Chi è Domenico Graziani? Il vescovo che realizza un progetto di innovazione economica, o quello che scende in piazza e sfila contro i Dico? L’uomo di chiesa che si intenerisce nel racconto della sua vita e non alza mai il tono pacato della voce, o quello che con lo stesso tono pronuncia parole dure come pietre contro i responsabili del mancato decollo della Calabria? L’arcivescovo di Crotone-Santa Severina è una personalità complessa. Affondato nella sua sedia al primo piano della curia, mentre dal basso arrivano i rumori del vicino mercato, parla di Stendhal e del contadino della Piana di Sibari con la sicurezza della persona di raffinata cultura e dalle idee molto chiare sul da farsi. È nato sessantadue anni fa non molto lontano da qui, di fronte allo splendore dello Jonio.

Che ricordo ha del suo paese?

«Calopezzati è la patria dei miei genitori, io vi sono rimasto poco, praticamente un anno dal 1944 al ’45. Papà, maresciallo dei carabinieri, quando è ritornato dalla Croazia fu assegnato alla legione di Catanzaro, e fino a tre anni dalla pensione il suo servizio si è svolto in questa provincia, ma il nostro rapporto con Calopezzati è stato continuo».

Perché?

«Per l’estate, essendoci i nonni, i zii e poi soprattutto essendoci il mare. Un mare bellissimo, allora molto più bello con la baia intatta. Allora non c’era l’erosione e sulla spiaggia si vedevano sì e no una decina di ombrelloni».

Quindi, vi trasferiste subito da Calopezzati?

«Papà è stato a Nicastro, Sambiase, Gizzeria, Santa Severina, pochissimi mesi a Serra San Bruno, Strongoli e a Torino dove ha concluso il suo servizio».

Che persona era suo padre?

«È stato un uomo di legge, un uomo onesto, non ha fatto favori anche quando ha ricevuto qualche offerta lauta. Noi quattro figli siamo stati impegnati tutti nello studio, e pensi che lo stipendio dei marescialli di una volta non era lo stesso di quelli di adesso. Poi è stato un uomo che la disciplina l’ha vissuta a volte anche eccessivamente all’interno della famiglia».

Era severo?

«Non severo, diciamo molto riservato e molto rispettoso. Le regole le ha accettate e le ha seguite sempre. A quei tempi non c’era la possibilità di pagarsi il vestito in borghese, lo ricordo sempre con la divisa».

Veniamo a lei. Quando ha sentito la vocazione?

«Nella mia famiglia la sensibilità religiosa era notevole. Dalla parte di mia mamma che era orfana di padre a tredici anni e figlia a sua volta di una donna di fede molto robusta: cinque figli, l’ultimo in grembo, una tomolata e mezza di terra, una ciuccia e una casa di trentasei metri quadri con letto, telaio, focolare e il desco, un tavolinetto piccolo da cui tutti attingevano. Una fede biblica, che fa parte del tessuto vitale così come di questo fa parte l’aria. E poi c’era l’abitudine alla correttezza, al rispetto delle regole, delle leggi, al senso della rettitudine, all’indiscutibilità di una vita normata che veniva dal bagaglio culturale di papà, che l’aveva avuta dal nonno, da cui aveva recepito anche delle istanze di tipo operaistico perché nonno mio era comunista: diceva sempre che i preti se la fanno con i ricchi».

E quando seppe che voleva farsi prete?

«I compagni lo prendevano in giro: questo va a suonare le campane. Morì prima di vedermi prete».

Questo è il ceppo, ma bastava a farle avere la vocazione?

«No, c’è stata anche una circostanza soggettiva legata al trasferimento a Santa Severina, dove primeggiava la figura dell’arcivescovo don Giovanni Dadone. Lui, uomo del nord, letterato fine, che per diciassette volte aveva offerto la sua vita in cambio di quella di quaranta capifamiglia rastrellati dai nazisti; e non ci fu nessun eccidio perché i tedeschi per il suo coraggio indomito non procedettero. Ecco, lui si dedicava moltissimo a noi ragazzi chierichetti, ci accoglieva, ci portava a casa, aveva sempre un pensierino per noi, ci regalava anche i coltellini con i quali allora costruivamo i giocattoli».

E lui la scoprì?

