano fino a diventarne avversari”. Il Pd punta al campo largo, una sorta di casa per più fedi, ma poi abbandona vaste aree della prateria nella quale dovrebbe trovarsi il suo popolo. Lo ha fatto già cinque e dieci anni fa regalando la città a de Magistris. Perché? Anni fa Moretti chiedeva a D’Alema di dire “una cosa di sinistra”, ora si osanna Fedez che pare ne abbia detta una. Prossimamente su questo schermo.

*Editoriale pubblicato il 5 maggio 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

 

Sindaco e presidente uniti dallo “spoils system”

Per quanto deprecabile, soprattutto quando riguarda funzioni tecniche, lo “spoils system” è una pratica politica acclarata e raramente contestata. Chi vince si prende il bottino, per stare all’etimologia, e governa per il tempo del mandato con l’ausilio di persone ritenute più congeniali al proprio disegno di gestione e, ovviamente, più affidabili. Il sindaco di Napoli in scadenza prorogata (i consiglieri comunali che gli hanno consentito di bypassare l’inciampo del bilancio farebbero bene a tacere) forse ha pensato di salvaguardare almeno per un triennio la fine del suo impero decennale. Da qui le sue scelte sulle aziende pubbliche comunali con un giro di valzer che renderà stabili appunto per tre anni le poltrone che ora si stanno per assegnare. Tutto lecito, sia chiaro, e da un ex magistrato non ci si potrebbe attendere comportamento diverso, ma è evidente che così facendo imbriglia le decisioni di chi, chiunque sia, sarà chiamato dai cittadini ad amministrare per cinque anni a partire dal prossimo autunno. A pensar male c’è anche il sospetto che in tal modo si rafforzerebbe la candidatura del suo vicesindaco, Alessandra Clemente, che per la verità, stando a qualche sondaggio che già circola, non sembra avere molte chances. Va però obiettato che se si conquista la simpatia dei nuovi amministratori si perde anche quella dei vecchi per cui il conto va in pareggio e può essere perfino controproducente come si vede dalla moria di assessori durante il lungo impero ora finalmente alle ultime battute.

Di “spoils system” non si preoccupa l’inquilino di Santa Lucia che essendo all’inizio del secondo mandato se lo può fare secondo gusti e necessità. Oltretutto, avendo generosamente caricato sulle proprie spalle una molteplicità di deleghe normalmente ricoperte da assessori, e incontrando pochi intralci in un Consiglio regionale assiso sugli spalti più che sulle seggiole istituzionali, può ben dire che lui la riforma costituzionale – governatore piuttosto che presidente della Regione – l’ha fatta in corso d’opera. Non mette conto ricordare le discusse decisioni in tema di cultura operate da Vincenzo De Luca… ce n’è sempre una fresca di giornata come quella della guida della Fondazione Ravello dove forse l’onnipotente, nonostante giocasse in casa, pare abbia trovato nel sindaco del delizioso comune un interlocutore resistente. Dalla cultura all’acqua la salernitanità, non disgiunta da complicati equilibri politici, è onorata dall’odierno rinnovo dei vertici della Gori, la società idrica che raggruppa un’ottantina di comuni dell’area vesuviano-sarnese e il privato Acea.

Nell’insanabile scontro di questi anni tra le due massime figure istituzionali della Campania, il presidente della Regione e il sindaco di Napoli, pur con caratteristiche, modalità e risultati diversi, si intravede qualche punto di contatto in questa gestione del potere fortemente caratterizzata. Storie e vite diverse le loro, caratteri forti e alternativi, profili professionali non assimilabili, il politico e il magistrato, in comune la visione politica essendo o essendo stati ambedue comunisti, alla fine inconciliabili al punto di prescindere totalmente dallo spirito di collaborazione più che doveroso operando ambedue nello stesso territorio. Ora questo duello sta per concludersi ma potrebbe addirittura continuare dal momento che de Magistris, che se ne sta andando in Calabria, nel prossimo futuro potrebbe confrontarsi da pari grado con De Luca. Si vedrà, ma ora e qui che cosa resta sul terreno? Molte macerie e una grande domanda di normalità. Più che speranza una necessità.

