di ROBERTO LOSSO
È difficile da maneggiare, l’ultimo libro di Matteo Cosenza («Padre Pio, il vero miracolo», Rogiosi Editore). Leggerlo non basta. Bisogna viverlo. Quasi fosse la rappresentazione riflessa di emozioni e sensazioni che, nel tempo, hanno attraversato anche la nostra esistenza. E bisogna, poi, inserirlo nel contesto più ampio di quello che normalmente si esplora scrivendo una recensione. Perché è la prosecuzione di un cammino di memoria e identità che affonda le proprie radici nelle vicende umane e politiche che l’Autore ha attraversato da protagonista. Ogni articolo, ogni inchiesta, ogni editoriale è un tassello di questo suo complicato percorso di vita e di pensiero. È necessario, quindi, mettere in fila tutti i suoi lavori, il suo impegno politico, la sua leadership nella gestione delle notizie. Avendo, peraltro, cura di soffermarsi sulla sua innata tendenza ad interpretare in maniera globale il ruolo di direttore inquieto e curioso. Ne ha dato testimonianza in una terra difficile come la Calabria, assolvendo alla triplice responsabilità di (1) raccontarla così com’era, (2) aiutarla a far crescere al proprio interno la speranza di un futuro migliore e (3) dare fiducia ad una “covata” di giovani giornalisti che, oggi, interpretano al meglio questa passione civile.
Da dove partire, allora? Dalla «dedica». A chi poteva pensare nella delicatezza e nell’emozione di ritrovare e mettere insieme tanti «ritagli» della meglio gioventù, nel mentre la pandemia si porta via una generazione di persone che hanno trasformato le macerie del dopoguerra in cattedrali di operoso benessere e pacifica convivenza? «A mia madre che avidamente leggeva i miei articoli, sperando, invano, che mi convertissi». Riecheggia pudica la compostezza dei sentimenti che il nostro Matteo conserva, sia pure nascondendoli, nel tramestio dei tempi che cambiano e che, spesso, ci spingono oltre i confini dell’umano divenire. Un percorso faticoso, quest’ultimo, che, comunque, arricchisce qualcosa che già c’è e che ha difficoltà a dispiegarsi compiutamente nella sua armonia spirituale. Perché, nel frattempo, le ingiustizie del mondo ci spingono a sporcarci le mani. Perché intorno a noi c’è tanto altro da fare. E perché, innanzi tutto, avvertiamo il peso della responsabilità sociale che appartiene agli uomini di buona volontà. Eppure, anche questo diverso approccio altro non è che una continua ricerca di quel «soffio d’infinito» che è dentro di noi. E che può essere diversamente declinato e vissuto, esercitando la facoltà del libero arbitrio.
Fino a qualche tempo fa, ciò era motivo di solitudine. Non è più così. Dice, infatti, Papa Francesco nella sua conversazione con Austen Ivereigh («Ritorniamo a sognare – La strada verso un futuro migliore»): «Quello che vede le contrapposizioni come contraddizioni è un pensiero mediocre che si allontana dalla realtà. Lo spirito cattivo – lo spirito di conflitto, che compromette il dialogo e la fraternità – cerca sempre di trasformare le contrapposizioni in contraddizioni, pretendendo che scegliamo e riducendo la realtà in semplice coppia di alternative. È questo che fanno le ideologie e i politici senza scrupoli. Dunque, quando ci imbattiamo in una contraddizione che non ci consente di avanzare verso una soluzione, sappiamo di trovarci di fronte a uno schema mentale riduttivo e parziale che dobbiamo cercare di superare». Il «compito del conciliatore», invece, è quello di «sopportare il conflitto e, attraverso il discernimento, guardare oltre le ragioni del disaccordo, aprire chi è implicato alla possibilità di una nuova sintesi, che non distrugga nessuno dei due poli, ma conservi in una nuova prospettiva ciò che è buono e valido di entrambi».