«Notò una particolare assiduità mia e di mio fratello. Mandò il suo segretario, don Giovanni Cappogrande, che – felice nota – una volta che sono diventato vescovo si è trasferito con me in diocesi e adesso è in Calabria, a chiedere a papà e a mamma se poteva averci in seminario. Per inciso, di don Giovannino come di questo vescovo parla Carlo Levi in “Le parole sono pietre”: su don Giovannino una pagina intera, il vescovo gli diede un’impressione stendhaliana, lo vide come il funzionario prefettizio mandato inter leones, cosa che non era». 

Lei come rispose?

«Dissi subito sì, mio fratello pure ma in terza media cambiò idea: evidentemente non era la sua vocazione, divenne medico».

E i suoi genitori?

«Erano rispettosissimi del vescovo al punto di ritenere che la sua chiamata costituisse la chiamata del Signore. Finita la maturità le scelte furono mie, sempre mie. Mi trovai bene in seminario, quella vita mi apparteneva».

Studiava molto?

«Ricordo che al seminario non c’erano le borse di studio per cui io facevo gli esami fuori per averli. E alla maturità fui il primo in assoluto al liceo Galluppi. Molti mi dissero: ma come, ti vai a sprecare tra i preti? Ma la mia scelta fu confermata e totale. La maturità, poi a Roma per la licenza in teologia, la Gregoriana e la licenza in scienze bibliche. Infine la sede definitiva al seminario di Catanzaro. Dovevo essere ordinato nel 1967, poi ho avuto un prolasso discale molto violento per cui fui ordinato il 5 gennaio del 1968».

Da quello che ha detto si intuisce che la sua non è stata solo una formazione religiosa. È così?

«Ho avuto la fortuna di trovare al seminario di Catanzaro, nonostante l’esiguità dei mezzi, un ginnasio e un liceo di alto livello. C’erano docenti reclutati in ogni parte d’Italia e che rimanevano stabilmente in seminario. Cosicché noi avevamo continuamente accesso alle loro camere: per una qualsiasi difficoltà tu andavi dal docente e questi te la chiariva».

Di qui lo stimolo alla conoscenza, alla lettura.

«Continuo».

Le sue letture preferite?

«Un difetto, se poi è un difetto, fu l’eclettismo. In effetti mi piaceva tutto perché abbiamo avuto professori che ci hanno entusiasmato in tutto. In quarto ginnasio un professore, Platì di Catanzaro, pretendeva che noi in classe con lui parlassimo solo in francese. Lei immagini, un ragazzino che viene dal paese, ambiente rurale, che si trova con altri sei ragazzi e per loro un corpo docente valente e stabile. Letteratura francese a livello scolastico, eccellenti corsi di letteratura italiana, ottimi professori che ci hanno dato il gusto delle lettere, delle lingue classiche».

Gli autori preferiti?

«Dalla letteratura latina alla letteratura greca. Della letteratura italiana soprattutto gli autori classici, della greca le tragedie, Platone. Ho coltivato molto la letteratura moderna afferente alle tematiche religiose, da Dostoievskij a Mauriac a Greene».

Prima di venire al 1999 e al suo arrivo a Cassano allo Jonio rapidamente qualche cenno sugli anni di mezzo che non sono pochi.

«Trent’anni. Gli anni significativi sono stati quelli romani all’interno delle parrocchie romane. I contatti con i gesuiti, formidabili. Un periodo intensissimo, anche di apertura al sociale perché le parrocchie romane macinano molto lavoro, soprattutto nel settore educativo. E lì mi sono divertito con gli scout. Poi c’è stato il periodo di Catanzaro, indicibile se lei pensa che io ho quasi settecento preti alunni dei mille e duecento che costituiscono il presbiterio della regione Calabria. In qualsiasi parte vado trovo gruppi di discepoli».

Dopo Catanzaro?

«Botricello, dove ho fondato gli scout. E lì c’è stata stata la novità di un modello educativo che si è allargato sulle famiglie di una popolazione rurale. Un’epopea. Poi sono diventato parroco di Botricello, costretto da monsignor Agostino. Proprio in quei giorni usciva un mio primo articolo sulla “Miscellanea” dell’Istituto Orientale di Napoli. Avevo tanti articoli pronti. A quarant’anni dovevo interrompere tutto? Dissi no. Ma lui mi obbligò. Da ricordare ancora l’insegnamento alla Certosa di Serra San Bruno e a Scutari in Albania: mi onoro di essere stato con don Raimondo Bertuci, che allora stava a San Lucido, il primo insegnante di teologia dopo il terrore di Enver Hoxha».

A Cassano all’Jonio arriva come vescovo nel 1999. Qui lei trovò un’azienda agricola nata dal lascito nel 1955 dell’ultimo nobile della famiglia Rovitti. Che cosa fece?

