Ha un senso raccontare la città, magari denunciandone anche le magagne, partendo dal generale e sfiorando qualche volta il particolare per lo più genericamente. È difficile il contrario. Ed è quello che fa Francesco Emilio Borrelli, un rompiscatole di professione. Il quale è anche consigliere regionale dei Verdi ma soprattutto un napoletano che denuncia e documenta, mettendoci faccia e corpo, aspetti precisi della difficile condizione quotidiana dei suoi concittadini. Prende spesso ceffoni, è sempre indolenzito da pugni, deve guardarsi attorno e dietro quando cammina per le strade. Lo fa per farsi propaganda? Boh! Intanto lo fa.

Tra le tante, la sua più ricorrente testimonianza riguarda i soprusi che, sotto gli occhi di tutti, un cittadino deve subire come pedone e automobilista: la sosta selvaggia e, annessa e connessa, la camorria dei parcheggiatori abusivi. L’altro giorno ha detto di essere stato aggredito davanti al Teatro delle Palme da uno che sosteneva di avere tra i suoi clienti anche un magistrato. Millanteria? Chissà. Ma a suo modo ci rammenta che viviamo in una città nella quale da un capo all’altro, dalle strade dei benestanti a quelle popolari, la casistica delle violazioni e degli abusi, anche delle prepotenze, è sterminata. Non serve andare a Taverna del Ferro, dove forse c’è qualche regola in più, basta recarsi a viale Maria Cristina di Savoia o, volendo, al salotto di piazza dei Martiri. La buona borghesia, piccola e media, non so la grande (a trovarla), si è da tempo adeguata al modello egemone che si fonda sul predominio degli interessi particolari in una città sempre più consegnata da chi amministra, soprattutto negli ultimi anni, all’anarchia. E allora un cittadino che denuncia, fisicamente, questi modi partendo da terra-terra, per quanto possa apparire anacronistico, può risultare provvidenziale.

Cambiando panorama e stile, eccoci dalle parti di piazza Vanvitelli, di via Tino di Camaino, di piazza Medaglie d’Oro. Qui opera da decenni – l’età non è quella di Borrelli – un altro rompiscatole di mestiere. Di professione è ingegnere ma Gennaro Capodanno è noto soprattutto per la sua attività pubblica, di segnalazione, di denuncia, di proposta. Ogni giorno, non ne salta uno. La materia è sterminata, in certi casi anche non condivisa da chi scrive come la campagna per spostare l’opera di Tatafiore da via Scarlatti. L’ultima: l’orologio guasto e un globo mancante dei tre del palo della luce di piazza Vanvitelli. Piccoli preziosi dettagli ma anche iniziative su temi cruciali di vivibilità del quartiere. Una miniera per gli organi di informazione per quanto la costante valanga di segnalazioni possa a volte risultare fastidiosa.

Servirebbe molto spazio per dare conto dei non pochi rompiscatole napoletani, anche di chi, come qualche giovane di belle speranze che andava piantando alberi e che si è un po’ perso per strada. Vale la pena, però, ricordarne due scomparsi da qualche anno. 

Uno aveva inventato – per anni era solo lui – un’associazione per difendere il trasporto pubblico: Alfredo Capasso. La sua costante produzione di comunicati e di attività su tutti gli aspetti della mobilità urbana che veniva recepita dai giornali senza difficoltà anche per la gentilezza del loro autore, alla lunga lo fece diventare un personaggio noto e, soprattutto, utile alla città. L’altro era un rompiscatole sui generis e forse qui viene ripescato dalla memoria perché è stato un napoletano che, con la sua umiltà, ha scritto una bella pagina di umanità e cultura: Beniamino Pontillo. Viveva al Dormitorio Pubblico di via De Blasis. Leggeva i giornali (e per questo gli dobbiamo imperitura riconoscenza) e scriveva lettere sulla sua città ma anche su altro trovando ospitalità in tutta la stampa nazionale. A volte poteva risultare fastidioso («C’è un’altra lettera di Pontillo» si sentiva spesso nelle redazioni), ma nel tempo era diventato una persona, se si può dire, di famiglia. 

Servono i rompiscatole? Per quanto pochi, a ben riflettere sono spesso e sempre più la prova di un’assenza o di una debole presenza, sicuramente quella dei partiti, delle associazioni, dei comitati, delle strutture organizzate. Ci si infiamma per un quadro, per quanto prezioso, da spostare e si tace sulla qualità della vita della città, si accetta supini che anche il professionista possa portare il cane a defecare in via dei Mille vistosamente senza busta e paletta, che si parcheggi di lungo uno scooter per riservarsi il posto per l’auto in una strada accorsata alla stessa maniera del commerciante che un po’ dappertutto mette la sedia o un cassetto vuoto della frutta ritenendo suo quello spazio, o che si piazzi la propria vettura in seconda fila anche se è libero il posto nelle strisce blu perché in queste puoi beccarti la multa e in quelle al massimo puoi trovarti la portiera rigata. E via elencando le mille facce della quotidianità dando per scontati gli aspetti ben più gravi ma in linea con tutto il resto che Borrelli mette alla berlina quasi ogni giorno.

Ci salva (la coscienza, soprattutto) l’arguzia che ci consente di chiudere con una battuta sugli altri quasi noi fossimo di un altro pianeta. E ha ragione Aldo Masullo quando ci dice che ci manca l’ironia che è la capacità di mettere in discussione gli altri facendolo automaticamente con sé stessi e, quindi, agendo di conseguenza nei propri comportamenti. Sarebbe curioso chiedere a Cuoco se oggi scriverebbe ancora dei due gradi che separano la città, la parte alta da quella bassa, la nobiltà dalla plebe, la borghesia dalle masse o, come si dice ai nostri giorni, l’élite dal popolo. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 6 aprile 2019