 

*Articolo pubblicato il 24 aprile 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

Unical, buon compleanno

Cinquant’anni di vita e, si può dire, non li dimostra. L’Università della Calabria nacque da una vicenda tragica, gli scontri per Reggio capoluogo, uno stato d’assedio senza precedenti nella storia repubblicana, concluso con la sfilata dei carri armati per le strade della città e sancito da un compromesso, il Pacchetto Colombo, che spezzò in due la nascente Regione, con sede del governo a Catanzaro e sede del consiglio a Reggio: al riguardo va detto con il senno di poi – ma le cose erano chiare anche allora – che non c’era modo migliore per far fallire la nuova e tanto attesa articolazione dello Stato. Piuttosto va sottolineato il ricordato pacchetto Colombo: centro siderurgico a Gioia Tauro (mai nato mentre venivano distrutti terreni altamente produttivi per far posto al porto), un po’ di mance qua e là e la nascita dell’Università a Cosenza. L’ateneo fu poi realizzato sulla collina di Arcavacata nel comune di Rende, dall’altra parte del pianoro su cui sovrasta con gli splendori del passato la vecchia Cosenza.
Nacque come qualcosa di nuovo, un campus, grazie a una personalità straordinaria quale Beniamino Andreatta ma il parterre, se pensiamo solo a Paolo Silos Labini, era di prim’ordine. E tali furono i progettisti e poi i docenti che calarono su quei cubi e su quel ponte per scommettere sulla Calabria delle idee e delle competenze e su un altro Sud.
Scommessa vinta? Bisogna chiederlo alle migliaia di studenti che lì si sono fatti le ossa e si sono laureati. Molti sono andati via, e continuano a farlo, ma questo è un altro problema che non attiene alle responsabilità dell’Università, che forse nel tempo ha accumulato il limite della separatezza, vale a dire la carente ricaduta del suo ruolo sulla società calabrese nei suoi vari aspetti, politica in primis.
Se ne può discutere, ma su un fatto non ci sono dubbi: per quanto dentro un compromesso che alla fine è risultato un fallimento per la Calabria, quella scelta fu giusta. La Calabria sarebbe davvero altra cosa senza quell’ateneo, che è un patrimonio concreto di intelligenza e di studio, di competenze e di cultura, anche di tensioni gravi e in qualche modo vitali se solo si ricordano gli anni tempestosi del terrorismo quando da quelle parti si aggiravano arcavacanti e lupi mannari.
Nei miei anni di lavoro in Calabria, terra che frequentavo anche prima e continuo a farlo con gioia immensa, ho sempre pensato che quell’università potesse essere la leva per invertire la storia calabrese, nel senso di rinnovarla, darle un colpo d’ala, liberarla dalle catene del pregiudizio e della cattiva percezione interna ed esterna. Finora non è stato così o lo è stato solo in piccola parte, ma sono sempre convinto che da lì potrebbe venire la sterzata che cambia in profondo lo stato di cose. L’augurio è che ciò possa avvenire nei prossimi cinquant’anni ma da subito e non tra cinquant’anni, soprattutto che i giovani non si sentano in transito in quelle aule: vadano pure altrove in un mondo senza confini ma possano anche ritornare altrimenti la loro sarebbe una fuga, il peggio che possa capitare e che finora è capitato troppo spesso.

Aria nuova (e promettente) nella Chiesa di Napoli

Soffia, fresca e promettente, l’aria nuova nella Chiesa napoletana. Napoli è un territorio, meglio ancora un mondo sterminato di storia, umanità, contraddizioni, simboli, credenze, passioni, miserie e splendori tale da incutere timore, ansia, forse anche un sentimento di inadeguatezza, ma don Mimmo Battaglia non s’è perso d’anima e ha fatto da subito quello che faceva da sempre: stare tra la gente, piegarsi sulle piaghe, ascoltare, pronunciare parole chiare e vere, sottolineare doveri e diritti, andare al cuore dei problemi, infondere la speranza che non attende e che si fa impegno, invitare al coraggio che vince le paure. È la chiesa di Francesco, del papa che il venerdì, a sorpresa, entra nei luoghi della sofferenza professando misericordia con una mano sulla testa, un abbraccio, una carezza, un sorriso agli ultimi, agli umiliati e offesi, agli scarti. La chiesa che fa il suo mestiere di sempre quando non si incartapecorisce trasformandosi in potere tra i poteri.

