Ennio Simeone mi lascia, e non è la prima volta, un giornale autorevole. Ringraziarlo per questo e augurargli grandi successi nella nuova iniziativa editoriale del nostro editore a Roma potrebbe apparire rituale se non ci legassero da una vita stima e amicizia. Sembra appartenere a un’altra epoca lo scantinato nel quale Pantaleone Sergi avviava quest’impresa editoriale attorniandosi tra l’altro – un fatto rivoluzionario per la Calabria di quel tempo – di uno stuolo di giornaliste. A quel temo la regione era editorialmente ingessata e sembrava impossibile far vivere per più di una breve stagione, quasi sempre elettorale, un quotidiano. Oggi non è più così. Grazie a un editore coraggioso, alla direzione di Simeone, a un gruppo agguerrito di giovani giornalisti, a maestranze tecniche e amministrative di prim’ordine, a moderne strutture di marketing e di pubblicità, il Quotidiano si presenta come un’impresa solida e riuscita. Il panorama editoriale, grazie ancora a questo giornale, è cambiato. Ogni mattina i calabresi possono scegliere tra più quotidiani, noi la- voriamo affinché preferiscano il nostro, ma è un bene per la società calabrese e per noi giornalisti che ci siano più voci. Le condizioni di monopolio possono garantire un sicuro ritorno economico a chi le detiene, ma possono anche nuocere alla libertà.

La libertà. È il capitale più prezioso di un giornale. Per chi lo fa e per chi lo legge. Sei mesi fa ho deciso di lasciare la mia Napoli e il più grande quotidiano del Mezzogiorno per una serie di motivi: rinnovare con me stesso una sfida professionale, restare al servizio della mia terra andando ancora più a Sud, in una regione dolente e maltrattata, ritornare alle imprese di frontiera che avevano contrassegnato la prima parte della mia esperienza. C’era tutto questo e altro ancora, ma la ragione vera, più profonda, che mi ha spinto a venire qui e mi porta oggi a non sentirmene pentito ma sempre più entusiasta, si racchiudeva e si riassume in questa parola magica: la libertà. Perché da lontano avevo avvertito a pelle che questo era un giornale libero e oggi lo dico con ancora più convinzione: questo è un giornale libero. Il mio impegno sarà quello di difendere questo valore. E questa libertà è un patrimonio al servizio dei calabresi che sanno di poter contare ogni giorno su una voce che racconta con onestà i loro problemi, non nascondendo le notizie negative o scomode e sottolineando le aspettative di miglioramento da qualsiasi parte provengano.

Un giornale senza nemici che non siano il malaffare e la prepotenza malavitosa. Sono, queste, le due piaghe della Calabria e del Mezzogiorno contro le quali lo Stato, nonostante il sacrificio di tanti suoi uomini, non fa tutto quello che dovrebbe trincerandosi dietro l’alibi dell’omertà, e la popolazione, pur con encomiabili e talvolta eroiche eccezioni, si limita a guardare autoassolvendosi con l’argomento di non sentirsi sufficientemente protetta. Da questa spirale occorre uscire se si vuol dare un futuro ai nostri giovani che sia fatto di lavoro ma anche di dignità.

Ci sono nemici non meno insidiosi perché operano sottotraccia: la sciatteria, il pressappochismo, il sottrarsi ai propri doveri. Quanto migliorerebbe la nostra vita se potessimo ridurre se non eli- minare questi difetti che ci sembrano piccoli e che invece non lo sono. Sulla Calabria sono piovute, piovono e, con i tanto decantati Fondi Por, ancor più pioveranno ingenti risorse finanziarie. Eppure tutto questo denaro non ha prodotto sviluppo. Scelte sbagliate? Forse. Interessi famelici? Può darsi. Scarsa pubblicità dei risultati conseguiti? Anche. Sovrabbondante peso della politica? Sicuramente. Ma pur riconoscendo che tutto questo ha una rilevanza, resta il male atavico e comune a gran parte del Sud di una macchina burocratica connotata da scarsa efficienza perché molti suoi uomini non sanno che fare, non vogliono fare, non rispondono del non fatto o del fatto male. E questa non è una condanna del destino, perché si può anche fare diversamente. Nella stanza del presidente della Provincia di Catanzaro, Michele Traversa, di fronte alla sua scrivania in un’ampia nicchia ricavata nel muro c’è un enorme video che non trasmette programmi televisivi ma semplicemente lo stato di avanzamento di tutte le opere, grandi e piccole, in cui è impegnato l’ente, e che segnala qualsiasi ritardo sulla tabella di marcia prestabilita. Si badi bene, Catanzaro, non Milano.