«Il patrimonio della Fondazione Rovitti non era della chiesa, ma veniva assegnato al vescovo pro tempore come esecutore testamentario. Oltre mille ettari nella Piana di Sibari, solo 180 ettari di macchia mediterranea, poi zone pianeggianti, irrigue, con colture di notevole rilievo. Il mio predecessore mi aveva lasciato tra le mani una scadenza: l’11 novembre 2002, quando in base alla normativa sui patti agrari in deroga i fittavoli, che erano degli esperti agronomi, avrebbero dovuto lasciare questi beni al vescovo in qualità di presidente della Fondazione. C’era una clausola: chi succedeva nel governo di questo patrimonio doveva garantire la continuazione delle colture altrimenti queste dovevano tornare nelle mani dei precedenti fittavoli».

Dov’era il problema?

«Con il provento di questi beni io vescovo dovevo garantire l’assistenza delle bambine e degli anziani che la chiesa raccoglieva in un istituto a Francavilla. Ma i fittavoli dell’azienda Terzeria, cinquecentosettanta ettari, davano per tutto cinquanta milioni di lire quando percepivano mezzo miliardo solo di integrazione, mentre io ero costretto a mandar via le bambine in terza media tuffandole in tessuti familiari terrificanti. Abbiamo proposto un adeguamento dei prezzi, ottenendo solo quattro milioni in più, per cui abbiamo deciso di gestire direttamente noi».

In tal modo siete diventati imprenditori?

«Dovevamo lavorare per lo sviluppo, ma io non sono né un imprenditore né un agronomo. La Provvidenza ha voluto che, insegnando per vent’anni religione in un istituto agrario a Catanzaro, potessi coinvolgere i miei colleghi. Poi ho trovato agronomi, manager formidabili, uno è il dottor Benito Scazziota di Cosenza, e manager della Compagnia delle Opere».

Per la quale non corrono tempi esaltanti, se pensiamo alla vicenda Why Not.

«Si sta facendo molta gogna mediatica sulla tanto vituperata Compagnia delle Opere. Li conosco ad uno ad uno, vengono dati per delinquenti, è un modo incivile. Proseguiamo. Ho coinvolto il sindaco di Altomonte, Costantino Belluscio, che mi ha detto di essere onorato di collaborare e di concludere i suoi giorni con gente perbene. Ho avuto la collaborazione dei Focolarini, nata dal cuore immenso del professore Luigino Bruni, di Milano Bicocca e di Oxford, che mi ha regalato un corso di economia e comunione frequentato da sessanta laureati. Infine la libera università San Pio V che mi ha dato un corso di metodologia dello sviluppo sociale. Tutti costoro non hanno avuto nemmeno una lira.».

Ha messo in moto un meccanismo virtuoso.

«Tutto quello che ho chiesto mi è arrivato, più qualcosa che mi deve arrivare. E ho trovato tantissima gente del mondo nostro e anche non nostro. Quando ho invitato il professore Pugliese dell’Unical, mi ha detto: guarda che non sono della tua chiesa. E io: non mi interessa, basta che sei competente».

Il risultato?

«Oggi abbiamo un’azienda autonoma, una delle più vivaci dell’Italia meridionale. Cinque tesi di laurea si stanno facendo su quest’esperienza. In due anni si è costituita un’organizzazione dei produttori, “Carpe naturam”, che coinvolge 475 aziende dell’Alto Jonio che dà lavoro a 140 persone, a cui va aggiunto l’indotto. Per la prima volta del nostro riso – siamo i produttori unici dell’ibrido karnak – abbiamo completato le fasi della lavorazione arrivando allo spaccio aziendale. Il riso di Sibari è il più antico di tutt’Italia: a parte il dato storico (nono secolo avanti Cristo), delle nostre risaie abbiamo documenti dell’Archivio di Napoli, con contratti di vendita del 1530».

È la chiesa, anzi il vescovo che gestisce l’azienda?

«Il vescovo, la chiesa, soprattutto i componenti laici. Il miracolo lo hanno fatto loro».

Il terreno è di proprietà della fondazione, l’azienda di chi è? Di una cooperativa?

«No. Ho un’equipe di manager che hanno lavorato con me, per questo progetto di sviluppo. Il lavoro si svolge non per cooperative ma per compartecipazione. Abbiamo intercettato degli imprenditori seri che hanno aderito ai nostri progetti».

Voi gli assegnate un pezzo di territorio?

