Lo chiamano l’Armani del pane. La definizione è azzeccata per almeno due motivi. Intanto perché Armani per puro caso c’entra con la svolta impressa alla sua attività, in secondo luogo perché quando si entra nelle sue panetterie milanesi si può perfino dubitare che lì dentro si faccia il pane come effettivamente avviene. E forse ce n’è anche un altro che riassume e sublima i primi due: la ricerca di una perfezione assoluta con un’idea del made in Italy applicata al più tradizionale e buono dei prodotti del nostro paese. Rocco Princi, 47 anni, è di Fiumara Calabra. La sua vita non è una storia, è la fiaba di un giovane che fa il garzone, il muratore e altri mille mestieri e che oggi è oggetto di studio di un master della Bocconi dove lo chiamano a tenere lezioni. Decisivo è il carattere: la cocciutaggine, il non arrendersi di fronte alla difficoltà, ripartire sempre e pensare cose nuove. Come si vede, la Calabria c’è tutta ma il percorso di crescita è avvenuto fuori dai suoi confini. Di amaro ci sono anche le parole del protagonista che, a differenza di tanti altri suoi conterranei baciati dal successo in Italia e nel mondo, non guarda alla sua terra con nostalgia bensì con odio e amore dove non è chiaro quale dei due prevalga. Un sentimento duro come quello di un figlio tradito.

La sua è una famiglia di panettieri?

«Assolutamente no». 

E come mai ha deciso di fare il panettiere?

«Fin da ragazzo era il mestiere che mi affascinava di più».

È nato in Calabria, dove?

«Fiumara Calabra in provincia di Reggio l’otto marzo 1970. E sono vissuto in Calabria fino a ventisei anni. Avevo un panificio a Villa San Giovanni, che ho aperto quando avevo vent’anni».

Suo padre che cosa faceva?

«L’autotrasportatore, mia madre casalinga. Siamo tre figli».

Ha studiato a Fiumara?

«Sì, ho fatto lì la scuola elementare e la media, se si possono chiamare scuola elementare e scuola media».

Perché?

«Se penso adesso a come si svolgevano le lezioni c’era veramente da denunciare tutti quanti». 

Ci faccia capire.

«Durante l’anno scolastico la maestra ci faceva fare lezione all’aperto portandoci nei giardini per stare con le sue commare, noi giocavamo la maggior parte dell’anno. Arrivi alle superiori che non sei zero ma meno di zero».

Dopo la scuola media che studi ha fatto?

«Mi ero iscritto al professionale come meccanico navale, ma non avevo le basi per poter andare avanti. Diventava tutto difficile…».

E addio scuola?

«Sì. Il mio titolo di studio si può paragonare ad un’istruzione di seconda elementare, forse terza. Però, si faccia una chiacchierata con Paolo Preti, che è un professore della Bocconi, e le dirà che mi chiamano durante l’anno a dare lezioni a centocinquanta laureati. Rimangono per due ore a seguirmi, l’ultima volta battevano le mani ad ogni passaggio del mio discorso».

E che gli insegna?

«Come nasce un’impresa e come si fa innovazione. E glielo spiego praticamente».

Verremo più avanti alla sua impresa, ripercorriamo gli inizi. Abbandonata la scuola si è messo a lavorare…

«Non parliamo di lavoro, questa parola non esiste nel mio vocabolario. Per fare quello che faccio, o lo apprezzi, l’ami, altrimenti…».

Non parliamo di lavoro, che ha fatto dopo la scuola?

«Il muratore, ho raccolto le arance dagli alberi come le scimmie, ho fatto di tutto nella zona di Villa San Giovanni».

Come arriva al panificio?

«Fiumara mi stava stretta, non c’erano sbocchi, un paesino di un migliaio di abitanti. Villa era il paese più vicino. Per un anno avevo fatto il garzone mettendo qualcosa da parte. Lo spirito del commercio l’ho preso dai miei zii che sono venditori ambulanti di tessuti. La mattina alle cinque andavo con uno di loro in giro per la provincia di Reggio, dalla Piana di Gioia Tauro a Seminara».