La politica è quotidianamente sul banco degli imputati, e spesso non solo metaforicamente. Al punto che non si perdono le occasioni per fornire al Paese un’immagine negativa dei partiti e degli uomini politici calabresi. C’è molto di vero in queste rappresentazioni ma c’è anche una grande generalizzazione. Di grave c’è il fatto che passa solo il messaggio negativo e non c’è possibilità di raccontare anche gli sforzi per migliorare le cose che pure non mancano. La sensazione è che, tramontati i grandi leader politici di spessore nazionale, la Calabria sia rimasta senza voce e che la politica tradizionale, in crisi qui come a livello nazionale, non sia stata sostituita da nuove forme di partecipazione e di formazione di un ceto politico moderno. Il cammino è lungo e impervio ma dagli schizzi di fango non ci si ripara con ombrelli bucati: meglio rimuovere alla radice le cause che producono il fango. È un compito a cui non ci si può sottrarre perché le ricadute sulla società sono pesantissime.

Un imprenditore che voglia fare qui il suo mestiere prima di affrontare la battaglia del mercato, che dovrebbe essere quella decisiva, deve vedersela con una burocrazia inefficiente se non ostile, con un sistema creditizio che sembra avere l’unico scopo di far morire qualsiasi iniziativa, e poi con il rischio ambientale di un territorio dove la malavita si muove come un potere vero e temibile. È quasi un miracolo che nascano imprese che ce la fanno e che addirittura tengono alto il nome di questa terra in Italia e nel mondo. Come sembra un miracolo, ma non lo è, che dalla tormentata storia di questi anni la Calabria sia riuscita a far prosperare una grande università a Cosenza (significative sono anche le realtà di Catanzaro e Reggio) e un grande porto a Gioia Tauro che detiene primati importanti nel Mediterraneo. Sono la prova che pur in un territorio difficile per la sua vastità e la frantumazione demografica ci sono scommesse che si possono vincere se si fanno le scelte giuste e si aggregano le forze necessarie.

La grande risorsa è appunto il territorio, la sua storia, la sua bellezza ancora straordinaria nonostante gli scempi ambientali dei decenni trascorsi, ma prima ancora l’intelligenza. I calabresi che sono stati costretti a lasciare i loro paesi hanno dimostrato in ogni luogo del pianeta il loro valore. Perché questo non è possibile farlo a casa propria? Bisogna ricercare lo spirito giusto, aggregare le energie, far leva sulle potenzialità positive, sconfiggere l’indifferenza e il senso di sconfitta che spesso accompagna fin dal nascere anche i migliori propositi, e battersi con i denti contro chi vuole impedire lo sviluppo per perpretare il proprio potere. La prossima visita del presidente della Repubblica in Calabria potrà essere un’occasione importante per un cambio di rotta. Da un uomo del Mezzogiorno come Giorgio Napolitano potrà venire una spinta vitale per istituzioni e cittadini, soprattutto per i giovani che non devono essere indotti ad andare altrove in cerca di un futuro.

Cari lettori, un giornale non è un partito, non ha quindi il compito di indicare soluzioni e di elencare programmi, è molto più semplicemente uno strumento di informazione. Ma un’informazione corretta, che vi accompagni lungo la vostra giornata in maniera non noiosa e pedante, può essere utile alla comunità. In questi anni al Quotidiano si è lavorato con questo spirito, continueremo a farlo con sempre maggiore impegno perché il nostro dialogo di ogni mattina sia una bella cosa per noi e per voi. E per la Calabria.

Articolo pubblicato il primo marzo 2007 

UN GIORNALE PULITO AL SERVIZIO DELLA CALABRIA PULITA

Cari lettori, mi accomiato da voi dopo sette anni e mezzo. Non fu una scelta facile quella che feci il 28 novembre scorso quando comunicai all’editore che avrei lasciato il giornale il 1° aprile (poi la data è slittata di due settimane). I motivi erano e sono strettamente familiari, ma ho pensato, come sempre ho fatto nella mia vita, di concludere per tempo un ciclo senza attendere che esso si esaurisse da solo. Aggiungo che, in cuor mio, sapevo che nel giornale era possibile trovare un direttore di valore, che non solo, dunque, fosse un professionista della redazione ma che fosse anche calabrese. Oggi sono felice della decisione dell’editore che affida il Quotidiano nelle mani sicure e pulite di Rocco Valenti, che sono certo risponderà al meglio alle vostre attese e al quale faccio gli auguri più affettuosi. Ma ora che lascio fisicamente il giornale e la Calabria sento una forte emozione, quasi una sofferenza come nei distacchi importanti che la vita ci riserva.

