Altri manager dello spettacolo, travolti da scandali e polemiche, scendono dal podio, lui va avanti per la sua strada. Per marcare la distanza gli basterebbe mettere in campo Benigni, in realtà può contare su una ricca scuderia di artisti di qualità. Il segreto di Lucio Presta? Ha a che fare con la Calabria nonostante l’abbia lasciata da tempo per diventare, come tanti altri calabresi in Italia e nel mondo, un numero uno nel suo campo.

Nasce a Cosenza nel 1960. Dove esattamente?

«A piazza della Riforma».

Nel cuore della città. Che ricordo ne ha?

«Un ricordo meraviglioso. Sono cresciuto da ragazzo nelle palazzine dei ferrovieri, nella casa di mio nonno. Pomeriggi assolatissimi in questo nucleo di piccole palazzine con tre-quattro famiglie in ognuna. Ci si conosceva tutti, eravamo i figli di tutti nel senso che si poteva vivere sufficientemente spensierati perché i genitori ci lasciavano abbastanza liberi. In qualunque posto eravamo di questa zona c’era una famiglia che ci guardava, perché, ripeto, i figli di una erano i figli di tutte. I ragazzi erano tutti conosciuti, le famiglie si conoscevano tutte. Una piccola città nella città. Mi manca. Ogni tanto penso con nostalgia a quei ragazzi, ci siamo persi, di un paio ho ancora notizie, mi sarebbe piaciuto rivederli, sapere cosa fanno».

A scuola dove?

«A Cosenza, poi a Praia a Mare perché il mio papà ha costruito l’ospedale di quel comune, e, quindi, ci trasferimmo lì. Successivamente andai in collegio a La Spezia».

Come mai?

«Ero abbastanza discolo e mio padre decise che mi ci voleva una bella lezioncina di educazione. Mi mandò in collegio a La Spezia dai Salesiani dove feci le scuole medie. Poi sono tornato a Cosenza e più tardi sono andato a Milano».

In quegli anni ha anche lavorato a Cosenza?

«Non a Cosenza. Per mantenere la mia indipendenza da mio padre decisi di andare a lavorare negli alberghi. Ne ho girati parecchi in Calabria e dintorni, dal San Michele di Cetraro al Santavenere di Maratea».

Li sceglieva con cura?

«Si, ma ero anche furbo, perché spesso e volentieri mio padre faceva i lavori in quegli alberghi. Non volevo dipendere da lui però telefonavo sempre nei posti dove lui era molto conosciuto, e, quindi, mi prendevano».

E che lavoro faceva?

«Ho sempre fatto l’aiuto barman, praticamente il ragazzo del bar».

Sempre in mezzo agli alcolici

«Infatti sono assolutamente astemio».

Quando nasce la scelta della danza?

«In un albergo conobbi un grande ballerino di allora che faceva sia classica che contemporanea, John Lei, un americano straordinario che aveva una scuola a Milano. Trovò che avevo un minimo di talento, cominciai a studiare come un forsennato dieci ore al giorno e dopo qualche anno ho debuttato in televisione e ho cominciato a fare Fantastico Uno, Fantastico Due fino a Fantastico Cinque».

Suo padre che disse della sua scelta?

«Mi guardava con sospetto. Anche perché tenga presente che ero giovane, capelli lunghi, orecchino, ballerino… Lui era sereno, conosceva i miei orientamenti sessuali, sapeva che mi piacevano le donne, però gli dava fastidio questa roba. Non mi osteggiava. Anche perché, per quanto l’ho sempre rispettato, l’ho anche sempre fronteggiato. Per cui se mi avesse detto di non fare una cosa l’avrei fatta due volte di più. E, quindi si arrendeva».

Insomma lei aveva un caratterino?

«Sì, una personalità formatissima anche da ragazzo. Non so come dire, poche idee ma precise».

Come diventa manager?

«Io mi metto con Franco Miseria e Heather Parisi, allora coppia regina della danza in Italia. Lavoro con loro, divento molto amico di Miseria. Capisco che la mia ambizione non è proprio quella di ballare. Franco doveva organizzare una tournée in Germania, Danimarca e Svezia per la Parisi. Dissi: posso provarci io a organizzare tutto quanto? E lui in un momento di follia mi disse sì. Da lì nacque il mio rapporto con Vincenzo Ratti, che era il manager della Parisi, di Benigni e di tanti altri».

Dunque, l’incontro con Ratti fu decisivo?

«Sì. Nel frattempo producevo i balletti per conto della Rai, che faticava molto a scritturare le ballerine. Così da giovane di belle speranze un anno dopo fatturavo cifre a sei zero. Questo venticinque anni fa. Andammo avanti per qualche anno, io e Vincenzo, poi capii che bisogna trovare persone nuove e così presi Bonolis».

Che è rimasto uno dei suoi assi nella manica.

«Era giovane, non aveva manager, aveva appena fatto una trasmissione in Mediaset. Proposi alla Rai di fare “I Cervelloni” con questo ragazzo, il capostruttura Mario Maffucci volle affiancarlo con Gene Gnocchi. Le cose non andavano bene, dopo due puntate Gene lasciò, dalla settimana successiva il programma fatto da Paolo come voleva lui divenne un successo clamoroso».

Il segreto di Bonolis?

«È uno dei pochi artisti italiani che ha in bocca un vocabolario, nel senso che ha l’uso corretto, alto e basso, della lingua italiana. Ti fa una citazione colta e un attimo dopo ti lancia una frase con doppio senso. Persona di grande talento, semplice, che si pone davanti al concorrente o all’ospite in maniera curiosa, perché è un grande curioso della vita, fa le cose con allegria e si vede».

Mara Venier andava alla grande, poi è stata messa da parte?

«Ha un grandissimo carattere: quello che ha nel cuore ha sulla lingua. Mi dispiace molto che l’anno scorso la Rai l’abbia sostituita a “Domenica In” con Lorena Bianchetti, persona valida ma di un’altra categoria come si vede dal successo di chi ha di fronte».

Paola Perego, che ha un posto importante nella sua attività e nella sua vita.

«Nella mia attività ha esattamente il posto che hanno gli altri. Non ho più affetto e attenzione per lei di quanto ne abbia per Mara Venier, la Clerici o la Panicucci. Nella vita privata è un’altra cosa. Stiamo insieme da dieci anni».

Una bella durata nel suo mondo?

«Ma io sono lontano dal mio mondo e Paola è la donna di spettacolo più lontana dal mondo dello spettacolo».

Benigni non ha bisogno di presentazioni.

«Mi picco di averlo convinto, ammesso che andasse convinto – forse ho solo stimolato il suo desiderio – di tornare in televisione. Il 23 dicembre del 2002 ho fatto questa cosa straordinaria, “Ultimo del Paradiso”. Il mattino dopo vedere quei dati di ascolto con un programma così alto, così difficile, così importante, devo dire che mi ha inorgoglito e non poco».

Sarà molto invidiato per il suo rapporto con Benigni?

«Sicuramente, è un privilegio di pochi stare accanto a Roberto».

Che persona è?

«È la persona più dolce, colta, attenta alle delicatezze, alle manifestazioni di affetto, di rispetto, che io abbia mai conosciuto nel mondo dello spettacolo».

Andate sempre d’accordo?

«Non ho mai discusso nella mia vita con Roberto Benigni».

Neanche per convincerlo a venire in Calabria?

«No, assolutamente. Non era mai stato in Calabria per lavoro, ma solo di passaggio. Conosceva l’affetto che provo per la mia terra e il mio desiderio di fare qualcosa per essa, è bastato dirgli “mi piacerebbe iniziare la tournée” e lui ha proseguito “in Calabria naturalmente”».

Non se n’è pentito?

«Dopo mi ha ringraziato non solo per gli spettacoli che sono andati bene ma per l’affetto che ha ricevuto in Calabria, per alcuni scorci che ha incontrato partendo e arrivando. Ha guardato con gioia una terra che non conosceva e che ha saputo molto apprezzare. Naturalmente io volavo a due-tre metri sopra il cielo».