Neanche il virus, che pure lo ha toccato fisicamente, ha fermato il nuovo vescovo di Napoli. Anzi. La sua è già una presenza viva nella città dei mille problemi, le sue giornate sono piene di incontri, di visite, di discorsi, di appelli, di progetti. E, come avviene soprattutto nei periodi difficili, il tam-tam produce rapidamente i suoi effetti e così dagli operai della Whirlpool ai mercatali, dai singoli ai gruppi il suo intervento è richiesto, ascoltato, rispettato. Lui non si sottrae. Tra la denuncia e l’implorazione si fa strada la richiesta, tutta politica, di soluzioni e non di prebende. Per poveri e povertà, che “non sono categorie sociologiche”, propone una “cordata sociale”. A chi gli segnala che in una chiesa sono ancora ben esposti i quadri regalati dai Nuvoletta, gli assassini di Giancarlo Siani, non risponde con il silenzio o parole inutili bensì con l’ordine di rimuovere quei doni sgraditi e “grondanti sangue”. Uomo del nostro tempo, chatta quotidianamente con i cinquecento sacerdoti della sua diocesi. Ai ragazzi di Procida che hanno “salvato la processione del Venerdì Santo” scrive: «Ogni volta che penso ai ragazzi e ai bambini, mi torna alla mente la tavolozza dei colori che utilizzano i pittori per le loro opere. Voi ragazzi e bambini siete un mix di colori in grado di dare vita anche alle giornate più buie. Siete un dono immenso e prezioso per noi adulti e, forse non ve lo diciamo spesso, ma guardare a voi, al vostro modo di affrontare e vivere la vita, è un grande esempio per noi adulti».

Viene, ricordiamolo, dalla Calabria dove i colori, bellissimi, sono intensi pur in aree spesso su altro versante troppo opache o dipinte come tali. In quella terra, più nota per le aree grigie e martoriata da una perenne considerazione negativa di dentro e di fuori, uomini di chiesa di valore hanno fatto e fanno sentire la loro voce. Certo, ci sono quelli che consentono profanazioni simboliche ai boss della ‘ndrangheta, ma da Pino Demasi a Ennio Stamile, da Pietro De Luca a Giacomo Panizza un foltissimo gruppo di parroci difende l’integrità della missione pastorale senza timore di finire nel mirino dei potenti e dei malavitosi e si misura con i drammi delle ingiustizie e della povertà. Battaglia è cresciuto in questo mondo lasciando tracce importanti nella sua Satriano che è parte della diocesi di Catanzaro-Squillace, retta da Vincenzo Bertolone, che, tanto per dire, è stato il postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi.

Franco Cimino, un cattolico calabrese autorevole che conosce bene il nuovo vescovo di Napoli, invita a soffermarsi sui suoi occhi: profondità, dolcezza e fermezza svelano il carattere dell’uomo, ne mettono a nudo l’anima, non mentono sui suoi sentimenti e sui suoi pensieri. Una volta gli ha detto che sarebbe andato lontano, e Napoli, dopo la parentesi sannita, ha confermato la previsione, che fu bloccata drasticamente dall’interessato quando stava per diventare più ardita.  Per don Mimmo conta l’azione di ogni giorno, il qui e ora, perché è vitale percorrere «non le strade che fuggono dalla vita, non quelle del disimpegno o della resa».