Ho amato e amo questa terra. La conoscevo, non tutta, ma la conoscevo. Ma ora che la conosco forse tutta, mi domando come sia stato possibile concentrare qui tanta bellezza. In ogni angolo, sulle coste, in montagna, nelle città, soprattutto interne, su fiumi e fiumare, negli anfratti più nascosti si rinnova la meraviglia della scoperta. Una sera freddissima d’inverno, poco prima della mezzanotte, telefonai a mia moglie, che era a Napoli e già dormiva, perché avevo il cuore che mi batteva: ero sul lungomare di Reggio, nei pressi della stazione Lido, lo Stretto sembrava inventato, il mare piatto rifletteva le luci di Messina e quasi illuminava Reggio, più in là sulla sinistra, in alto, l’Etna arrossava il buio con tracce di fuoco. Sull’Aspromonte a un tratto ebbi quasi paura, sopra di me alberi secolari non facevano penetrare neanche un filo di luce, ed era un pomeriggio di agosto. Autunno e primavera, la Sila non fa sconti: i colori, quelli delle foglie che muoiono e quelli della natura che rinasce, sono ancora più incredibili del bianco, il non-colore che rende soffice e dolce l’inverno. Non vado oltre, dico solo che ancora resto incantato quando, per la centesima volta, scendo dal Pollino e penetro in questo paradiso. E non parlo dei tesori che nel corso dei millenni gli uomini hanno realizzato. Poi mi chiedo, come fa l’amico Battista Sangineto, se i calabresi sappiano meritarselo questo bendidio.

Un po’ questo è stato il tema del lavoro di questi anni. Tanti ricordi. La valigia non può contenerli tutti. Un grande calabrese, Vincenzo Ziccarelli, mi fece scoprire che Saverio Strati, dimenticato tanto da sembrare morto, viveva nell’indigenza a Scandicci: lo splendore e la miseria, uno schiaffo, ma anche il riscatto grazie a un moto straordinario di opinione e di passione dei suoi conterranei, protagonisti perenni della sua opera. Ad Amantea ci trovammo in ventimila per esprimere il dolore e la rabbia contro chi avvelenava la Calabria: insieme a noi marciava idealmente un altro grande calabrese, il capitano Natale De Grazia, morto “misteriosamente” mentre cercava la verità sulle navi dei veleni. Il sorriso di Lea Garofalo,  le tragiche sofferenze di Maria Concetta Cacciola e il coraggio di Giuseppina Pesce attraversarono la Calabria e l’Italia dell’8 Marzo come un vento fresco di speranza. E qualche mese prima quarantamila furono i no alla ‘ndrangheta (“che purtroppo marcia insieme a noi”), ma sul palco salirono solo i testimoni perché i politici – tutti – furono lasciati rigorosamente su un lato della piazza ad ascoltare. Il motivo conduttore è sempre lo stesso: la sollecitazione alla cosiddetta società civile a scendere in campo, a fare la propria parte, a non delegare sempre ad altri e ad assumersi le proprie responsabilità, a sconfiggere, a partire dal proprio impegno, il pregiudizio antimeridionale di cui parla Vito Teti.

La vera rivoluzione è culturale, quella delle coscienze e di un senso comune che si fondi sulle regole, la legalità, la tolleranza e la solidarietà. Cecchino Principe, nel breve periodo dei nostri incontri (è stato uno dei due politici con cui ho pranzato), veniva a trovarmi di proposito per chiedermi di dare spazio alla cultura. Come fa il preside Giovanni Sapia di Rossano, che alla sua veneranda età è un vulcano di rigorose iniziative, tra i primi a sostenere con un convegno la nostra campagna su Sibari, che tra l’altro proprio in questi giorni, grazie al rettore Gino Crisci e al preside Raffaele Perrelli, ha fatto registrare una salutare apertura dell’Università della Calabria verso il territorio. Nella valigia lascio uno spazio per Pier Paolo Pasolini che in una lettera inedita (caro Roberto Losso, che scoop!) sferzò i calabresi (“siete banditi, ma i banditi mi sono simpatici”) invitandoli a “non fare come gli struzzi”. I poeti guardano oltre, sognano per noi, come faceva ogni lunedì padre Giancarlo Bregantini quando toccava il cuore dei calabresi augurando loro una “buona settimana”. Nessuno potrà mai togliermi dalla testa che con la cultura non si vende una copia in più di giornale ma che senza la cultura non si va da nessuna parte.

Ho avuto una grande fortuna. I miei editori, Antonella e Francesco Dodaro, sono persone per bene e non hanno mai interferito nel mio lavoro, il giornale lo hanno sempre letto il giorno dopo. D’altro canto, non sarebbe stato possibile il contrario perché ci saremmo salutati all’istante. Tra tante difficoltà imprenditoriali, con me hanno onorato il patto iniziale di assoluta autonomia. La foto del loro papà – il sorriso di un uomo buono e onesto – mi è diventata familiare, e ho sempre pensato che nella loro attività ci sia stato e ci sia il valore aggiunto di una tragedia, l’assassinio del loro genitore, e della giustizia negata. Per sapere come vanno le cose in Calabria, non ho avuto bisogno di andare molto lontano.

