Una poesia per la Calabria. Lo dice subito, lo ripete spesso e conclude con queste parole: «Dobbiamo fare una poesia per la Calabria, una poesia a quattro mani. Dobbiamo trasmettere cultura e positività». Davvero, un amore sconfinato per la sua terra. Appassionato, convinto, al tempo stesso amaro sul presente e propositivo per il domani. Il suo è un cognome simbolo della Calabria, rivendicato con orgoglio. Lo faceva Gianni, lo fa Donatella, lo fa lui, Santo Versace, oggi a capo di un impero economico che attraversa il pianeta da un capo all’altro. Un marchio indelebile del “made in Italy”, di cui Milano, capitale della moda, mena vanto e che, però, rimanda a radici profonde nella Calabria, alla sua bellezza di sempre e al suo passato mitico di terra della Magna Grecia, richiamato nel logo della casa.
Le donne sono una risorsa preziosa della Calabria, forse scendono poco in campo. Cominciamo da sua madre. Voleva fare il medico?
«Mia madre era del 5 giugno 1920. Nel ’30 prese la licenza elementare, la sua aspirazione era continuare a studiare, però mio nonno disse no: sei una femminuccia, è disonorevole che tu vada nei posti dove ci sono i maschietti, devi fare un altro mestiere. E lei scelse di fare la sarta. Andò dalla “Parigina” e cominciò la sua vita. Diventò bravissima, addirittura eccezionale, era la migliore in assoluto in Calabria. Venivano a Reggio Calabria da Messina, da Catanzaro, da ogni parte a farsi gli abiti da sposa da lei».
Come la ricorda?
«Era una persona forte, ma la cosa più importante era che lei aiutava sempre tutti. Era di una generosità, di un equilibrio, una trascinatrice, era veramente un leader. Come tante donne in Calabria».
Era un talento?
«I sarti sono artigiani straordinari. Lei addirittura si faceva il segno della croce e tagliava a mano libera, anche senza fare disegni».
E voi figli?
«Gianni ha sempre respirato l’aria della sartoria, io invece respiravo l’aria di mio padre, un’altra persona stupenda».
Che attività svolgeva?
«Negli anni Cinquanta mio padre mi ha spiegato perché gli italiani non amano la matematica. Lui vinceva le corse campestri, era campione regionale, poi era ciclista (nel ’38 batté nel Giro della Città di Reggio Calabria in volata Corrieri che aveva vinto l’ultima tappa del Tour de France, il primo vinto da Gino Bartali), fece come dilettante anche il Giro della Sicilia a tappe insieme a Nobile e altri. Dopo la guerra – lui era del 1915 – giocò nella Reggina, terzino mediano e ala sinistra, segnò anche dei gol in serie C, lo chiamavano don Nino ‘u carro armato. Nel ’30 a mio nonno, Santo Versace, nato nel 1870 a Santo Stefano Aspromonte, di cui ho l’onore di portare il nome, promise che un diploma se lo sarebbe preso anche se il tempo preferiva dedicarlo allo sport. Al quarto ginnasio lo bocciarono e allora si iscrisse alle magistrali: quattro anni, quindi scuola più corta. Mio padre mi spiegò: “Sai perché gli italiani non amano la matematica? Perché alle elementari ci sono le maestre che, non essendo mostri di cultura, la odiano e non la amano, la fanno studiare male ai ragazzi, così gli si crea un buco che va dall’asilo alla quinta elementare che poi non recuperano più”».
Ma che c’entra la matematica con la sua formazione?
«Mi fece capire come è importante lavorare, formarsi e tutto il resto. Lui era nel commercio, aveva iniziato con il carbone vegetale, quello che si fa dal legno, che all’epoca era l’unica fonte di energia: costava 36 lire al chilo. La tabellina del 36 la so tutta: 36, 72, 108, 144, 180, 216, 252, 288, 324 fino a 360. Poi passò mano mano a vendere il gas, le cucine a gas, quelle elettriche, e tutto quello che riguardava la casa, tutto. Anche lui aiutava tutti».
Faceva concorrenza a sua madre.