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/21_aprile_06/c-un-aria-nuova-promettente-chiesa-napoli-7fb721fa-96a1-11eb-9062-f607427fe665.shtml

Parricidio in salsa politica

In politica ci sono parole che generalmente si evitano trattandosi di “una scienza e tecnica, come teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”. Con ciò non si nega il valore degli ideali, della passione, dei rapporti sociali e tra le persone, ma lo scopo, come il celebre fiorentino di qualche secolo fa ci ha insegnato, è preminente. Dunque, in questa interminabile e ormai stucchevole vicenda napoletana fa impressione sentir parlare di sentimenti, di ingratitudine, di intemperanze giovanili quasi come se l’amministrazione della città si confondesse con la vita e le tensioni di una famiglia. E allora si può serenamente riflettere su questo finale tormentato e anche penoso di una stagione lunga ormai un decennio e che vede la città piegata dall’incuria a cui si è aggiunta da ultima la tormenta interminabile della pandemia.

L’epilogo ha tratti psicanalitici e non suoni offensivo questo riferimento perché nelle dimissioni dell’assessore alla cultura, Eleonora De Majo, si può intravedere un parricidio, politico s’intende. C’è da dire che il sindaco in questi anni è inciampato in più di una lacerazione come risulta dalla scia di sostituzioni e abbandoni il cui elenco è davvero copioso, ma quest’ultima è probabilmente la più illuminante per la storia di chi ha sbattuto la porta e per l’investimento che rappresentava per chi la scelse: rafforzare l’alleanza con “Insurgencia” e il mondo dei centri sociali ad essa collegati. De Magistris mise alla porta uno dei suoi migliori assessori, Nino Daniele, peraltro uscito da Palazzo San Giacomo con notevole eleganza, per un evidente calcolo politico che ha ribadito in questi giorni: «Non mi pento della scelta, una scelta, tra l’altro, anche criticata in città. Rifarei la stessa cosa; tra i giovani c’è chi ha colto e ha saputo ben utilizzare questa opportunità che nessun altro mai gli avrebbe potuto dare». Un affondo impietoso, da padre adirato, che con quel “nessun altro mai” abbandona al suo destino la figlia. E che siamo nel pieno di un dramma quasi familiare è spiegato con chiarezza: «Dai giovani si possono accettare anche intemperanze ed assenze di gratitudine». A seguire la sentenza, «noi guardiamo al futuro», con la quale sancisce che l’ex assessore evidentemente guarda altrove.

Lei controbatte: «Gli sono invece molto grata – dice a Luigi Roano del Mattino – per avermi dato l’opportunità di ricoprire un ruolo così prestigioso durante questo anno e mezzo. Sbaglia il Sindaco a confondere la rivendicazione di autonomia rispetto a scelte e modalità che non si condividono più con la mancanza di riconoscenza. Sorprende soprattutto che lo faccia chi ha fatto del “non sono in vendita” uno dei mantra della sua storia politica».

Ed è al calore bianco lo scambio di messaggi a proposito dell’inchiesta giudiziaria sulla commissione per la statua di Maradona. De Magistris non era stato tenero: «Mi auguro che non sia mai venuto meno, per lei come per altri, quel vincolo di onestà avendo fatto della questione morale la ragione del mio impegno in politica pubblica». Pronta la risposta di De Majo: nelle mie dimissioni «la poca vicinanza del sindaco e della giunta ha pesato sicuramente» dal momento che «la scelta di aprire la commissione ad una rappresentanza del tifo popolare è stata da subito condivisa con il sindaco».

In realtà la “lontananza”, ora diventata incolmabile, non era di questi giorni ed era stata avviata con la candidatura di Alessandra Clemente a sindaco (“scelta non condivisa e calata dall’alto”) e ancora prima con la decisione di non partecipare alle elezioni europee del 2019.

E così anche l’ultima bandiera che il sindaco aveva fatto sventolare nel finale della sua navigazione amministrativa è stata ammainata con strappi non rammendabili mentre si scappa dall’imbarcazione. La sopravvivenza del consiglio comunale è speculare alla sua sofferta agibilità dal momento che prioritaria è diventata la presenza del numero legale dei consiglieri per poterne garantire i lavori e l’esistenza. Le condizioni della città sono note, mentre sulle spalle di Alessandra Clemente è stato caricato il peso del passato, del presente e del futuro di Napoli e sul capo di de Magistris aleggia un altro scenario, la Calabria e le sue elezioni regionali. Nel parricidio e nel suo rovescio la De Majo si riserva, con lo stesso schema lessicale del sindaco, il colpo di teatro finale quando ammette di condividere la scelta della candidatura in Calabria: «Mi auguro però che il sindaco non commetta gli stessi errori che sta commettendo a Napoli». Insomma, i napoletani hanno dato, ora tocca ai calabresi.