«No, non facciamo contratti di fitto ma di compartecipazione con un rapporto alla pari. A noi interessa che il progetto vada avanti, a loro interessa realizzare i loro affari».

I profitti a chi vanno?

«Alla Fondazione. E noi in tre anni abbiamo raddoppiato perché dai cinquanta milioni di lire siamo passati ai cinquantamila euro di entrate per le bambine e le anziane ospitate a Francavilla».

A conti fatti alla chiesa ritorna un guadagno tutto sommato limitato anche se prezioso per lo scopo assistenziale che si prefigge.

«Esatto. La novità è che la chiesa in questo modo diventa volano di sviluppo della Piana di Sibari. A Cantinella, per esempio, prima si lavorava tre mesi l’anno, ora tutto l’anno. Produciamo carciofi, ortofrutta. Rana, il re dei tortellini, veniva a comprare da noi, ora mi hanno fatto benedire un camion con rimorchio pieno di teste di cavolo destinate ai tedeschi».

La vostra esperienza nella Piana di Sibari fa pensare a quella di vostri vicini, i Nola, che hanno promosso una cooperativa che coltiva 3.200 ettari e che dà lavoro a 3.500 persone. Da loro la cooperazione, da voi la compartecipazione, tutto avviene qui in Calabria e funziona. Dunque, in questa Calabria si può fare?

«Sicurissimamente. E le posso dire che partendo da questa esperienza e da quella realizzata a Locri da monsignor Bregantini che ha insistito sulla cooperazione, abbiamo elaborato delle linee progettuali per la pastorale del lavoro già approvata dalla conferenza episcopale calabra».

Dell’azienda lei si è occupato come vescovo di Cassano, ora che è arcivescovo di Crotone, se ne interessa ancora?

«No».

Ma ne parla come se fosse ancora lei il responsabile.

«È una mia creatura. Da vescovo mi sono trovato a gestire un settore a cui ero totalmente estraneo. Ho amministrato anche male il mio stipendio di insegnante che non è andato mai oltre le dodici ore, non ho una lira, e adesso come chiesa mi sono ritrovato con i miliardi».

Sulla base di questa sua esperienza, di altre che abbiamo citato e di tante altre di analogo segno positivo, cosa pensa della Calabria che si piange addosso?

«Si piangono addosso quelli che hanno diritto di piangersi addosso, perché non hanno la libertà che fornisce la cultura, sono succubi delle loro situazioni e soprattutto della prepotenza di chi si trova ad avere posizioni di vantaggio inaudite nelle singole città, governate da pochi centri di potere, diciamo da poche famiglie. C’è il pianto serio che muove dall’angoscia delle persone, e che è il pianto di gente desolata, sfruttata, vilipesa, i più miseri dei miseri. A questi bisogna dare voce».

E poi?

«Ci sono quelli che piangono perché sono chiusi in un moralismo bieco, perché in fondo chi piange crede in una missione catastrofica della vita e della storia anche se non se ne rende conto. E quando uno parla in termini apocalittico-catastrofici al presente sciopera. L’ho detto a Isola Capo Rizzato: sono trent’anni che non riuscite a fare un’organizzazione dei produttori di finocchi, tanto sapete che provvedono i sindacati. Li portano a Catanzaro, qui interviene l’assessore di turno e li paga. E conviene lavorare? Quindi, la corruzione di un sistema che ha praticato l’assistenzialismo in una maniera tale che alla povertà ha aggiunto anche la miseria morale».

Chi governa che fa?

«Intanto viene scelto dal cittadino. Qui è l’emergenza culturale vera della Calabria, perché i progetti di bonifica culturale e sociale vanno fatti non in base a un pio desiderio ma con una rigorosa metodologia. In Italia abbiamo dei master, delle sezioni di specializzazione della metodologia dello sviluppo che sono di grandissima valenza. Una mia collega di Napoli, Giuliana Martirani, assistente prediletta di Compagna, mi diceva: tu vuoi le cose ed essere libero dalla mafia? Vola alto, perché se tu voli alto e con te ci sono persone che sono competenti la mafia non ti tocca».

 stato così?

«La mafia non mi ha toccato mai, mi hanno toccato alcuni o, meglio, hanno cercato di toccarmi alcuni colletti bianchi. La burocrazia è la vera mafia, la burocrazia parassitaria, pigra, che non fa avanzare i progetti. E poi c’è un discorso sui politici. C’è molta gente seria, però ognuno è isolato e qualcuno per farsi avanti ha avuto bisogno di mettere negli armadi qualche scheletrino per cui non è libero dai poteri forti, che in questa regione sono forti, forti, con situazioni di schiavitù che sono inimmaginabili, anche tra chi occupa posizioni apicali».

