Un balzo indietro di quarantadue anni. L’ho fatto leggendo di questo saggio di Raffaele La Capria su Napoli e l’articolo “coraggioso” di Antonio Polito nella sua rubrica domenicale. Un tuffo nel passato e anche l’amara sensazione che il tempo scorra invano in questa nostra città.

Era il 1976 quando Antonio Ghirelli pubblicò per la Società Editrice Napoletana un “saggio-inchiesta” dal titolo inequivocabile: “la Napoletanità”. Era, quel libro di dimensioni non ordinarie e corredato da un servizio fotografico di Luciano D’Alessandro, lo sviluppo del capitolo conclusivo della sua “Storia di Napoli”, nel quale Ghirelli si chiedeva: «Si può parlare di napoletanità in un senso analogo, anche se su un piano assai più modesto, di quanto si fa per l’hispanidad? In altre parole, esiste o almeno è esistito un patrimonio culturale della nazione napoletana, una civiltà napoletana?». Confortato da un mosaico di scritti – venti firme napoletane della cultura e un testo memorabile di Pasolini sui “napoletani che sono una tribù che ha deciso di estinguersi” pur di non cambiare – scendeva di nuovo in campo per confutare due stroncature che lo avevano ferito: quelle di Gerardo Chiaromonte su “l’Unità” e di Paolo Ricci su “Rinascita”, in altre parole la bocciatura del Pci che a quel tempo contava non poco. Ricci gli aveva rimproverato di aver ignorato il fatto più rilevante intervenuto a Napoli nel dopoguerra vale a dire «la nascita e l’affermazione di grossi nuclei operai nella città e nelle province, i quali, con la loro presenza, hanno cambiato i rapporti di forza nell’interno della società meridionale operando un’azione traumatizzante soprattutto nei riguardi della plebe». Chiaromonte aveva definito «concetto ambiguo» quello della napoletanità respingendo in toto l’idea della nazione napoletana: «Napoli non è una nazione; ne mancano – ma ne mancavano anche quando era capitale di un regno – alcuni presupposti e condizioni essenziali… l’Italia è un’unica nazione in cui domina un unico sistema economico-sociale… la questione meridionale è la più stridente contraddizione della nazione italiana: ed è solo nell’ambito della nazione italiana (e in alleanza con la classe operaia e i lavoratori del Nord) che può svilupparsi una lotta positiva e vittoriosa delle popolazioni meridionali, che vogliono far sentire, con forza maggiore, la voce di questa o quella città, di questa o quella regione del Mezzogiorno».

Ghirelli chiamò a raccolta autorevoli testimoni, che chi scrive liquidò, un po’ con l’accetta, su “la Voce della Campania” come gli “esperti di napoletanità” guadagnandosi un articolo con reprimenda da parte di Domenico Rea.  In effetti, pur senza confutare le critiche alla “sua” nazione napoletana, incassò il colpo riconoscendo con un finale riparatore in risposta alle osservazioni del sindaco Valenzi, che «il solo modo di spogliarsi da ogni nostalgia e ogni retorica, per considerare quanto vi è di positivo nella tradizione napoletana, sia nel costruire per Napoli un “volto nuovo”». Perché, aggiungeva, «la salvezza della nostra città e della nostra patria può venirci soltanto da un movimento dei lavoratori che sia capace di egemonizzare la nostra democrazia senza schiacciarla». A seguire la foto di tre operai della Sebn: «Queste rughe, questi occhi severi e malinconici, queste labbra serrate come in un’incrollabile testimonianza». Testimonianza sì, ma di un mondo che non c’è più.

Dunque, pur con tutti cambiamenti intervenuti, stiamo a ruotare sempre attorno allo stesso tema, inchiodati sadicamente o masochisticamente a un’idea identitaria che, ritornando a Pasolini, ci fa sembrare una tribù, quasi una riserva indiana indisponibile all’integrazione e all’omologazione. Sarà forse perché, come sostiene Paolo Macry nel suo ultimo libro, Napoli è una “metropoli intelligente”, affermazione che fa ritornare alla memoria la tesi di Percy Allum che, quasi mezzo secolo fa, sosteneva che la città era più forte di altre metropoli italiane e più capace di affrontare e metabolizzare la crisi – ce n’era una anche allora – proprio perché perennemente in crisi. Altri parlerebbero di arte di adattarsi e di arrangiarsi. 

Se posso permettermi, io direi che è una città paziente, capace di sopportare la sregolatezza individuale che alimenta l’invivibilità collettiva, l’approssimazione delle classi dirigenti e degli amministratori, lo scarto tra le élite colte e moderne e il popolo, l’illegalità diffusa dal piccolo abuso alle truffe in grande stile, lo sberleffo e, volendo rubare un attributo caro a al governatore De Luca, il pulcinellismo. E chissà che non sia questa sua geniale pazienza la corda che mentre la soffoca al tempo stesso non la fa precipitare e la salva. Piuttosto viene da chiedersi se a queste condizioni ci sia un futuro degno di essere vissuto e addirittura se ci sia un futuro per i giovani, poi si guarda all’Italia di oggi e ci si accorge che tutto sommato non stiamo messi così male. Quasi quasi è il caso di accontentarsi. O no?           

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 19 ottobre 2018