Di Santa Severina, dove nacque sessantasette anni fa, ricorda il mercante che ogni anno, puntuale, arrivava da chissà dove per vendere la stoffa ricavata da tre o quattro rotoli sistemati sulle spalle. Un richiamo alle origini e alle tradizioni per rivendicare una calabresità mai messa in discussione nonostante le assidue frequentazioni romane. Parlamentare, sottosegretario e ministro nei due governi D’Alema, Agazio Loiero soffre dell’immagine negativa della Regione che governa, ne dà la colpa un po’ alla storia e un po’ ai giornali. Storia nota e ampiamente dibattuta, che sfiora soltanto la conversazione, a tratti quasi una confessione sul presente e sul futuro di questa terra.

Governatore, il suo è un itinerario tormentato nell’area di centro, ma attraversandola tutto. Dopo tanti partiti, è sempre al centro?

«Sì. Al di là dei punti geografici, sono portatore di una visione del mondo che non è mai cambiata. Abbiamo avuto una terribile diaspora che ha imposto a tutti di riposizionarsi per sopravvivere. Però, i valori che ho abbracciato da ragazzo, hanno ancora una loro modernità».

Quali sono?

«Intanto una grandissima tolleranza, un grande rispetto per le idee degli altri. Sono poco dogmatico, molto aperto, non vedo cliché da cui non si può derogare. Poi la scelta atlantica. E la grande solidarietà per quelle fasce che sono ancora sofferenti. Sono, e faccio fatica a dirlo, anche cattolico, un cattolico con tutto quello che questo comporta in un paese come l’Italia. Queste idee non le ho mai cambiate, magari sono stato costretto a cambiare qualche partito».

È rimasto democristiano?

«Sì, ma senza nostalgie anche se allora c’era una scuola della politica con delle regole. Adesso non c’è più nulla. Tangentopoli, il referendum hanno fatto saltare il banco. Ed è nata una società nella quale, senza per questo essere vecchio, faccio una fatica del diavolo a riconoscermi».

Esattamente in cosa non si riconosce?

«Per esempio, nella tv ma anche nei giornali. Non dovrei dirlo essendo il presidente di una Regione difficile, ma dove sono le grandi inchieste che faceva “Il Giorno”? Si è esaltata a dismisura l’esibizione. E si perde di vista la grande questione di un mondo che si regge su un equilibrio precario. Pensiamo di bloccare i clandestini alle frontiere e dimentichiamo che questi scappano da paesi dove il 50-70 per cento dei bambini non supera il quinto anno di vita, dove ci sono pestilenza, malattie, guerre tribali. Ci sono milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno e noi in Europa diamo un contributo di due dollari e mezzo a una mucca che nasce. Tra trent’anni ci sarà ancora questo assetto? Io per fortuna non ci sarò».

Intanto lei governa, ha un potere. Che cos’è il potere?

«È la capacità di cambiare la vita delle persone. Poi è anche altro, per esempio distribuire prebende, vale a dire l’aspetto più brutto, deteriore. Però, il potere davvero fa il paio con il governo delle cose. Questo è ancora più vero in un territorio come il nostro dove è più ampia la realtà di quelli che non stanno bene. Può darsi anche che si nomini il presidente di una banca, però quel presidente di banca se scaturisce da una corretta visione del mondo può anche aiutare a cambiare le cose».

Non pensa che le cose non stiano cambiando?

«Ci sono molti freni. C’è la burocrazia anche se al suo interno operano personaggi di assoluta qualità. Poi c’è anche la stampa che si adatta spesso ad un ruolo di denuncia esasperata cosicché le poche cose buone finiscono per essere compresse dalla forza di quelle cattive».

Presidente, le notizie non sono buone o cattive, sono notizie.

«Distinguere il grano dal loglio è un’operazione difficile ma necessaria nelle società complesse dove il bene e il male convivono».

Un’iniziativa giudiziaria non si presta a facili interpretazioni. Non le pare?

«C’è stata una stagione della nostra storia nella quale sembrava che l’interesse alla giustizia fosse delegato all’accusa del pm quando invece è in mano a un giudice terzo. Ma l’enfasi che si dava all’accusa non era mai commisurabile alla notizietta sulla sentenza che magari ti proscioglieva. E le persone venivano stese letteralmente dall’accusa, subendo il dolore di un’ingiustizia. Dico e confermo che la pubblica accusa in un territorio come il nostro va sostenuta perché avvengono cose indecenti e c’è una massiccia criminalità organizzata. Io, però, che sono sempre stato da questa parte anche quando sono stato toccato direttamente, dico che bisogna stare attenti».

La Calabria è una terra dalla quale si partiva per fare fortuna. Dulbecco, Versace, tanti nomi di successo…

«Dulbecco è nato a Catanzaro. Registro con malinconia che nella Calabria nella quale è nato, se non si fosse trasferito, escludo che sarebbe mai diventato un importante premio Nobel».

È cambiato qualcosa? 

«Molto. C’è l’università, naturalmente non c’è lo sbocco post-universitario, magari spesso il laureato deve emigrare, ma c’è almeno la consolazione che quell’emigrato non avrà il posto del padre o del nonno proprio perché è laureato».

Le dico qualche nome calabrese importante. Riccardo Misasi.