«Le racconto qualche episodio. Qualcuno gli diceva: don Nino, prendo la bombola ma non ve la pago, e lui rispondeva: hai figli, se la paghi bene, se no non fa niente. Poteva anche farlo perché stava molto bene. Una ragazza che lavora al Senato, nel gabinetto del presidente Marini, ha raccontato che due suoi cugini orfani avevano comprato il televisore da mio padre a rate, cinquemila lire al mese, e che quando mancavano ancora nove-dieci rate, si erano presentati per pagare e mio padre gli aveva detto che il debito era finito perché sapeva che erano orfani. Ho incontrato una signora a Udine, Caterina Giunta – suo figlio si chiama Nicolò -, che doveva dei soldi a mio padre, che non aveva voluto più nulla quando aveva saputo che il marito aveva avuto un incidente».
Dunque, questa è l’educazione avuta in famiglia.
«È l’esempio che forma i giovani. Dico sempre a mamme e padri che parlano dei figli, che prima di criticarli dobbiamo guardarci allo specchio. Se i giovani non sono bravi vuol dire che gli abbiamo dato un pessimo esempio».
Com’era la Reggio di quel tempo?
«Negli anni Sessanta fino alla rivolta del 1970, che l’ha segnata duramente e l’ha fatta arretrare, Reggio era una poesia, i locali tutti aperti, il lungomare, le palme… ma era una poesia anche il fatto che era una conquista tutto perché si usciva dalla guerra. Mi permetta un inciso: alcuni anni fa ad un’inaugurazione della Versace in Germania mi parlavano della loro situazione, di come erano depressi e io risposi con una domanda che li sorprese: ma noi dove siamo? Eravamo a Berlino in un albergo a cinque stelle con le macchine con gli autisti e stavamo vivendo nell’agiatezza e loro facevano domande preoccupate: se fossero tornati al maggio 1945, ai nostri genitori, ai nostri nonni, che si erano trovati su un cumulo di macerie e che non si erano mica messi a piangersi addosso, ma si erano rimboccati le maniche e avevano portato la Germania in Europa ai livelli che si vedono. Aggiunsi: smettiamola, facciamo meno vacanze e lavoriamo di più».
È una metafora per la Calabria?
«Certamente. Noi abbiamo il dovere di non piangere per nessun motivo. Abbiamo un clima straordinario, una regione bellissima, abbiamo due mari e dall’Aspromonte li guardiamo tutti e due, abbiamo una situazione eccellente, certo dobbiamo lavorare seriamente. Sa quale fu lo spartiacque della rivolta del 1970? Che dopo cominciarono a “sparare” Saline, quinto centro siderurgico e tutto il resto. Ci fu tanta roba buttata lì, tanti soldi allo sperpero e si è fatto capire a molta gente che per arricchirsi o per star bene non serviva lavorare. Questo è stato deleterio innanzitutto sul piano culturale. Poi la Cassa per il Mezzogiorno che con le decine di miliardi inviati ha inciso per lo zero virgola qualcosa. L’assistenzialismo non paga».
E che cosa paga?
«La fiscalità di vantaggio, la formazione permanente, le infrastrutture e non solo autostrade ma anche reti telematiche, banda larga per avvicinare la Calabria al mondo. Nella mia logica Reggio Calabria non è periferia, è il centro del Mediterraneo, è il centro del mondo».
In Calabria si incontrano eccellenze importanti che dimostrano che è possibile un’alternativa all’assistenzialismo.
«È assolutamente vero. Ne trova quante ne vuole. E se valorizziamo la Calabria operosa e produttiva trasformiamo questo sistema bloccato. Se fossi sindacalista, dopo aver difeso la dignità e il giusto salario del lavoratore, mi preoccuperei che chi ha un lavoro lo faccia bene. Se lo fa bene si arricchisce e crea posti di lavoro, se lo fa male avviene il contrario. Dobbiamo far tornare la passione e l’amore per il lavoro».
La stessa passione, pare di capire, che secondo il racconto che faceva era di sua madre e di suo padre.
«Da loro l’ho presa. Io sono del 16 dicembre 1944, anche se nei documenti sono del 16 dicembre 1945. Quando avevo sei anni mio padre mi disse: se vuoi puoi venire al negozio, ti autorizzo a dare una mano e a giocare. Per me era un gioco, però spalavo e impalavo il carbone, incassavo i soldi, 36 lire al chilo, all’ingrosso e al dettaglio».
Lei nel negozio di suo padre tra i carboni, Gianni in quello di sua madre tra le stoffe. Vi eravate divisi i compiti?
«Gianni ha sempre gattonato tra pizzi e merletti».
E Donatella?
«È venuta dopo. La prima figlia era, Pinuccia, che è morta nel 1953, poi sono venuto io, a seguire Gianni il 12 novembre 1946 e Donatella nel 1955. Lei era molto più piccola, è la coccola di tutti. Gianni l’ha voluta al suo fianco, sempre, da piccolina».
I rapporti tra lei e Gianni?
«C’era un’armonia tra noi, ma in quei tempi c’era un’armonia anche tra le famiglie, nella città, ognuno aiutava gli altri».
Lo sport è una sua grande passione. La prima tappa?
«Ho esordito a sedici anni nella pallacanestro».
Con la Viola?
«No, allora non era Viola, lo è diventata con la morte di Piero Viola, gemello del giudice Peppino. Scesi in campo il giorno di San Giuseppe, il 19 marzo del 1961, a Villa San Giovanni e vincemmo di sedici punti. Per la prima volta giocai una partita ufficiale di serie B. Lo sport è fondamentale, soprattutto la pallacanestro, che si gioca in dieci e dove è determinante chi rientra dalla panchina e ti fa vincere».
Gli studi?
«A Messina. Noi abbiamo avuto l’onore di studiare attraversando lo Stretto diverse volte la settimana. Un piacere enorme, il mare, la Calabria e il continente vicino perché la Sicilia non è una regione ma un continente. Lo scriva, il continente Sicilia. Gli arancini, i cannoli. L’anno scorso erano trentanove anni che mi ero laureato e mi hanno voluto all’università di Messina. È stato bellissimo».
Politica?
«Tessera socialista. All’università sono stato primo eletto della sinistra universitaria, consigliere nazionale Unuri, vicepresidente dell’Orun di Messina e tante altre cariche. Ero socialista, della sinistra lombardiana».
Gli scontri del 1970 li ha vissuti?
«No, per mia fortuna sono partito militare a ottobre se no finivo male. Prima del militare ho fatto altre cose. Appena laureato mi sono impiegato in banca, al Credito Italiano a piazza Italia. Assunto a ottobre, a marzo ero già fuori perché non mi piaceva. E fu uno shock per tutti: la prima volta che uno lasciava un posto di quasi 130mila lire al mese, poi uno che lasciava la banca. Quando stavo per andar via, il direttore mi disse: ti faccio dirigente in due anni. Risposi: no, me ne vado. Successivamente ho insegnato un anno: geografia economica nella mia sezione di ragioneria. Anche lì non ho presentato più la domanda perché non mi interessava. Poi sono partito militare. Sono tornato nel gennaio ’72 e, quindi, ho evitato i fatti del 1970».
Visto il suo profilo politico, ci si sarebbe trovato dentro fino al collo.
«Mi sono salvato. Li ci fu un errore della sinistra, perché non era una rivolta di destra, diventò di destra perché tutti gli altri si tirarono indietro, in particolari i socialisti e i democristiani schiavi dei vari ras cosentini e catanzaresi. E la piazza è rimasta libera. A quel punto è stata occupata. Ma la rivolta è stata popolare, di tutti i cittadini di Reggio Calabria. È una storia ancora da scrivere, ci vorrebbe un’inchiesta parlamentare, è stata una vergogna come i media nazionali se ne sono occupati, la televisione negava Reggio Calabria».
Tornato da militare che ha fatto?
«Ho aperto lo studio da commercialista».
Gianni nel frattempo che faceva?
«Quando sono tornato, trovai Gianni che aveva avuto l’offerta da un’azienda di Lucca. È partito e non è più tornato a casa. È stato prima in Toscana, poi si è trasferito subito a Milano alla fine del ’72. Quando decidemmo di fare la Gianni Versace i nostri amici imprenditori dissero: noi ci stiamo, ma tu devi venire per la gestione perché con Gianni va benissimo ma se non ci sei tu noi non partecipiamo come soci».