*Editoriale pubblicato l’11 marzo 2021 sul Corriere del Mezzogiorno

 

 

 

Don Mimmo, benvenuto a Napoli

Matteo caro, don Mimmo Battaglia, te lo affido. E tu, affidati a lui. È una gran bella persona. Vallo a trovare, lui ti conosce già. È un uomo ispirato. Ricco di sensibilità. E di visione. Ha quegli occhi…Quegli occhi da cui scende amore come se piovessero le lacrime di Dio o di tutti gli uomini, dinanzi alla meravigliosa bellezza dell’uomo. E della vita che intorno a lui, e dentro di lui, si muove. Come nuvole nel cielo, ora bianche, ore diversamente grigie, ora scure. La vita, che è il cielo. Il cielo che resta. Sempre uguale. Sempre bello. Anche quando minaccia e fa tempesta. Anche quando scatena il vento che sembra voler distruggere tutto e invece ci scompiglia solo i capelli. O ci vola via i cappelli e qualche lenzuolo distratto dai balconi. Sempre se stesso, il cielo. Anche quando si fa scuro scuro e trasforma il giorno in notte e i lampioni si risvegliano anzitempo. La bellezza del cielo, la bellezza che è il cielo, è nella sua capacità di riflettere ogni altra bellezza. Di ispirarla. E poi di riflettersi in quelle bellezze che hanno dimenticato di esserlo, e vagano perdendosi lunghe le strade della sofferenza e della solitudine.
Franco Cimino

Franco, amico mio, sono emozionato e commosso. La tua lettera pubblica mi fa felice. C’è un filo che lega le nostre terre e le nostre vite. La tua terra, la nostra Calabria, dona alla mia terra un uomo e i suoi occhi, il suo cuore, la sua bontà, la sua intelligenza. Ha dietro di sé una scia di amore e di buone opere che ha attraversato la Calabria e da ultimo un pezzo di Campania, quasi un prologo della missione che lo attende a Napoli. Parlerà alla città e i napoletani lo accoglieranno. Soprattutto gli “scarti” avranno una spalla su cui appoggiarsi, una mano che stringerà le loro, un sorriso che lenirà la solitudine e lo smarrimento, un aiuto spirituale e materiale. Sono sicuro, ne verrà bene per tutti. Soprattutto in un tempo così complicato e confuso. Don Mimmo, benvenuto tra noi.

Una ventata di buonismo sulla città

Una ventata di buonismo, ricorrente a dire il vero, soffia sull’anima di Napoli. Solita, quasi scontata, dopo ogni episodio di cattivismo, secondo la regola che ad ogni azione ne dovrebbe seguire un’altra di segno opposto. Dialettica affascinante ma anche stucchevole tra il male e il bene. Certo, in un mondo in cui la lotta tra i «buoni» e i «cattivi» è pane quotidiano, vedi quello che accade in queste ore nel cuore della «democrazia» planetaria, si rischia di essere un po’ provinciali a pensare che questo puntino del pianeta, la città in cui viviamo, sia il centro di tutto, ma Napoli è Napoli e noi siamo qui e, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti con il nostro pezzetto di terra e di storia, quasi un buco della serratura da cui scrutare l’universo.

Un ragazzo viene ucciso da un poliziotto mentre sta facendo una rapina. Si scopre il suo mondo, emerge il contesto sociale e familiare, si piange doverosamente la sua fine perché non la si può accettare se si pensa che quell’itinerario così pericoloso e sbagliato era potenzialmente già scritto. Immediata scatta la rivendicazione, legittima, di giustizia e verità sulla dinamica dell’accaduto per verificare come abbia agito il poliziotto, anche lui già condannato a portare con sé e per sempre l’immagine del proprio dito che preme il grilletto e stronca un’esistenza. Non finisce qui perché nel quartiere decidono di fare un murale che, mentre sottolinea la domanda di giustizia, trasforma in un mito da emulare quel povero ragazzo. Che non ha scelto di nascere, crescere e sparire in una famiglia che qualche settimana dopo sarà ulteriormente e indelebilmente funestata dall’omicidio del padre. Dov’è il bene? Dov’è il male?