«Era un personaggio di assoluta qualità. Aveva fatto studi seri. Al liceo con il massimo dei voti, laureato allo stesso modo. Oratore straordinario, un po’ apparteneva al vecchio mondo dei comizi, alla stagione ruggente della nostra politica quando si piantavano le fondamenta della democrazia. Non amava le polemiche, e questo è un difetto per un uomo politico. Si sottraeva volentieri, finiva col mutuare dal suo cattolicesimo anche questa tentazione a non essere il vincitore. Misasi ha inciso negli equilibri della storia politica di questa regione. È stato senz’altro il democristiano più importante di questa stagione repubblicana».

Giacomo Mancini.

«Io militavo nel partito di Misasi, Mancini era un socialista. È stato il personaggio più importante della storia repubblicana calabrese nel senso che pur con le sue ombre, le sue luci, i suoi amori, che quando c’erano erano tenerissimi, e i suoi rancori che erano invincibili, ha inciso di più in questa realtà pagando il prezzo più alto alla difesa di questo territorio. Pensi che cosa ha dovuto pagare Mancini per la difesa del Quinto Centro Siderurgico. Il centro siderurgico fu un fallimento perché l’acciaio era già in crisi, però in quella difesa strenua, costi quel che costi, Mancini fu un gigante. Era un uomo che non aveva paura e rappresentava il modello di calabrese che non si arrende di fronte all’ingiustizia, alle calamità, ai terremoti, alle alluvioni».

Un ricordo personale?

«Ho avuto un rapporto splendido con Mancini. Mi commuovo un poco… Dunque, ho esordito con lo scrivere sul suo giornale. Il direttore Ardenti mi chiese dei profili. Due-tre giorni dopo la pubblicazione del primo pezzo ricevetti una lettera di Mancini – era al massimo del suo fulgore politico – in cui mi scriveva: caro Loiero, lei deve scrivere in maniera stabile in questo giornale. Fui l’unico democristiano a scrivere sul suo giornale».

Lei calabrese scappa sempre a Roma. Come mai?

«Con la Calabria ho un rapporto forte ma sono convinto che il presidente dovrebbe stare a Roma e il vicepresidente qui. Certamente dipendiamo molto dall’Europa, dove peraltro ci troviamo, dopo difficoltà iniziali, al meglio come si vedrà a breve. Ma in questo governo di centrosinistra sono stato collega di quasi tutti, quindi gli accessi sono facilitati, il che è un vantaggio enorme per la Regione».

Ma ci dice un progetto concreto, una grande opera a cui sta lavorando?

«Ne ho parlato con Prodi, si tratta di un progetto per la scuola pensato dallo Stato e anche dalla Regione che innovi in maniera radicale, pur nei limiti delle norme statali, l’insegnamento. Sarà un progetto speciale che si proporrà di colmare con l’innovazione le difficoltà esistenti nella scuola; penso, per dirne una, alla diffusa difficoltà dei nostri quindicenni a recepire i concetti matematici».

Progetto ambizioso per una Regione politicamente turbolenta e che ha vissuto mesi di crisi. Superata del tutto?

«I tormenti sono rientrati».

Lei vi ha non poco contribuito fondando un partito. Non è così?

«Vi sono stato costretto per le rigidità della Margherita da cui mi sono staccato fondando il Partito Democratico Meridionale che è l’avamposto del Partito Democratico».

Lei accompagnava sulla sua auto rossa Sergio Zavoli in giro per la Calabria. Ha ancora quella macchina?

«No, ma resta un bel rapporto con Zavoli che ho visto pochi giorni fa a Tor Vergata dove la facoltà di lettere gli ha consegnato la laurea honoris causa. Zavoli, come ricordava ogni tanto Montanelli, è il principe dei giornalisti televisivi. Purtroppo in questa televisione dei giorni nostri gli è vietato l’ingresso».

La Regione ha scelto Toscani per rilanciare la sua immagine, Zavoli non sarebbe andato bene?

«Non è escluso che faccia qualcosa per noi. Quella di Toscani era un’irriverenza, volevamo che ci fosse uno shock per costringere la gente a discutere e a pensare. L’obiettivo è stato raggiunto. Sono state esibite facce pulite di calabresi che non hanno rapporti con la criminalità, di calabresi che ricordano che vivere in questa condizione difficile non è il prodotto di una razza diversa ma di solo di una storia».

Roberto Benigni in Calabria. Un’altra operazione di immagine. Riuscita?

«È un genio assoluto».

Pare che abbiate stabilito un buon feeling.

«Conoscevo il suo agente che è un calabrese. L’ho cercato, l’ho invitato a colazione e gli ho detto: senti, ho una situazione disperata in Calabria, malgrado le cose che stiamo facendo l’immagine è sempre deturpata, vessata, tu sei calabrese… E lui mi ha detto di essere angosciato. Gli ho risposto: se hai angoscia anche tu, me lo fai un piacere? Facciamo incominciare il suo spettacolo su Dante dalla Calabria; non è che solleviamo l’immagine della Calabria, però… Lui mi ha fatto da tramite. Un successo strepitoso a Cosenza, a Catanzaro e a Reggio Calabria. Mi ha riempito di cose carucce, perché le sue non sono mai scudisciate. Sono stato a cena tutte le sere con lui, abbiamo recitato Dante a tavola».

Lei ha retto il confronto?

«No. Ma, scusi la superbia, io Dante più o meno un poco lo conosco. Non tutt’e tre le cantiche nella stessa misura, conosco di più l’Inferno. Benigni ha recitato il quinto canto, io quasi lo conosco tutto a memoria, come conosco il ventiseiesimo».

Inferno, Purgatorio, Paradiso. Come definirebbe la Calabria?

«Con un verso di Dante che non può che contenere fiducia e speranza nel futuro: e quindi uscimmo a riveder le stelle».