di FRANCESCO DANDOLO

Fu Gabriele De Rosa, grande storico del Novecento, a documentare che la religiosità popolare era un fenomeno complesso. Da non guardare come si faceva e si fa tutt’oggi in modo altezzoso, ma piuttosto da comprendere nel contesto socio-culturale del Mezzogiorno.

In realtà nel caso di Padre Pio, al centro del bel libro di Matteo Cosenza (“Padre Pio, il vero miracolo”, Rogiosi), si va oltre l’Italia meridionale. Infatti, la devozione attorno al Santo di Pietrelcina raduna un popolo variegato e di diversa condizione: «Non ci sono argini per contenere il fiume in piena» commenta Cosenza. Un popolo in larga parte fatto di deboli, anziani, disabili, gli esclusi o come li definisce papa Francesco gli «scarti» della nostra società. Sono loro i protagonisti di queste pagine. Gli umili e i semplici, come lo è Padre Pio. Espressione di un’umanità dolente, ma non per questo triste e arrabbiata. Lo si percepisce nelle pagine di questo libro, in cui affiora una moltitudine di fedeli contraddistinta da un’incondizionata fiducia nel Santo che da un canto trasmette un’immediata immedesimazione – parla come i semplici – e dall’altra si mostra autorevole con le sue stimmate, inconfondibili segni della presenza divina nel suo corpo. Devoti pronti a difenderlo dall’attacco delle istituzioni ecclesiastiche perché convinti di trovarsi dinanzi a una persona che già in vita emana profumo di santità. Ma in questo popolo vi sono persone di assoluto rilievo. Fra questi ha un ruolo particolare Giovanni Paolo II che nel 1962 domandò a Padre Pio di intercedere per la guarigione di una sua amica.

Si tratta di un popolo che brilla nei suoi comportamenti collettivi per compostezza e sobrietà, soprattutto quando si raduna in decine di migliaia, occasioni in cui – nota l’autore – il dolore e la sofferenza si trasformano in bene. Una domanda di guarigione che trova risposta anche nell’ospedale che nel nome di Padre Pio è una struttura sanitaria modello dell’Italia meridionale.

L’apice lo si raggiunge il giorno in cui Padre Pio è proclamato santo: si respira la cultura del prossimo nell’attesa di un miracolo, che se riversa i suoi positivi effetti sul singolo si tinge subito di una partecipazione unanime. Continua nel nome di Padre Pio l’antica devozione taumaturgica che ha riempito la storia del cristianesimo nelle regioni meridionali con un chiaro fondamento evangelico: tanta parte della vita di Gesù si caratterizza per aver compiuto miracoli. Così un’incessante invocazione pervade il libro, sussidiata da tanti volontari, per lo più giovani al servizio di chi soffre e rivelatori di un’autentica civiltà: «Perché in questo luogo questi disabili sono persone, anzi vengono prima degli altri». Innanzitutto vengono prima per la fede che li anima. La manifestazione di questa fede è la chiesa progettata da Renzo Piano che permette ai tanti che vi entrano di raccogliersi in modo intimo «nell’aura che domina questi spazi». Ed è significativo che gli archi della chiesa convergono tutti in direzione delle spoglie di Padre Pio, nell’intento di creare un legame tra il luogo della preghiera e l’intercessione di Padre Pio. Un modo di concepire l’architettura che si contrappone alle costruzioni segnate da una modernità che sull’onda del turismo religioso si mostra irrispettosa nei confronti dei sentimenti che suscita quel luogo.

Si potrebbe pensare che sia un libro scritto da un seguace di Padre Pio. L’autore, invece, si definisce agnostico, inviato del suo giornale a San Giovanni Rotondo in occasione della veglia a trent’anni dalla morte di Padre Pio. Vi giunge senza pregiudizi, motivato da una gran voglia di capire e ascoltare. Si imbatte in una realtà inedita, osservata con molto rispetto che lo rafforza in una ricerca interiore, mai sopita. Una ricerca ancora attuale di fronte alle grandi domande della vita che traggono spunto dai semplici e umili fedeli di Padre Pio. E in effetti è proprio così: guardando gli ultimi si riscopre il senso vero della propria esistenza.

* Articolo pubblicato il 2 dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno