Di ritorno da un incubo durato 24 giorni si può ricavare qualche indicazione che vada al di là dell’esperienza personale? Nel suo editoriale dei giorni scorsi Procolo Mirabella ha pacatamente ricordato lo stravolgimento del nostro sistema sanitario in anni di tagli, di finanziamenti squilibrati, di sottovalutazione concreta delle strutture pubbliche e di guasti che sono stati messi drammaticamente a nudo dalla pandemia. Occorre ripensare tutto, rivedere modi, procedure e risorse e finirla con l’associazione tagli lineari-maggiore efficienza-meno sprechi e corruzione. Anche perché qualcuno – tutti quelli che hanno lavorato per smantellare di fatto il primato della sanità pubblica riuscendoci, fortunatamente, solo in parte – dovrebbe rispondere alla domanda: è paragonabile il danno finanziario di oggi ai risparmi degli anni scorsi? Da dove ripartire? Dal buon senso, dall’esperienza del passato, dalle cose che funzionavano, soprattutto dal primo protagonista del sistema, dalla base della piramide senza la quale la costruzione crolla: il medico.

In una famiglia formata da padre, madre e due bambini di cinque e tre anni, appena appresa la notizia che il collega del primo era risultato positivo è scattato l’allarme. Primi colpi di tosse e altri fastidi che ormai scrutiamo con gli occhi spalancati e le orecchie stappate. Immediata la paura con corredo di cattivi pensieri. Domenica mattina. Prima telefonata al medico di famiglia, una dottoressa di grande esperienza e disponibilità (anche all’una di notte risponde, sempre). Lei intuisce subito il pericolo e prescrive la terapia anti-covid. Intanto, l’interessato (non ha febbre) si reca con tutte le precauzioni al Cotugno e si mette in fila davanti alla “casina rossa” per fare il tampone. Nel frattempo chi scrive era in giro per farmacie. Lui, tornato a casa, pur senza sapere di essere positivo o negativo, inizia la terapia. Due giorni dopo saprà di essere positivo, ma intanto è già sotto farmaci. Un vantaggio che anche un ignorante in medicina capisce quanto sia stato importante.

Secondo tempo. Uno dei tre farmaci, l’antibiotico, non è sufficiente e dopo quattro giorni si manifesta la febbre con punte molto alte. Nuovo allarme, angosciante. Un familiare ricerca il numero dell’Usca e telefona. Dopo un’attesa non lunghissima una voce: «Sono… mi dica». I nomi (questo come quello del medico di famiglia) dovrebbero essere fatti, ma è meglio di no perché qui parliamo di un sistema e non delle persone, sapendo che dobbiamo riconoscenza infinita a tutti i medici, infermieri e al personale sanitario che sulla trincea più esposta stanno combattendo per la nostra salute e la nostra vita.

Dunque, la dottoressa dell’Usca si fa spiegare la situazione e immediatamente ordina di cambiare l’antibiotico e si accomiata dicendo: «Mi chiami domani e mi faccia sapere». Il giorno dopo risponde al telefono e prescrive alcuni esami chiedendo di avere i risultati via Whatsapp. L’interlocuzione triangolare tra familiare, medico di famiglia e medico dell’Usca continua. La febbre scompare, il saturimetro fornisce dati confortanti, i giorni di quarantena terminano e, un sabato mattina, senza alcuna richiesta, arriva il pullmino con gli addetti al tampone. Dopo qualche giorno la buona notizia e l’incubo finisce.

È scontato che si possono raccontare esperienze di segno diverso, di assistenza inadeguata, di attese insopportabili, di mancate risposte, di disorganizzazione, di solitudine sanitaria prima ancora che umana, e, quindi, una testimonianza non fa testo e neanche statistica per quanto sarebbe bello credere che lo sia, ma ciò che conta è il suo significato. Non si può pensare di non partire da qui, dalla medicina di base, primo tassello di un sistema che preveda al meglio e al massimo, in una sequenza di contagiose positività, le Asl, gli ospedali, il personale, la ricerca. Lo dobbiamo all’esperienza tragica nella quale siamo precipitati, alla salute e alla vita che restano i beni più preziosi. Basterà ricordarsi di una domanda: quanto ci stanno costando, socialmente ed economicamente, il virus e l’impreparazione, che è fatta di messaggi sbagliati e di nostri comportamenti individuali troppo disinvolti ma anche di politiche che hanno devastato la nostra sanità pubblica. Non si ripartirà da zero, ma ci sarà molto da lavorare e non si potrà non farlo.

*Articolo pubblicato il 1° dicembre 2020 sul Corriere del Mezzogiorno