E così alla fine rileva il panificio?

«A Villa. Ma nel frattempo mi documentavo. Andavo in altre parti del paese, spesso a Milano, e vedevo che cosa c’era in giro. Qualche novità la portavo a Villa, cambiando alcuni tipi di pane perché da noi in Calabria la varietà è limitata. E vedevo che le modifiche avevano un grande successo. Però, osservando quello che accadeva altrove mi sembrava un’attività limitata, una cosa morta a parte i periodi estivi. Per lo più rifornivo le rivendite, e quelle ti pagavano, non ti pagavano, dovevi andare a riscuotere e ritornare. Lavoravi per gli altri, non per te, non come ora a Milano che ho clienti dall’albergo a sette stelle al ristorante Carlo Cracco».

Le stava stratta Fiumara, poi Villa. Le stava stretta la Calabria?

«Esatto. Non avevi via di sbocco, volevi svilupparti e dove andavi? A Bagnara? E poi non voglio entrare nel merito di altri problemi che ho avuto, preferisco non parlarne per non alimentare invidie e cattiverie».

Quando si trasferisce a Milano?

«Nel 1986. Già nel 1985 ero venuto a fare dei sopralluoghi. Tramite un mediatore ho perlustrato i posti in vendita. Una parte di rabbia che mi ha preso è stata anche determinata dall’approccio che ho avuto con Milano. A proposito di razzismo, il settanta per cento dei milanesi quando sentivano che ero di Reggio si chiudevano un po’ come i ricci nel vendermi l’attività. Anche perché la licenza non viene pagata mai per contanti ma una parte in contanti e una parte a rate, allora c’erano le cambiali. E le cambiali si fondavano sulla garanzia della persona».

Dov’era il panificio che poi ha rilevato?

«In piazzale Istria. Capii subito che tutto era diverso. Per esempio, a livello di norme igienico-sanitarie da noi in Calabria se non conosci l’amico o il cugino dell’amico devi aspettare, invece qui appena hai fatto il trasferimento di licenza in automatico fanno il sopralluogo e ti impongono di realizzare i lavori per rientrare nella norma. L’impatto fu più che duro perché il personale del vecchio titolare mi piantò subito. E nell’appartamento dove abitavamo e che era collegato col forno, non avevamo mobili, non c’era niente. All’inizio io e mia moglie, anche lei di Fiumara, dormivamo su una brandina».

E gli affari come andavano?

«Il panificio faceva di incasso 400 mila lire al giorno. Ce l’abbiamo messa tutta, dormivo tre ore al giorno, e l’ho portato nel giro di tre anni a cinque-sei milioni al giorno di incasso facendo fare la fila fuori del negozio. Davamo i numerini e c’era la gente lungo il marciapiede in attesa di comprare il pane. Era la rabbia che avevo dentro che mi portava a fare il massimo».

Il segreto di questo exploit?

«Ho scommesso sulla qualità e sulla professionalità, l’amore per il proprio lavoro, la passione. E giorno per giorno tu vedevi la tua bottega crescere. Le altre famiglie andavano in vacanza, i miei figli restavano in mezzo alla farina. Mia moglie, quando ogni tanto sentiva qualche botto perché qualcuno era caduto, si scusava col cliente di turno e riprendeva il figlio da terra. Una situazione estrema. Non lo rifarei». 

Però lo ha fatto, e i risultati la ripagano, con i suoi cinque locali e novanta dipendenti. 

«Ogni anno investivo costantemente sull’arredamento, sugli spazi e quant’altro. Dopo quattro-cinque anni mi sono sentito più sicuro e mi stava stretto anche piazzale Istria e così mi sono guardato in giro, soprattutto al centro dove arrivavano tutti i miei sogni. Contemporaneamente mi rendevo sempre più conto che il consumo di pane cominciava a rallentare, non era più come prima, poiché la grande distribuzione aveva inserito nella propria produzione anche il pane surgelato ed era presuntuoso pensare di scontrarsi con i colossi. Alla lunga se lasciavi solo la panetteria non ce l’avresti fatta».

Che cosa ha fatto?

«Contro il parere del mio commercialista ho giocato d’azzardo prendendo in centro un posto in affitto per solo un anno. Un rischio senza una rete di protezione. Anche adesso che sto per svilupparmi all’estero, mi gioco sempre tutto quello che ho. Fino a questo momento il Signore mi ha dato la salute per farlo».

Per un anno, quindi, ha lavorato al centro della città. Che cos’è cambiato?

«Panetteria, caffetteria e gastronomia. Sono stato il primo, almeno qui a Milano, a farlo intercettando i clienti della pausa-pranzo. Poi ho preso un posto più grande e da lì è partito il successo».

Dal suo curriculum emergono tante invenzioni.

«Attenzione, io non ho inventato il pane, ho inserito cose nuove. Un esempio. Tutti i bar a Milano hanno le brioche, ma nessuno ha la possibilità di farle e, quindi, ti vendono le brioche surgelate. Io addirittura le ho messe in vetrina mentre le faccio, al momento. Questo è un rischio perché o sei professionale fino in fondo e hai un gran consumo oppure fallisci. Ho rivoluzionato un altro aspetto del pane. La maggior parte dei miei colleghi faceva il pane di notte per venderlo la mattina alle sette. Per cui chi andava a comprare il pane a mezzogiorno o a mezzanotte aveva quello sfornato al mattino. Invece io ho modificato un po’ tutto, sono stato il primo a sfornare il pane alle otto di sera, la gente che usciva dall’ufficio lo trovava ancora caldo. E questo non per un giorno: tu provi, non va, constati che non è andata bene e torni indietro. No, io questo l’ho fatto per mesi buttando via tanto pane e alla fine dopo tanta semina ho cominciato a raccogliere. Sfornavo pane dall’alba alla notte».

E la qualità?

«Pane cotto a legna e a lievitazione naturale. Fin da piccolo me ne andavo in Aspromonte a mangiare il pane cotto a legna con il filo d’olio sopra e un pizzico di sale. L’ho portato a piazza Duomo a Milano. Sono stato premiato come miglior esercizio d’Italia. A New York mi hanno eletto come miglior negozio alimentare del mondo. Tutto documentato».

Cottura a legna e lievitazione naturale non sono modalità di produzione rare. C’è stato dell’altro?

«Il fatto è che il pane è diventato un elemento di contorno della tavola. Una coppia normale, sempre di fretta, esce dall’ufficio, viene qui e mangia il pane con le melanzane, invece di andare a casa e riscaldare “quattro salti in padella”. Io continuo a servirgli una cucina tradizionale. In più ho fatto una cosa che un centro commerciale non può fare. Sono andato alla ricerca di farine biologiche, che insieme alle cose dette prima, mi ha portato a risultati importanti. Solo che devi stare attento, più che attento, è come fare una cucina da tre stelle della Guida Michelin. Tutto questo ha un costo. Il prezzo del pane si raddoppia, ho accettato la sfida e sto avendo ragione».

Della serie che se un prodotto è di alta qualità il prezzo può non essere un ostacolo. Viene da pensare ai produttori in crisi della pasta di una zona storica per il settore come Gragnano: hanno scommesso sulla qualità e producono fusilli che negli Usa si vendono a 25 dollari al chilo.

«Non potevano competere con la Barilla. Il prezzo è un problema, ma ci sono persone che vogliono mangiar bene. Qui vicino ho una delle più importanti aziende gastronomiche del mondo, che vende anche il pane, ma la gente va a fare la spesa lì e il pane poi viene ad acquistarlo da me. Per fare questo lavoro abbiamo puntato sulla qualità, ma sia chiaro che è buono anche il panino da cinquanta centesimi».  

La qualità e l’immagine. Le sue panetterie sembrano atelier. Lei ci ha puntato molto. Per esempio, il cliente è al banco ma è anche nel forno dove tutta la lavorazione è in corso ed è visibile.

«In questo momento il forno riscalda l’ambiente nel quale cinquanta persone comodamente sedute stanno facendo colazione, avvolti da un’atmosfera vera e reale. Per arrivare a questo devi avere gusto».

E lei per arrivare a questi risultati si è affidato a un nome importante dell’architettura.

«La scelta è scaturita dall’osservazione. Sentivo che era il momento di andare oltre il negozio tradizionale. Un giorno ero in via Sant’Andrea e sono entrato nel negozio di Armani… ah, prima che mi dimentico, tra i nostri clienti c’è Donatella Versace, e a lei come ad altri mando il pane a domicilio».

Stava dicendo del negozio di Armani.

«Sì, lì dentro c’era una pietra da cui mi sono sentito attratto, un’atmosfera particolare. E mi sono immaginato quella pietra col suo colore e il suo calore in un negozio del pane. Ho chiesto alla responsabile il nome dell’architetto, ma non lo sapeva. Conoscevo la Rosetta Armani, nipote del signor Armani, ho chiesto a lei l’informazione. E lei gentilmente mi ha fissato un appuntamento con Claudio Silvestrin, il loro architetto di fiducia di immagine. Sono andato a Londra a convincerlo. È stata la svolta. Dovevo aprire un nuovo locale in piazza 25 Aprile, crocevia di tutte le discoteche, e per sfruttare il popolo della notte avevo bisogno di un’immagine forte. Questa scelta mi ha dato visibilità anche all’estero».

Ecco perché la chiamano l’Armani del pane?

«Oltretutto il signor Armani mi ha regalato la linea delle divise. L’ha disegnata apposta per me, cosa che non farebbe per tutto l’oro del mondo».

Ovviamente Giorgio Armani è un suo cliente.

«Veramente sì. Io gli mando il pane sempre».

In parole povere il suo pane a Milano è anche uno status symbol?

«Io sono diventato il numero uno e dopo di me, ma non lo dico io, c’è il vuoto. L’altro giorno ne ho parlato con l’onorevole Piero Fassino a proposito della possibilità di creare esperienze del genere anche in altre città. Ma ora sono impegnato in altri progetti».

L’operazione di Londra?

«Sì, ma non lo scriva. Lì ho solo un contratto di affitto e c’è una trattativa in corso. Ma ci sono ancora difficoltà per alcuni permessi. Certo, dopo Milano essere sulla piazza di Londra, che è la porta del mondo… Intanto pago un affitto che è un costo alto che non posso prolungare a lungo. Ma preferisco non parlarne perché se poi non realizzo l’operazione non mi va di sentirmi dire che sono uno buffone. Non per altro. In ballo ci sono tanti negozi, da cinquanta a cento, ma non è nei miei sogni perché a me piace fare alcune cose e farle bene, non voglio diventare il McDonald’s del pane».

Ci parli un po’ della Bocconi. Lei ha a malapena la terza media, dice di avere avuto un’istruzione da terza elementare, che ci fa nel tempio dell’istruzione economico-finanziaria?

«C’è un libro di marketing della Bocconi sul caso Princi».

Dunque, è oggetto di studio?

«È così. Non le racconto i premi e i riconoscimenti avuti per decisione dei professori della Bocconi». 

Tiene anche delle lezioni?

«Sì. E alcuni professori mi hanno spiegato che quando vanno La Valle o Montezemolo, tutto si svolge con numeri, grafici, tot investimenti, tutte cose normali dello studio, mentre con me c’è il racconto di un’esperienza fuori dalla vita normale: sacrificio iniziale, mettersi sempre in gioco. Pensi a Londra e a me che mi confronto con gli avvocati inglesi. Anche se l’operazione non andrà in porto questo equivarrà a un anno di università. Io non sono avvocato ma mi so difendere, ne ho fatto di esperienza, ho preso tanti calci in culo qui a Milano».

Che cos’è per lei il pane?

«La mattina quando guardo l’impastatrice in movimento so perfettamente se ci vuole acqua o se non ce ne vuole, quando sforno il pane capisco se c’è un piccolo difetto. Il pane è tutto, è la mia vita».

In questo resta un uomo del Sud. Tradizione e innovazione. Pensi ai buoni pani del meridione. In fondo, è farina, acqua…

«Va fatto come va fatto, come è nato. Farina, acqua e lievito, con i tempi suoi, non con quelli della vita di corsa di oggi. Una volta mettevi il pane a tavola ed era la vita, un simbolo. Nel pane c’era tutto, invece oggi non senti altro che bisogna evitare di mangiarlo. I dietologi la prima cosa che dicono: non mangiare pane e pasta. Il mio pane, quello che faccio ora, è molto differente da quello che loro pensano che faccia ingrassare. Se consumi un pane sano, non mangi il lievito di birra che ti fa gonfiare la pancia ma un pane digeribile».

Ha parlato sempre di Milano. Si sente milanese?

«Quando torno da Londra e atterro a Linate mi sembra come quando tornavo da Milano a Reggio. Mi appare come una città ferma. Ma amo Milano, ho dato, dato, dato, e ho avuto riconoscenze, per cui non potrei mai parlar male di Milano. Non sono di quelli che dicono di voler scappare dallo smog. Io giro la città di inverno e d’estate, mi alzo alle quattro quando i netturbini spazzano, mi piace il rumore delle serrande quando aprono i primi bar, la vedo svegliare tutte le mattine e osservo come si evolve durante la giornata. Poi ho scoperto il fascino della notte, anche se non mi sono fatto prendere dalla bella vita. Non la cambierei con un’altra città italiana, Milano è bella».

E la Calabria?

«La amo e la odio. Se penso a Scilla mi viene da piangere. Quando stavo giù, la notte facevo il pane e il giorno me ne andavo sotto le barche a dormire: il profumo dell’acqua, del mare, Chianalea…».

Però c’è anche odio.

«Quando ci conosceremo meglio le racconterò delle cose private, le spiegherò tutto il male che mi ha fatto quella terra. Mia madre, il mio papà, mia sorella sono giù, solo io sono a Milano».

C’è futuro per la Calabria?

«No. Finché non eliminano le teste, che sono ramificate di padre in figlio, non ci sarà mai uno sbocco. Ci sono tantissime belle persone, belle realtà, ma c’è quel dieci-venti per cento di farabutti, appoggiati dai politici, che non fanno crescere nulla. Ricordo a quindici anni a Fiumara, mi serviva il certificato di nascita perché dovevo imbarcarmi, e ci volevano due giorni e bisognava andare dal sindaco per averlo. Se ci penso adesso… era un mio diritto, me lo doveva dare subito. È solo un esempio. E poi c’è la mentalità del posto fisso. Per anni stanno disoccupati, restano disoccupati, in giro con questo e con quello. Così non si cresce, ma non perché non hanno le capacità. Se le persone malefiche che stanno giù attivassero la loro intelligenza nella legalità cambierebbe tutto».

Bisogna togliere il tappo che non fa sprigionare il positivo?

«Ce la si può fare se ci si basa sulle proprie capacità. Bisogna provarci. Fuori dalla Calabria ci facciamo valere. Abbiamo la cultura del rispetto verso gli altri, l’educazione, l’umiltà. L’umiltà è la cosa più importante. E la famiglia. Senza la famiglia vicino non avrei potuto fare nulla. Il mio unico sogno è trasmettere ai figli questi valori».

Un suo figlio un giorno potrebbe aprire una panetteria a Reggio Calabria?

«Non credo, lo escludo categoricamente perché non c’è l’utenza. Forse a New York. A Reggio andremo a mangiare il gelato da Cesare».

A un giovane calabrese consiglierebbe di lasciare la sua terra?

«Non sono la persona che può dare questi consigli. Però se ha delle ambizioni deve uscire dalla Calabria».