Sull’Aspromonte sono andato più volte salendo dalla piana di Gioia Tauro, dalla Locride, da Reggio Calabria. E sempre sull’animo insisteva inconsapevolmente la sensazione di avvicinarmi a una terra difficile e insidiosa. Talvolta quasi sorpreso, sempre irrazionalmente, di non essere incorso in un pericolo, in un incidente, in brutti incontri. E mentre dietro di me scompariva l’immagine del mare, di uno dei tanti mari su cui la montagna precipita imperiosamente o dolcemente, rimanevo affascinato e intimorito quando all’improvviso il mezzogiorno diventava mezzanotte e un tetto altissimo di rami e foglie non si lasciava attraversare neanche da un filo di luce.
Mi ci ha fatto pensare Simona, la protagonista in forma di io narrante di “Terra santissima” (Laruffa editore, pagine 178, euro 16), un romanzo di Giusi Staropoli Calafati. Lei è una giovane calabrese emigrata con i genitori a Milano e fa la giornalista. Il direttore la manda nella sua terra natia, appunto l’Aspromonte, con il compito di fare un affresco, come è d’uopo, a tinte fosche di quella terra maledetta notoriamente abitata da diavoli e per antonomasia sotto il tallone della ‘ndrangheta. Lei in verità ha ben altre intenzioni perché ha pochi ma indelebili ricordi della primissima infanzia, addirittura cerca, e lo trova pure, un sacchettino di nocciole nascoste in una fessura della casa quando partì per il Nord.
Incontra anche l’amore, un pastore che vive nella sua “casella” in solitudine. Lei si inoltra nella montagna aspra e oscura, bella e inquietante, si sofferma affascinata davanti al macigno di Pietra Cappa, un monolite alto centoquaranta metri circondato da una foresta che ancora lascia intuire i lamenti dei sequestrati, mentre rimbombano l’ululato dei lupi e il calpestio dei pastori e delle loro capre. Il suo è lo sguardo dell’innamorata che vede bellezza in ogni angolo e non riesce a trattenere la rabbia per come viene rappresentato quel luogo e per estensione la regione che lo contiene, la Calabria.
Il suo reportage, pubblicato senza che sia stato letto dal direttore, la fa licenziare su due piedi. Ma tempo dopo torna giù come inviata di un altro giornale. E questa volta il viaggio non è più a mezza strada tra la nostalgia, che rischia di falsare la realtà, e il lavoro giornalistico. Ritrova anche il suo uomo ma via via scopre che nel frattempo non ha retto alle lusinghe e, poi, alle “proposte che non si possono rifiutare” del capo locale della ‘ndrangheta ed ormai è finito, con soddisfazione, nel meccanismo infernale. Il racconto è denso e pieno di colpi di scena, gli articoli che vengono pubblicati lo sono anch’essi e, naturalmente, sono apprezzati dal giornale. In questa terra raccontata, senza blandizie, da Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Francesco Perri, lei vuole cocciutamente muoversi nella loro scia, che poi è il messaggio che l’autrice vuole lanciare con il suo romanzo che, quasi con una frattura, si conclude trasformandosi in un manifesto per il riscatto “culturale” di quella regione.