Un artista, Jago, realizza un’opera particolare che viene collocata in piazza Plebiscito, il sito ormai mitico delle installazioni artistiche più significative della fine del secolo scorso: un feto di marmo pesantissimo accoccolato in terra che, secondo l’intento dichiarato, dovrebbe costringere i passanti a guardare in basso per una serie di molteplici interpretazioni. L’opera, come capitò in altre occasioni in una città esperta nello sberleffo — ricordate i capitoni nelle vasche davanti al portone del fu Banco di Napoli in via Toledo? —, è stata danneggiata, si è scoperto attraverso i social, da baldanzosi ragazzi. Apriti cielo! Caccia ai rei i quali incontrano l’artista e si pentono. Il bene e il male di nuovo si confondono. Capita che un rompiscatole — si chiama Eduardo Cicelyn, perché, come si fa in questo giornale, ha un nome e cognome — faccia urticanti osservazioni sul valore dell’opera e sulla dinamica della vicenda. Apriti cielo, di nuovo! Botta e risposta, in qualche caso anche come un messaggio cifrato, e la citata ventata dopo aver soffiato impetuosamente si disperde nell’aria così com’è comparsa.

Un napoletano che, come il James Stewart della hitchcockiana «finestra sul cortile» e con la variante moderna dell’ormai acclarata stabile appendice del corpo umano, filma un’aggressione con pestaggio e furto di scooter che avviene non nel cortile ma nella strada su cui affaccia. La vittima è un rider che sta portando cibo a domicilio. Un altro rompiscatole — ce ne sono a Napoli, non ci facciamo mancare nulla — rende pubblico il documento e succede il finimondo. Dopo il male il bene. La polizia, sempre solerte in queste occasioni mediatiche, scopre in tempi record ladri e scooter, mentre scatta un’universale gara di solidarietà, anche con qualche ombra, al derubato, che dal canto suo ha parole struggenti per attaccamento alla città e per civiltà. Provocatoriamente si poteva anche pensare che, una volta presi quei ladri, bisognasse buttare le chiavi, un modo per chiedere che la giustizia faccia fino in fondo il suo lavoro, ma poi si apprende che quei balordi sono minorenni tranne due ventenni, anche loro cresciuti in un contesto che ha segnato il loro destino, e allora il bene e il male si mischiano, fanno discutere. Perché l’altro corno del problema è nella condizione di quel rider, solo uno della serie dei rider scippati ogni giorno dello strumento di lavoro da riottenere in cambio di qualche centinaio di euro. Uno sfregio ai tanti che, piegati dalle necessità, si sono acconciati a un lavoro senza diritti.

Per dirla con Francesco, il fatto è che gli «scarti» sono tra noi, nell’esercito del male e in quello del bene. Troppo facile affidarsi alle buone azioni. Non vale per la chiesa, che ha la carità nel suo Dna, per cui la fila dei nuovi emarginati alla Mensa dei poveri, come ci ricorda insistentemente Antonio Bassolino nei suoi quotidiani pellegrinaggi urbani, è nell’ordine delle cose. Ma ci sono troppe buone azioni «sospese», dal caffè al paniere, dalla spesa alla Befana… Ben vengano, naturalmente, come l’euro che diamo al povero immigrato che fa la guardia davanti ai negozi. Servirebbe ben altro, anche in un tempo crudele e terribile come quello che da ormai da quasi anno ci angustia. Senza farla lunga, diciamo in sintesi estrema che occorrono buone azioni di… governo. A tutti i livelli. Vale per Napoli e per tutto il resto. La politica che cambia e indirizza, che dà risposte, che risolve, che aiuta, che ristora anche. Soprattutto meno spettacolo e autoreferenzialità e più sostanza. Non dipende solo da chi ha il potere di decidere ma da noi che gli diamo questo potere anche se ci asteniamo.