La giustizia, appunto. Ce n’è poca e ce n’è troppa ma a sproposito, perché il sistema presenta deformazioni allarmanti. I secondi gradi, troppo frequentemente, ribaltano le sentenze di primo grado e si resta sgomenti su come il bianco possa diventare improvvisamente nero e viceversa. Sarà una garanzia, ma qualche dubbio rimane. Per non dire di inchieste e processi interminabili che finiscono nel nulla. Puoi marcire in galera se sei un povero diavolo o, da condannato in via definitiva, spassartela a casa se hai potere e soldi. Ma soprattutto c’è qualcosa che ci riguarda in Calabria come in Italia. Nella pratica il rito giudiziario non è formato dai tre gradi, ma c’è questo e prima ancora ce n’è un altro. L’indagine preliminare dei pubblici ministeri, in sé necessaria e inevitabile, si coniuga con l’informazione. In questa fase si determina un meccanismo infernale, che produce la condanna a priori dell’indagato, anche perché gli organi di informazione sono indotti, per scelta o per costrizione, a “sposare” le tesi dell’accusa, le uniche esistenti in quel momento, sia per motivi di concorrenza sia per fugare sospetti di amicizia o compromissione. Quante volte ho sentito persone innocenti lamentarsi per i titoloni a loro dedicati durante l’indagine e per lo spazio esiguo in sede di processo e dopo le sentenze. Noi, soprattutto se siamo in buona fede come dovrebbe essere sempre per deontologia professionale, dobbiamo essere consapevoli del danno che tante volte arrechiamo alle persone. Ciò detto, se non si riforma la giustizia e non si correggono storture così devastanti, cambierà poco e i pm, talvolta tentati dal successo mediatico, continueranno a fare le loro inchieste mentre noi giornalisti amplificheremo il loro lavoro senza poter contrapporre alle loro tesi quelle della difesa, che fino a quel momento non ha avuto alcuna possibilità di agire.

L’altro nodo è quello della politica che invade ogni cosa. Questa degenerazione, asfissiante, scaturisce dalla dipendenza quasi totale della Calabria dal pubblico. All’esercito dei dipendenti pubblici e anche dei rappresentanti istituzionali e degli eletti si deve sommare un altro vastissimo esercito di persone “protette” a vita dallo stato sociale.  Se per incanto un giorno lo Stato cessasse di esistere, la Calabria intera finirebbe sul lastrico. In questa composizione sociale, a cui fa da contraltare una classe dirigente di basso profilo e di scarso coraggio, sguazza la politica che non ha bisogno di rendere molto conto del suo operato anche perché tra eletti ed elettori c’è una corrispondenza di sensi, salvo poi tutti a lamentarsi che la Calabria sta male, è governata peggio, conta poco, è abbandonata. Pensare di scappare, come fanno in tanti, appare quasi una scelta naturale per chi non accetta questo stato di cose. Forse così si spiegano la mancanza di tensione sociale e politica e la sostanziale continuità amministrativa e perfino programmatica tra aree politiche sulla carta alternative tra loro. Ed è per questo che risultano eroici gli sforzi di chi resta e suda per fare qualcosa di buono. Ce ne sono tanti, ma sono spesso deboli e isolati e fin quando non riusciranno a fare rete e a cambiare le regole del gioco resteranno marginali e soccombenti.

Tanto per cambiare, non servono eroi ma persone normali e, quindi, normalità. Per quanto impegno militare e di intelligence lo Stato possa mettere in campo, non sarà possibile estirpare la malapianta della ‘ndrangheta ma anche quelle del favoritismo, del clientelismo, del familismo, dell’assistenzialismo, delle regole violate e piegate a proprio uso e consumo. La prima norma è partire da sé stessi prima di chiedere agli altri e domandarsi: che faccio io per gli altri? qual è la cosa giusta da fare? È il primo gradino della scala che porta a cambiare davvero le cose. Ciò vale naturalmente per tutti, anche per chi fa il mio mestiere e ha avuto l’opportunità di dirigere un giornale in Calabria. Cari lettori, mi scuso per gli errori fatti, ma oggi saluto e ringrazio voi e i miei compagni di lavoro – i redattori, i collaboratori, i fotografi, i poligrafici, i segretari e le segretarie di redazione, gli amministrativi, i rotativisti, gli ispettori di distribuzione e i distributori, le correttrici, i pubblicitari – con la coscienza di aver tenuto fede ai principi che vi illustrai il primo marzo 2007. E credo che il Quotidiano continuerà sempre meglio il suo cammino perché – come dice il mio carissimo amico Antonio Panettieri, che solo per caso è un dirigente dell’azienda – la Calabria ha bisogno di un giornale libero e pulito come quello che avete tra le mani. Proteggetelo. 

Articolo pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 13 aprile 2014