«Non ho dimenticato e non ho perdonato». Così Liliana Segre nel suo ultimo discorso agli studenti dopo trent’anni di incontri da un capo all’altro del paese, da una scuola all’altra. Un cattolico potrebbe avere da ridire perché il perdono è un pilastro del Vangelo, ma come darle torto? Come si fa a perdonare l’Olocausto, l’abiezione umana programmata scientificamente per eliminare un popolo, per dargli la caccia in ogni angolo del mondo dove si pensava potesse nascondersi, per infierire sui diversi, sugli anziani, sui bambini, su… Liliana Segre? E soprattutto non bisogna mai dimenticare. La memoria è il miglior vaccino contro il male e, purtroppo, non sempre, perché c’è anche la memoria dei malvagi.
Pensate ai negazionisti che sono sempre in attività. E poi all’obiezione ricorrente, che sottende un sentimento di condivisione più che di perdono: ma perché si parla solo dell’Olocausto e non degli stermini dello stalinismo, di altri regimi e popoli? La risposta è semplice: sono tutti da condannare, senza distinguo tranne uno che ci riguarda direttamente. E per noi intendo noi europei, noi italiani.
Quanto accadeva in Unione Sovietica riguardava da lontano la responsabilità delle altre nazioni, avveniva nei confini di un immenso paese grande quanto un continente, mentre dello sterminio degli ebrei siamo stati corresponsabili. Ci riguarda da vicino perché abbiamo applaudito le leggi razziali, abbiamo assistito o saputo che si spopolavano i ghetti, si isolavano i bambini, si vedevano sparire persone e famiglie con le quali avevamo vicinanza da sempre, in qualche caso li denunciavamo anche per farli deportare.
Noi non dobbiamo dimenticare che siamo stati infettati da quel virus. L’Olocausto graverà per sempre sulla Germania, sulla sua gente, sulla sua storia, sulla sua coscienza, ma noi non possiamo metterci nella posizione degli spettatori del dopo perché a quella partita mortale o abbiamo assistito o ne abbiamo saputo o intuito le modalità e l’epilogo.
Il perdono lo si lasci alla coscienza dei credenti, Liliana Segre ci ricorda che c’è una coscienza tout court dell’uomo che quando si fa belva del suo simile va ricordato in ogni istante. Ritenere che un proprio simile perché appartenente ad un’altra razza possa essere cacciato dalla scuola, emarginato dalla società, offeso e deriso, calpestato, deportato, schiavizzato e gasato non lo rende degno del perdono. Il ricordo è la sua condanna a vita.