Banalità, direte, ma è banale anche il male come il bene. I quali rischiano di diventare ripetitivi luoghi comuni. E allora luoghi comuni per luoghi comuni rifugiamoci in quelli che qualche giorno fa su queste colonne ci ha ricordato Massimo Cacciari elencandone alcuni dei più significativi. Magra consolazione in questo buco dell’universo che è la nostra irripetibile e amata Napoli.

*Articolo pubblicato il 9 gennaio 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

LA POLIZIA NON RISOLVE
SOLTANTO I CASI MEDIATICI
di Alessandro Giuliano
Gentile direttore, a tutela dei miei collaboratori e del loro costante impegno mi corre l’obbligo di fare una precisazione rispetto ad una frase, contenuta in un articolo a firma di Matteo Cosenza e riferita alla rapina di Calata Capodichino, secondo cui la Polizia è «sempre solerte in queste occasioni mediatiche»: quasi che, nelle altre occasioni, non lo fosse, o lo fosse meno. Mi consenta di proporre una diversa chiave di lettura.E cioè che la maggior parte delle continue operazioni di polizia giudiziaria svolte dalle forze dell’ordine non raggiunge gli onori della cronaca tranne che in alcuni casi, attorno ai quali si è sviluppato un clamore mediatico che, inevitabilmente, si estende anche alla fase delle attività di Polizia.
Qualche esempio, solo a proposito di rapine avvenute negli stessi giorni? Il 30 dicembre, tre uomini sono stati individuati e bloccati poco dopo aver rapinato un coppia a Ponticelli; il 4 gennaio, è stata arrestata una coppia che aveva appena rapinato un automobilista in zona Gianturco, e lo stesso giorno un uomo che aveva aggredito e rapinato una signora a Soccavo; il 7 gennaio è stato arrestato un uomo che in piazza Nazionale aveva rapinato un automobilista dopo aver commesso la cosiddetta «truffa dello specchietto» e lo stesso giorno, a San Giorgio a Cremano, due uomini in scooter che avevano rapinato un giovane del suo cellulare e ancora, sempre il 7, in piazza Garibaldi, un malvivente che aveva appena rapinato una coppia di un borsello.
Tutte queste operazioni, puntualmente rese note agli organi di informazione, non hanno raggiunto le prime pagine (neanche le seconde); ovviamente non sta a me dire cosa debba essere pubblicato e cosa no, ci mancherebbe altro; ma certamente posso affermare che le donne e gli uomini della Polizia di Stato, e delle altre forze dell’ordine, sono solerti sempre e sempre profondono ogni possibile sforzo, anche nei casi meno «mediatici».
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So, e la ringrazio per averlo ricordato, che l’impegno dei suoi uomini non è «solerte» solo in occasioni di particolare attenzione collettiva. È interessante l’altra chiave di lettura che lei fornisce quando ricorda le tante operazioni che non hanno avuto gli onori della cronaca e riconosce che «il clamore mediatico, inevitabilmente, si estende anche alla fase delle attività di Polizia». Nel caso di Calata Capodichino alla valutazione della notizia, rilevante di per sé, si è sommato anche l’effetto dirompente del video virale. (ma. co.)
*La lettera del Questore e la mia risposta pubblicate il 10 gennaio 2020 sul Corriere del Mezzogiorno

De Magistris e l’ipotesi “calabrese”

«Sarebbe una sfida interessante, si potrebbe anche vincere». Luigi de Magistris non finirà mai di stupire. Visto come è stata amministrata Napoli in questi anni si potrebbe sospettare che lui la notte non abbia dormito per pensare a come risolvere, avendo solo l’imbarazzo della scelta, qualche problema della città, ma soprattutto per capire quale destino disegnare per il suo personalissimo futuro. Un merito gli va riconosciuto: un’immaginazione sterminata compresa la capacità di escogitare ogni volta la mossa del cavallo.