Appena qualche mese fa ho letto un altro libro, questa volta non di fantasia, sul profondo Sud della Calabria nella sua versione più drammatica e al tempo stesso coraggiosa. Il protagonista fu, tra l’altro, la mia guida in più di un attraversamento dell’Aspromonte. Si tratta di un libro-intervista scritto da Gabriella D’Atri, “La ribellione di Michele Albanese” (Castelvecchi editore, pagine 97, euro 13,50). Albanese vive dal 2014 sotto scorta. Corrispondente del “Quotidiano della Calabria” dalla Piana di Gioia Tauro, cronista puntuale di ogni fatto di quell’area martoriata, non solo di violenze e uccisioni, di politica e del porto. Nel suo cursus honorum l’articolo con il quale raccontò l’inchino della statua della Madonna davanti alla casa del capo della ‘ndrangheta a Oppido Mamertina che gli fece guadagnare l’odio del prete, della gente e naturalmente della ‘ndrangheta.Un giorno, poco prima di mezzogiorno, si trovava a Sinopoli nella Piana per raccogliere le notizie di un omicidio. Aveva appena disegnato la sagoma del cadavere tratteggiando anche i fori dei proiettili quando ricevette una telefonata dalla polizia che lo “invitava” a farsi accompagnare alla Questura di Reggio Calabria. Lui pensava di rinviare al giorno dopo ma l’invito divenne ordine e così scoprì che la ‘ndrangheta aveva deciso di ammazzarlo, si erano già procurati il tritolo per farlo saltare in aria. Le notizie, fresche di qualche ora, venivano da una cimice posta sull’auto di due ‘ndranghetisti sicuri di non essere intercettati: “U vogghju mortu. Forsi non capisciu cu cui si misi… Nc’è tritolu ammuncciatu nt ana cascina non tantu luntanu i ca’. Usamu chidu. Vogghiu nu lavuru pulitu. A bum andavi e siri mentuta sutta a macchina, sutta u latu da guida. Non avi aviri scampu du ‘mpamu. Apoi cu nu radiucumandu…buum”.
Michele pensò che stava accadendo ciò che temeva da anni, sicuramente da quando sua figlia appena uscita dalla scuola elementare gli chiese: «Papà, che significa ‘mpamu? Sai, un mio compagno di classe mi ha detto che non vuole giocare con me perché sono figlia di ‘mpamu». Tramortito, aveva risposto: «’Mpamu in dialetto calabrese vuol dire infame».
Da otto anni la sua vita è cambiata, quasi una prigione in cui, però, non è stato mai sfiorato dall’idea di un cedimento, di una resa tant’è che ha continuato, nelle condizioni che si possono immaginare, a fare il giornalista e a scrivere di quella zona e di tutto, fatti di ‘ndrangheta compresi.
Eroe suo malgrado, Michele è più precisamente, come dal titolo del libro, un ribelle civile che non ha pentimenti, ripete che farebbe esattamente le stesse cose che continua a fare e che lo hanno portato alla condanna a morte. Ci riesce anche perché la famiglia gli si è stretta ancor di più accanto e patisce le stesse sue restrizioni e paure.
Un’altra Calabria? Non esattamente. Quando mi accompagnava sull’Aspromonte aveva gli occhi lucidi per la gioia di raccontare la sua terra che conosce a menadito, non nascondendone i pericoli e le ingiustizie ma al tempo stesso vantandone pregi e potenzialità. Stavamo per arrivare a Polsi, mi avvertì: “Ora vedrai un altro mondo, scenderemo e in basso, proprio alla punta di un cono rovesciato, vedrai l’inferno e il paradiso”. Arrivammo a piedi fino al Santuario dove fede e mistero convivevano e un’umanità variegata si muoveva come un fiume in un solco tracciato. Il prete ci accolse e pranzammo con le nostre mogli (un’eccezione riservata a lui) nel refettorio con pasta con sugo di capra e capra. Dopo, su una panca, uno strano signore di una certa età, che subito vantò sue strane esperienze napoletane, ci fece dolcemente un terzo grado mentre i fedeli in fila entravano per inchinarsi davanti alla Madonna. Non saprei dire ma quello mi sembrò un sito che non poteva trovarsi altrove se non in quella vasta montagna.
Il romanzo e la realtà, la Calabria raccontata di Simona e quella vissuta di Michele. Il romanzo che diventa un manifesto: la cultura ci salverà; la vita che ci ammonisce: non mi arrendo. La prima è un auspicio, la seconda è sofferenza, dolore, impegno. Il pastore nella solitudine della sua “casella” non trova la forza di resistere e precipita nel vortice criminale, il giornalista che si è formato nel mondo del volontariato cattolico dice no e sacrifica la vita sua e dei suoi cari, ma lui e loro non mollano. E non è letteratura.

  • Articolo pubblicato su fogli&viaggi.com