Gianni era il creativo, lei l’organizzatore.
«Gianni era un creativo straordinario, aveva una visione di tutto, una visione globale. Io mi occupavo del lato organizzato e industriale. Donatella ha sempre seguito Gianni anche nei primi tempi all’università fino al 1988, poi in azienda e ha sempre dialogato con Gianni».
È una grande storia di famiglia.
«Studiare Gianni Versace per i giovani è come studiare uno che ha una passione, un amore e realizza il suo sogno partendo da zero. È importante indicare Gianni Versace come uno che realizza i sogni. Può essere il simbolo della Calabria. Gianni aveva tre parole: lavorare, lavorare, lavorare. Che erano le mie, che sono le nostre. È stata una conquista continua. I manuali illustrano come si parte dal genio di un individuo e si arriva in cima, ad un marchio mondiale».
Prima ha detto che Gianni non è più tornato in Calabria. In che senso?
«In senso lavorativo, perché lui è tornato sempre, ha sempre detto “la Calabria è la casa mia”, ha sempre sostenuto di essere figlio della Magna Grecia. Andava a Scilla, passava con la barca a Chianalea. Per il lavoro era impossibile tornare da Milano. Si può fare moda in Francia solo a Parigi, in Inghilterra solo a Londra, negli Stati Uniti solo a New York».
Sua madre ha visto Gianni affermato?
«È morta il 27 giugno 1978, ha assistito anche alla prima sfilata di Gianni. Lei ha sempre pensato che fosse un genio. Infatti era genio lei, anzi lei sosteneva di essere più brava: Gianni sarà bravo, non come me, ma è bravo».
La vostra è una storia che affonda in radici lontane: lei e suo fratello che per vie diverse, il negozio di carboni di suo padre e la sartoria di sua madre, vi completate in un’azienda che conquista il mondo della moda internazionale, e l’eredità dello spirito creativo passa a Donatella che è stata la sorella piccola da coccolare. A fare da cemento non solo un’educazione alla solidarietà, ma anche la ricerca della bellezza. Lei vi ha accennato a proposito di Calabria. Può davvero essere questa la carta da giocare per creare un futuro diverso a questa terra?
«I bambini sono attratti dalla bellezza. Quando vedi un mare, quando guardi la Sicilia, le luci, le stelle di notte, quando fai una passeggiata, che cosa cerchi se non il bello? L’uomo è di per sé portato alla bellezza. Quindi, è necessario che queste cose che esistono non siano rovinate, non siano sprecate né infangate. Dobbiamo far capire a tutti che la Calabria è una terra che ha risorse incredibili».
Per anni i grandi politici calabresi perseguivano l’obiettivo dell’industrializzazione. Lei pensa che avessero ragione?
«Non avevano una visione reale del territorio. Hanno fatto danni. Quando parlo con gli stranieri a nome del Comitato di sviluppo del Sud, che vorrebbe indirizzare gli investimenti, specialmente quegli americani, verso la nostra terra, tutti mi dicono che il primo problema è la burocrazia, poi la fiscalità, la sicurezza e le infrastrutture. Posso leggerle dodici righe di un’enciclica del 1987 di Giovanni Paolo II?
Faccia.
«Leggo: “Occorre rilevare che viene spesso soffocato il diritto di iniziativa economica. L’esperienza ci dimostra che la denegazione di un tale diritto o una sua limitazione in nome di una pretesa eguaglianza riduce e distrugge di fatto lo spirito di iniziativa, e lede la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge un livellamento in basso e al posto dell’energia creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all’apparato burocratico”».
Spesso si sente dire che la mafia vera è quella grigia della burocrazia.
«È la malapolitica. Un governo serio dovrebbe prendere alcuni provvedimenti seri. L’Irap potrebbe essere abolita in un minuto. Come? Lo Stato dà circa cinquanta miliardi di euro alle imprese. Quanto costa la raccolta? Qualche miliardo di euro: primo costo da abolire. I soldi dove vanno a finire? Metà agli amici degli amici e metà vanno sperperati. Tu li lasci alle imprese, togli l’Irap, non dai soldi a nessuno. Non si fa perché a questo punto non ci sarebbe nulla da gestire. L’altra misura dovrebbe riguardare l’esercito».
E che c’entra l’esercito?
«Abbiamo duecentomila uomini che paghiamo tutti i giorni dell’anno. Caduto il Muro di Berlino e finito il Patto di Varsavia – ricordo che ero in prima linea con il reparto di cavalleria a Palmanova, a venti minuti di carrarmato dal Patto di Varsavia, nel 1971 -, l’esercito anche tecnicamente va rischierato in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania dove dovrebbe restare definitivamente. Questo può creare ricchezza perché ogni soldato porta con sé due-tre posti di lavoro e anche quattro. Li fai stare sul territorio, li puoi far lavorare. Per dire, non ci sarebbe il problema degli incendi con duecentomila uomini sul territorio. Ma è solo un esempio».
Un sogno o, meglio, un’utopia?
«No, i sogni si possono avverare, lo dimostra Gianni che li ha realizzati tutti. Bisogna impegnarsi per cambiare la politica che deve essere la ricerca del bene comune e la più alta forma di carità. Non sono parole mie ma di Paolo VI. Lo dicevo con parole mie e non sapevo che erano sue».
Per avere successo si va via dalla Calabria. Lei che consiglia: andar via o restare?
«Si possono ottenere risultati anche in Calabria. Tre parole d’ordine: educazione al lavoro, al sacrificio, allo studio; legalità; meritocrazia. Il signor Marchionne, quando l’anno scorso spiegò a 250 persone venute da ogni parte del mondo come era risorta la Fiat, disse che era avvenuto per la meritocrazia. Si va via dalla Calabria perché la gente viene cacciata».
In Calabria tutto sembra dipendere dalla politica?
«No, non c’è politica. L’antipolitica è la nostra classe politica. Il cittadino vuole la politica con la P maiuscola, non gliela danno. È questo il vero dramma».
Ma il cittadino a volte non trova anche comoda la politica che c’è?
«Se l’esempio è quello… Gli inglesi dicono che se tu tieni pulito il tuo pezzo di marciapiedi, mano a mano si puliscono anche gli altri. Quando mi capita di vedere un cestino nell’arco di cinquanta metri, raccolgo carte, pacchetti di sigarette e bottiglie e tranquillamente le vado a depositare. Sulle spiagge ogni giorno raccolgo trenta-quaranta pezzi e li metto nei cestini. E gli altri mi vedono, probabilmente cominceranno a farlo anche loro».
I suoi due figli come conoscono e vedono la Calabria?
«La ragazza, Francesca, quando le chiedi di dove è dice che è milanese, il ragazzo che porta il nome di suo nonno come la sorella quello di sua nonna, risponde che è calabrese. Lui è nato a Milano, io sono riuscito a trasmettergli questo sentimento. Loro stanno studiando all’estero, sanno che la Calabria è una regione bellissima. La vacanza ideale, mi ripeto, è tra Calabria e Sicilia: l’Aspromonte, Scilla, Costa Viola, Eolie, costa ionica, capo Spartivento e dintorni, Ferruzzano. Una poesia! Per fare il turismo devi essere educato, devi esaudire la gente, non devi truffarla. Se metti i valori, se metti l’etica, tu vinci. E ci vuole gente positiva».
Non ne manca?
«Ce n’è, e come! Dove state voi col giornale c’è Orlandino Greco. Era stato eletto con il centrodestra, ma i notabili volevano costringerlo ad amministrare alla vecchia maniera, lui si è ripresentato agli elettori e la società civile lo ha rimesso al suo posto. Sono stato nella primavera scorsa a Castrolibero, un comune bellissimo, un’atmosfera positiva, questa è la Calabria che vorrei».
Per chiudere un ricordo di Gianni.
«Quando andava a fare i ricami a Messina dove erano molto bravi, passava lo Stretto, portava delle cose meravigliose a mia madre, mangiava il gelato, il lavoro diventava una poesia, una passeggiata, una scampagnata. Questa è la Calabria dei Versace, la nostra Calabria».