Ora sta valutando l’eventualità di ritornare in Calabria per candidarsi alla presidenza della Regione. Ne parla con i suoi, credo soprattutto con sua moglie che è calabrese doc. In Calabria ci sono anche gruppi intitolati al suo nome. Non so quanto i calabresi auspichino questa prospettiva ma, considerato come sono andate le cose tra fallimenti politici, gestioni sbagliate e anche eventi luttuosi, non è da escludere che il pubblico ministero che ritornerebbe da politico navigato, quasi un figliol prodigo, potrebbe diventare non si sa se un vincitore ma sicuramente un protagonista della tormentata regione.

In ogni caso, in una terra ritenuta irrecuperabile, la sua popolarità mediatica (gli studi televisivi ne sanno qualcosa) potrebbe anche essere vista come una risorsa per invertire la pessima percezione.

Vivida è la memoria del suo vecchio lavoro nel palazzo di giustizia di Catanzaro. Le sue inchieste, osteggiate perché toccavano nervi scoperti del funzionamento della politica e della pubblica amministrazione, partivano da intuizioni fondate. Poi, per l’ostilità ambientale compresa quella di tanti suoi colleghi e anche per la sua voglia di arrivare rapidamente a conclusioni forse anche per non soccombere ai «nemici» del suo lavoro, quelle inchieste non hanno sortito gli effetti che promettevano. E lui ha lasciato la toga e la Calabria.

La sua cristallina onestà non è stata mai in discussione per quanto si possa immaginare che le risonanze magnetiche abbiano passato al vaglio la sua vita e quella di chi gli sta vicino. Chi scrive lavorò a quel tempo in Calabria e non ebbe mai dubbi tanto da scrivere che avrebbe comprato senza difficoltà un’auto usata da lui. Oggi farebbe lo stesso. Altra faccenda è la sua capacità di governare.

Il decennio ormai quasi completato della sindacatura dimostra la sua inadeguatezza a fronteggiare la complessità di una città unica e difficile come Napoli. Una città che si innamora facilmente del promesso cambiamento, fosse anche rivoluzionario, specie quando è alle strette e non vede prospettive rassicuranti. Figuriamoci se viene accarezzata con proclami, bandane, flotte, monete separatistiche, alberi metallici e corni… almeno questi ultimi evitati chissà se non per volontario scongiuro.

Inutile elencare i vari fallimenti, dal trasporto pubblico all’abbandono dei parchi, dall’ordinaria disamministrazione ai conti in clamoroso rosso tanto da dover consigliare una probabile legge speciale per la città che consenta ai futuri amministratori di poter operare. In fondo, del ricco dibattito di queste settimane a destra, centro e sinistra sul futuro sindaco il dato più confortante è proprio la prospettiva che lo Stato, chiunque vinca, provvederà a mettere un po’ di ordine e di ossigeno nei bilanci del Comune. Nel tempo saranno gli storici a inquadrare questo periodo e non è da escludere che il giudizio su de Magistris sarà condizionato dall’ultima fase, quella del duello insopportabile tra lui e il presidente della Regione De Luca; sarà anche complicato stabilire chi abbia avuto più colpe.

Comunque non è certo tempo di fare storia, de Magistris a suo modo è sempre in campo. Dieci anni fa nessuno avrebbe pensato che potesse farcela. Le sue ambizioni sono spesso apparse spropositate, ha coltivato anche il sogno di un «premierato», e così ora la via d’uscita calabrese – se non sceglie altri percorsi – non appare certo come un’aspirazione strampalata. Il fatto è che il suo genio tattico è straordinario. La Calabria, ritenuta residuale, è diventata mediaticamente, e non solo, centrale nel dibattito pubblico nazionale per i suoi primati negativi. Lo scenario ideale per uno che in quella regione ha radici profonde e che sa come stare stabilmente al centro dell’attenzione.

I calabresi, dopo tanto patire, potrebbero essere tentati. Chissà. Intanto il dado è lanciato. Quanto a Napoli fa tenerezza Alessandra Clemente, simbolo di tante cose importanti, sovraccaricata in questi anni di responsabilità immani e, infine, scagliata sulla scacchiera da cui uscirà il futuro sindaco di Napoli in guisa di pedone… sacrificale.

  • articolo pubblicato il 24 dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno