Era la sua casa, nel cuore di Cosenza antica, a pochi passi da quella piazza delle Vergini dove dal suo balcone aveva visto il fervore che animava la Camera del Lavoro e nascere la sua voglia di far politica. Una dimora vecchia, consumata dal tempo, che si affaccia sul liceo Telesio, tappezzata di libri, i suoi e quelli del padre Pietro. Libri non di arredo, ma consumati dall’ansia di sapere, approfondire, conoscere. Libri che fanno ricordare la casa di un altro grande socialista, da lui non proprio amato, Francesco De Martino, e che parlano di un modo di fare politica che prima di ogni altra cosa era cultura.

Giacomo Mancini, lei porta un nome importante, pesante. Quanto pesante?

«Con mio nonno ho sempre avuto un rapporto molto bello e corretto, senza alcun retropensiero né da parte mia né, ancor di più, da parte sua. Tra l’altro superando entrambi difficoltà di tipo caratteriale: lui era una persona anche molto chiusa, come in qualche modo lo sono io, timido, riservato. L’ho visto sempre come un grande esempio. Per tante vicende della mia vita per me è stato un genitore».

Pensava mai a cosa significava fare politica con questo nome?

«No. Lui ha fatto una quantità enorme di battaglie. Non c’è luogo – in Calabria molto di più – dove non mi dicano: tuo nonno, lui aveva grinta. Queste osservazioni rappresentano per me una sorta di balsamo ma anche uno stimolo per tentare di fare meglio».

Ma com’era Giacomo Mancini con suo nipote?

«È stato sempre considerato una persona molto difficile, un carattere scontroso, irascibile, vendicativo. Con me, ma devo dire con tutta la sua famiglia, è stato proprio il contrario. Persona molto attenta, premurosa, anzi anche timorosa a volte di invadere le sfere di pertinenza. È stato sempre una figura presente. Ero io a stimolare i suoi suggerimenti e mai lui a interferire nelle mie scelte. Mia moglie mi ha sempre rimproverato di non dirle quello che pensavo, invece con lui riuscivo a parlare. Un rapporto molto bello, molto vero».

Si preoccupava dei suoi studi?

«Sono sempre stato coscienzioso, non ho mai dato problemi. I genitori in genere sono sempre un po’ scoccianti, lui niente. Mi stimolava a essere curioso perché lui lo era. Voleva conoscere, sapere, vedere, apprendere. Fino alla fine. Una curiosità smodata».

Che libri leggeva?

«C’era la letteratura russa da una parte e la francese dall’altra. E poi il meglio di tutte le esperienze politiche. Era un uomo con una marcia in più. Non si fermava mai alla prima impressione».

La seguiva nelle sue prime esperienze politiche?

«Io abitavo con lui in questa casa, al piano di sotto. Ho iniziato nel Savuto, una zona di origine della famiglia. La sera tornavo qui e gli dicevo: sono stato a Malito, ho incontrato tizio, caio, i compagni… E lui iniziava a raccontare la storia dei compagni, tizio aveva un papà, caio faceva quella cosa, uno ad uno. E la cosa bella era che la storia del partito socialista narrata in quel modo diventava una storia di famiglie, di sentimenti, di passioni, di emozioni, anche di contrasti e di odi, ma una storia di famiglie».

Come visse la vicenda giudiziaria?

«All’epoca ero studente di giurisprudenza. Nel vedere mio nonno che soffriva per questa persecuzione scattò in me una molla che mi fece accelerare gli studi per essere utile e poter seguire la causa».

Fu un colpo duro per lui?

«Certamente. Uno che per tutta la vita si era battuto contro la mafia e sentirsi accusato di esserne amico vedeva negato l’impegno di una vita. Quella vicenda andò a intersecare la vicenda amministrativa impedendogli alla fine di fare il sindaco. E c’era la difficoltà oggettiva nel difendersi. Ho partecipato a gran parte delle udienze tra Palmi, Roma e Padova e ho sentito pentiti che dicevano: Mancini era d’accordo con Freda nel mettere la bomba sotto il ponte della Fiumerella a Catanzaro. Come ci si poteva difendere mentre poi sui giornali si pubblicavano i verbali di questi pentiti. Aggiunga il suo profondo rispetto per le istituzioni. Più volte venne il presidente Cossiga, suo amico personale, ma mio nonno se ne stava venti passi indietro».

Ebbe solidarietà importanti?

«Chiaramonte, Macaluso, Cossiga andarono a testimoniare per lui. Da una parte i padri della Repubblica dall’altra i pluriomicidi. Ce n’era uno che diceva: ho ucciso quaranta persone. Se queste erano le referenze…».

Era con lui quando ci fu l’assoluzione?

«La prima vicenda si svolse a Catanzaro dove venne cancellata la sentenza di condanna per incompetenza territoriale. Ma il momento più bello fu a Catanzaro quando il gup Calderazzo, morto poi giovanissimo, lo assolse perché il fatto non sussiste leggendo tutta la motivazione. Un’emozione molto, molto, molto forte».

Una pagina terribile?

«Anche dal punto di vista fisico. Consideri che questo accadeva quando aveva 86 anni».

Anche il lavoro di sindaco si svolse tra queste difficoltà fisiche. Eravate preoccupati?

«Vittoria è sempre stato un punto di riferimento, presente e amorevole in tutta la sua vita. Ma naturalmente le difficoltà erano oggettive. Lui tornava dal Comune. Alle tre si sedeva a tavola, mangiava, riposava un pochino, poi riprendeva o convocando qui in questa stanza i suoi collaboratori o ritornando al Comune. A muoverlo era sempre il profondo, viscerale amore per Cosenza e per i cosentini. Girava molto in macchina, si fermava, chiamava a sé le persone più semplici, più umili per chiedere che cosa succedeva in quella zona, di cosa c’era bisogno, cosa si poteva fare per migliorarla. Si attaccava al telefono al Comune e imbufalito gridava: qui c’è la buca, non c’è l’acqua, c’è questa perdita, c’è erbaccia, sporcizia, non ci sono luci. E pretendeva che ogni cosa fosse fatta immediatamente. Il giorno dopo ripassava per vedere se era stato fatto. Era un carro armato. Dalle piccole cose alle grandi strategie, si occupava di tutto, per esempio di urbanistica: diceva che avrebbe voluto essere un grande architetto». 

Amava Cosenza e i cosentini. Un ricordo?

«Il 24 dicembre con i ragazzi delle cooperative a via degli Stadi nel centro della manutenzione del Comune. Il brindisi, e subito dopo un operaio si mise a cantare la strina nostra, cosentina. Lui scoppiò in un pianto a dirotto che fece pensare alle sue difficoltà fisiche. Ma c’era dell’altro e lo si capì quando disse: dovrei fare di più, ci vorrebbe più attenzione per gli anziani, in fondo io sono un fortunato, ma loro no. Era un sentimento, era la pratica socialista».

In definitiva la cosa più importante per lui era la carica di sindaco. È così?

«Sì, diceva proprio questo: sono stato ministro, sono stato segretario nazionale del partito, ho avuto tanti onori, ma sono convinto che poi alla fine si ricorderanno di me come sindaco della città. E la migliore soddisfazione è stata quella di migliorare la città. In un’intervista disse: l’esperienza di sindaco mi dà la possibilità di tradurre tante parole della mia vita in cose concrete».

Sulle donne precorse i tempi…

«Fu innovativo. Ricordo l’8 gennaio 2002 quando in una bella manifestazione fu lanciata la candidatura di Eva Catizone. Lui parlò del quartiere, della città, del Primo Maggio, e anche di sua madre, una nobile De Matera, che gli aveva insegnato la Marsigliese. Fu una sorta di testamento perché morì l’8 aprile».

Mancini egemone a Cosenza, Francesco Principe dominatore a Rende. Una bella gara in casa socialista?

«Ci sono stati scontri violentissimi, ma c’era anche la capacità di capire che in alcuni momenti bisognava fare fronte comune. All’inaugurazione della scala mobile del centro storico Principe ebbe la cortesia di partecipare. E mio nonno fece un discorso sul centro storico che si prolungava a Cosenza e poi a Rende: dobbiamo – disse – rendere navigabili il Crati e il Busento, avvicinarli a Campagnano, così io arrivo con una barchetta da Cecchino. E Cecchino apprezzò».

Questa casa parla di lui. Che effetto le fa?

«Ogni tanto prendo i plichi con le sue interviste, mi metto qui, le leggo e lo sento vicino».

Lui dove si sedeva?

«Dall’altra parte, lì dove io leggo i giornali. Si svegliava presto, ci trovavamo la mattina qui. Lui si sedeva a capotavola da quella parte per fare colazione, una zuppa, io mi mettevo lì dietro. E iniziavamo la giornata commentando i fatti sui giornali. La prima selezione riguardava lo sport».

Era tifoso?

«Era appassionato di calcio, non era tifoso di una squadra, aveva delle infatuazioni, una volta per esempio per Ericcson. Mi sfotteva perché sono romanista. Era molto appassionato di cavalli, soprattutto trotto. La prima cosa che faceva era tirare fuori dalla mazzetta la Gazzetta dello Sport e andare all’ultima pagina dove all’epoca, non so ora, c’erano i cavalli».

Scommetteva?

«Sì. Andava all’Arc de Triomphe a Parigi, a Agnano, a Montecatini. E a Montecatini, diceva, non ho mai bevuto un bicchiere d’acqua, non ho mai fatto un trattamento, un massaggio. C’andava per i cavalli, era un conoscitore, un professionista».

Un cavallaro. Vinceva?

«Sì, un cavallaro. Qualche volta vinceva, qualche volta perdeva, io vincevo sempre perché se gli andava bene mi dava una percentuale».

Era generoso?

«Molto. Una volta lo feci arrabbiare. Quando superai l’esame di terza media mi regalò la sua Treccani, la mitica Treccani. Reagii senza entusiasmo. E lui: ma come io ti faccio un regalo importante e tu…».

Quanto le manca?

«Tanto. Inquadrava il singolo fatto in un contesto più ampio, aveva una visione alta delle cose».

Un grande ricordo che qui si sente anche fisicamente…

«Sì. Non c’è rimpianto perché purtroppo la vita è questa. Nostalgia sì. Quando sono stato eletto deputato, il risultato si seppe la mattina dopo. Lo chiamai, poi salii al piano di sopra, ci abbracciammo. Ero felicissimo, lui ancor di più. Disse: adesso posso morire contento».

E lei lo ringraziò mai?

«Capivo che la fine era vicina. Una sera ero tornato da Roma, contento per come era andata la giornata. Gli dissi: ti sono grato per tutto quello che hai fatto per me. Lui disse: sapessi… Un po’ era commosso, un po’ mi ero commosso io, se ne tornò verso la sua camera. Quella è stata l’ultima volta».