Torniamo un momento a questo mondo dei manager televisivi. Non è proprio un bello spettacolo. D’accordo?

«Noi siamo quello che vogliamo essere. Ognuno ha il suo stile, il mio stile è improntato alla sobrietà, alla regolarità, all’interesse dell’artista. I miei artisti non fanno convention, non vanno nelle discoteche a firmare gli autografi, non fanno inaugurazioni di supermercati. Dietro l’uscita di un artista c’è e ci deve essere una prestazione artistica. Si faccia i conti dei soldi che ho lasciato per strada».

Dunque, la frase che le attribuiscono di passare alla cassa prima di passare alla storia non è vera?

«Quella è una battuta e io pur di fare una battuta mi farei ammazzare. Ho avuto la fortuna di passare alla cassa ma anche di passare per una piccola storia».

Che pensa della tv-spazzatura?

«Che non esiste. Esiste la televisione che è un po’ lo specchio della società. La gente passa le serate intere a spiare Cogne dal buco della serratura, però poi segue “Ultimo del Paradiso”. Nei miei programmi livelli di scadimento non ce ne sono. Anche la lite tra Sgarbi e Mussolini e quella tra Sgarbi e Cecchi Paone a “Domenica In” si sono consumate tra persone di buon senso che in quel caso hanno fatto una mattata».

Anche lei ha litigato. Per esempio, con Pippo Baudo.

«Conosco Pippo da quando ballavo. Mi inchino davanti alla sua storia ma non gli perdonerò mai di chiamare un collega come Bonolis “de cuius” come se fosse un morto».

Di lei si è detto di tutto: uno squalo, un furbo, un simpatico mascalzone. Lucio Presta chi è?

«Un uomo, adesso anche un po’ adulto, che ha dedicato con amore tutta la sua vita a cercare di fare bene un mestiere». 

Ed è diventato il numero uno.

«Forse perché intorno avevo delle capre. Stimo pochissimo i miei colleghi».

Lele Mora?

«La prego, è come voler paragonare la cultura, le radici, i cibi, gli oli, i sapori, i profumi, i colori della Calabria con quelli di un qualsiasi altro posto».

Ecco, la Calabria. Per avere successo bisogna scappare?

«Questa è la colpa più grande. Io non mi sento coraggioso. Probabilmente avrei dovuto restare. Se avessi fatto quello che ho fatto restando, oggi sarei più orgoglioso. Mi piacerebbe continuare a fare piccole cose ma significative per la mia terra perché credo di essere in debito con essa».

Perché?

«Perché ho un carattere molto forte, tipico dei calabresi. Ho una determinazione nel perseguire un obiettivo, la chiami cocciutaggine, che è tipica della mia gente. Ho un’educazione che è tipica dei calabresi: porto rispetto agli adulti, cerco di difendere i più deboli, è difficile che io litighi con qualcuno che è in difficoltà».

Perché queste qualità si esprimono con tanta difficoltà in Calabria?

«Non è possibile che alcuni dei posti più importanti d’Italia siano occupati dai calabresi e nessuno di questi sia stato capace di fare qualcosa in Calabria. Forse saremo stati anche frettolosi nell’andar via. Da qualche parte c’è un tarlo, una malattia, un tumore che in qualche modo corrode gli organi sani».

Due figli, Beatrice e Niccolò, 17 e 18 anni. Vengono in Calabria?

«Sì, qualche volta dal nonno a Cosenza. Mi prendono in giro quando parlo in calabrese, e poi dicono che per il cibo questo è un paradiso. Naturalmente sono ragazzi nati a Roma. Per loro la Calabria è una gita».

Nel suo futuro c’è un ritorno in Calabria?

 «Mi piacerebbe. Prendo sempre in giro Paola e le dico che la vecchiaia la vorrei passare a Cosenza. E lei che è monzese mi guarda strano, poi mi dice: facciamo a metà, fermiamoci a Roma. Ma a lei piace la Calabria, si sente cosentina e, se non fosse così, glielo imporrei io».