Il filmato dell’Istituto Luce sulla visita di Hitler a Napoli, riproposto sul sito del Corriere del Mezzogiorno, non lascia indifferenti, come e più di quelli sulle folle oceaniche di Trieste per le leggi razziali o di Roma sull’entrata in guerra o delle tante città invase da un popolo acclamante il duce ora per questo ora per quel motivo. L’8 maggio di ottant’anni fa il regime si propose, riuscendoci, di dare una prova di forza che non doveva sfigurare di fronte alle sterminate parate del Führer in terra di Germania. Decine di migliaia di militari schierati per chilometri ai lati delle strade per far ala all’auto con Hitler e Vittorio Emanuele II, ogni palazzo ricoperto da drappi, bandiere, svastiche e fasci sarebbero bastati, ma Mussolini intendeva dimostrare all’alleato le proprie capacità militari in mare schierando duecento navi in una parata memorabile. Non a caso il percorso “terrestre” fino alla Stazione Marittima fu riservato ai due capi di stato, lui accolse il Führer sulla nave ammiraglia “Conte di Cavour” mentre dalla flotta rimbombavano nel Golfo le “salve regolamentari” di cannone.

Il messaggio che Mussolini voleva mandare era chiarissimo: l’Italia c’è, ed è pronta all’”ora della storia” che presto scoccherà. Il tono e le parole del giornalista dell’istituto Luce corrispondono alla perfezione allo scopo. Uno spettacolo impressionante di forza, di organizzazione, di potenza, che nulla lasciava presagire della catastrofe nella quale i due dittatori condurranno i loro paesi e il mondo intero. Naturalmente c’era Napoli, si può dire tutta Napoli, per fede fascista, per curiosità, perché non poteva non esserci, e chi poteva disturbare, come Ettore Scola ci ha ricordato in “Una giornata particolare”, era stato messo nell’impossibilità di farlo. In molti di noi napoletani quel documentario richiama ricordi familiari, racconti di quel giorno. 

Mio padre, nato nel ’25, aveva poco più di dodici anni. Abitava a Castellammare, nella zona di Quisisana, poco al di sotto della Reggia. Sparì prima che albeggiasse. La mamma, vedova, bidella della scuola elementare, sulle prime non si preoccupò sapendo che il figlio viveva in strada e scorrazzava in lungo e in largo con qualche tappa in parrocchia. Nel pomeriggio incominciò ad impensierirsi e a sera l’apprensione crebbe fino a diventare paura del peggio. Il ragazzino era sparito, nessuno lo aveva visto, il passaparola si trasformò in breve da solidarietà e vicinanza in mobilitazione di tutto il quartiere. Le ricerche continuarono per ore, solo dopo le quattro di notte lo si vide sbucare mentre risaliva il primo tornante di via Quisisana. Era andato a piedi a Napoli per vedere Hitler ed era ritornato a piedi. Da solo. Affamato, stanco. E pur tuttavia, con l’incoscienza dell’età, felice dell’impresa e perfino sorpreso per la gente che gli stava attorno e poco consapevole della sofferenza procurata alla madre. Cinque anni dopo – era già operaio del cantiere navale – fu costretto a ripararsi sui Monti Lattari dopo una manifestazione di donne per chiedere la liberazione degli antifascisti detenuti nel carcere di Salita San Giacomo: delle infatuazioni di ragazzino aveva ormai solo un vago ricordo.

Dunque, il filmato ci racconta che i napoletani erano fascisti? Che poi divennero antifascisti quando il regime crollò e la guerra fece il resto? Antica questione, che nulla toglie ai meriti degli antifascisti che in Italia o in esilio non erano nel coro. Per esempio, per restare a Castellammare, non vanno mai dimenticati quegli operai che il 16 settembre 1924 accolsero con gelo e anche qualche fischio il presidente del consiglio Mussolini in vista al più famoso cantiere navale del Mezzogiorno. Ma quella corale esultanza popolare per i capi del fascismo e del nazismo, che sarà riscattata con le “Quattro giornate di Napoli”, fa riflettere su un problema che gli storici, e non solo loro, hanno più volte affrontato e approfondito: l’opportunismo dei voltagabbana, il diffuso e ricorrente riciclarsi dalla sera alla mattina sull’onda del nuovo vento. 

Tornano sempre attuali le pagine di Ruggero Zangrandi, uno storico e giornalista che raccontò dal di dentro “il lungo viaggio attraverso il fascismo”. Lui, che era nato durante il ventennio e che ebbe in sorte, quale compagno di banco e amico di Vittorio Mussolini, di frequentare Villa Torlonia e il Duce, raccontò in un libro con quel titolo il tormentato e drammatico itinerario di un’intera generazione. Soprattutto, nella seconda edizione, chiamò in causa, con nomi e cognomi, la classe dirigente di prima della presa del fascismo – intellettuali, magistrati, scienziati, avvocati, filosofi – che preferì tacere e convivere con il regime e che, alla sua caduta, come se nulla fosse accaduto, continuò ad occupare nella nuova Italia i posti di comando. Un riciclaggio che fu permesso, ai più alti livelli, anche ai responsabili del disastro dell’8 settembre 1943, della fuga “protetta” da Roma del sovrano e dei generali e della mancata difesa della capitale.

Quello straordinario documentario sulla visita di Hitler a Napoli fa pensare anche a queste cose, a un’Italia che ha pensato a sé stessa mentre altri ne riscattavano l’onore combattendo per le strade di Napoli o sulle montagne del paese.

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 5 maggio 2018