Eccolo, dunque il «vero miracolo». Gioioso e fraterno. La comprensione, l’incontro, la contaminazione. Sono questi, appunto, i sentimenti che ritroviamo nel libro di Matteo Cosenza. Sentimenti, peraltro, che non nascono da una circostanza o da un momento di personale sconforto. Gli articoli che lo compongono, infatti, sono frutto e conseguenza del suo essere giornalista. Non dipendono, pertanto, dallo smarrimento che può nascere dentro di noi, quando affrontiamo questioni che diventano ferite. Matteo Cosenza era lì, perché il direttore de “Il Mattino”, Paolo Graldi, decise che fosse proprio lui a raccontare Padre Pio nel trentennale della scomparsa. Era un lavoro come un altro. Poteva scadere nel folklore, ove gli fosse mancato il senso dell’equilibrio o l’umanità necessaria per rendersi conto che tanta gente avvertiva come un valore profondo la beatitudine del Frate e dei luoghi che lo circondavano. L’ha respirata, quella bellezza spirituale. Ed è riuscito a trasmetterla ai suoi lettori. Così com’era. Sottraendosi alla tentazione di metterci del suo, d’inventarsi suggestioni, di manipolare i ragionamenti di persone come Renzo Piano. Osservava la realtà e ne scriveva. Laicamente. Non senza emozione, però. Ce ne accorgiamo, leggendolo. C’è una metrica nel suo racconto che va oltre il mestiere e le capacità personali. Così, il linguaggio del cronista spesso diventa poesia alta e solenne.
È lo stesso modo di scrivere che ho avuto modo di apprezzare in un altro suo libro (Il Compagno Saul, Rubbettino Editore, 2013), «con la “ù” rigorosamente accentata», sottolinea il giornalista e scrittore Luigi Vicinanza nella prefazione. Perché anche lì Matteo Cosenza commuove e si commuove, pur nel rigore della ricostruzione storica e politica che, a volte, assume anch’essa l’intensità della preghiera laica. Anzi. Sembra quasi che ci sia una continuità umana e morale tra il libro che racconta di un comunista all’antica, il compagno Saùl di Castellamare di Stabia, e quello che testimonia il suo vagare alla ricerca del «vero miracolo» di Padre Pio di Pietrelcina. C’è, in entrambi, un lungo gravoso viaggio nei luoghi inesplorati delle grandi scelte di vita e delle capacità di viverle con coerenza e fino in fondo.
Ma chi era Saùl? Ne parla in terza persona, Matteo Cosenza: «Più volte il Pci nazionale gli chiese di candidarsi al parlamento o, quanto meno, di trasferirsi a Napoli per assumere un ruolo di primo piano nella segreteria del partito. Rifiutò. Pensava, infatti, di essere più utile nella “sua” fabbrica e nella “sua” città. Il suo rifiuto fu categorico anche quando, nel 1976, il segretario della federazione di Napoli, Andrea Geremicca, si recò personalmente a Castellamare per convincerlo a lasciare i cantieri. Erano preoccupati per il suo stato di salute. Un medico anch’egli comunista, il cardiologo Remo Raddi, li aveva informati riservatamente che il compagno Saul aveva il cuore malandato. Niente da fare. Restò al suo posto. Fino al momento dell’ultimo saluto, che gli rivolse Giorgio Napolitano, il 12 gennaio del 1981, in Piazza Spartaco “davanti ad una folla straripante – oltre diecimila persone – che non riusciva a ripararsi da una pioggia inclemente che accompagnò l’intera cerimonia». Quel Saùl era suo padre. Eppure, nel libro, e solo sul finire del racconto, si lascia andare ad un momento di intimità chiamandolo “papà”. Liberandosi di una commozione così intensa da richiamare quella ugualmente penetrante che traspare dal suo incontro con Padre Pio e con il suo popolo. Ne scrive estasiato Monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano, rimasto nel cuore dei calabresi per il suo impegno anti-‘ndrangheta. Un motivo in più per leggere l’ultimo libro di Matteo Cosenza con il necessario «stupore» del cuore e della mente.

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