Massoneria?

«Tra i massoni bisogna fare una distinzione. Posso dire anche che all’interno della massoneria va avanti una revisione critica. Dove arriverà non lo so. Non ho paura dell’intelligenza perché questa porta con sé la verità. L’uomo intelligente di fronte alla verità si inchina».

Per Crotone quali progetti ha?

«Ne ho tanti. Crotone è una città più desolata rispetto a quello che si immagini. Però c’è anche più ansietà e più disponibilità alla speranza. C’è un esercito di persone che vengono a portarmi i loro progetti e le loro idee, mi coinvolgono in tutto».

Per Crotone potrebbe esserci una nuova stagione?

«In cinque anni potremo avere novità sul tema della reindustrializzazione. Da Brescia e Ivrea ci hanno assicurato collaborazione. Abbiamo un modello – penso al mio amico Savino Pezzotta – che è quello di suscitare l’interesse delle persone. A Cassano in un mese ci ammazzarono quattro ragazzi. Era gennaio, il tre febbraio c’era la festa di San Biagio, la sera precedente mi telefonò un signore che non volle presentarsi e che mi chiese per l’indomani una parola di speranza. Lo feci. Dopo quattro giorni sono arrivati esponenti di associazioni, ci siamo uniti ed è nato il forum delle associazioni. Non sono un sognatore».

Monsignore, apertura al sociale, innovazione, lotta agli usurai (ha creato una fondazione), associazionismo, viene da pensare al nonno comunista, e poi lei sfila in piazza contro i Dico…

«Come la mettiamo? Le dico subito. Per la stessa esigenza di libertà. Intanto non ho guidato la sfilata organizzata dalla consulta diocesana per l’apostolato dei laici, li ho accompagnati. Nel mio intervento ho detto che la mia ribellione non era contro una proposta di legge ma sul metodo. Perché pur essendoci tanti modi di difendere le convivenze omosessuali, si voleva in tutti i modi farle entrare nel diritto familiare. E questo aveva un carattere prettamente ideologico. Io manifestavo la mia opposizione a questo carattere ideologico. Vogliono convivere da omosessuali, certo non da cristiani? Io rispetto la loro decisione perché il mondo è vario, però non dovete venirmi a dire che l’unico modo da adottare per queste unioni sia quello del diritto familiare. Ho compiuto un’inversione di campo? Ho semplicemente esercitato la libertà di cittadino italiano che manifesta le sue opinioni. Faccio politica? Manco per sogno. Tant’è che il Family Day di Roma ha ricalcato quello di Crotone. Un’autentica festa, e se un gruppetto di giovani ha messo uno striscione non l’ho commissionato io».

Migrantes. Lei se ne occupa con precise responsabilità.

«Sono responsabile nazionale per gli zingari. Ne arriveranno a milioni dalla Romania e dal mondo nomade in genere. È un’emergenza epocale. Penso che non siamo pronti. Ma non possiamo risolverla con i soldati e con i kalashnikov sulle spiagge. Occorre innanzitutto stabilire delle relazioni con i paesi di origine e modificare i caratteri dell’Unione Europea che ora è un mercato comune europeo. Il primo diritto da salvaguardare è quello alla vita».

La carità. Nel caso delle sue esperienze economiche quanto c’entra?

«C’entra tutta ma nel significato più propriamente biblico. Carità non come assistenza, come elemosina, ma come amore o, meglio, come trasparenza dell’amore di Dio dal quale una persona si sente invaso. Le confido un particolare. Quando stavo per nascere, mi dovevano uccidere perché mi ero messo in posizione sbagliata. Le conoscenze ostetriche erano molto limitate. Mia mamma Michelina si accorse che stavano preparando la stanza e che si accingevano ad andare a prendere con un calesse a Rossano il professore Casciano che doveva uccidermi. Si è ribellata, si è alzata, sarà stato il movimento ma io sono nato, tant’è che una zia che faceva la mammana disse: ma che lo chiamate a fare, non vedete che il bambino sta nascendo. E sono nato. Bastava niente, un attimo di distrazione di mia mamma e non c’ero. Lei adesso ha 94 anni, piena di dolori, non le diamo medicine perché, con due femori e un braccio rotti, sopporta le sofferenze, e quando le chiedo come sta, risponde: io ringrazio Dio faccia ‘n terra».

Quanto vuole bene a sua madre?

«È indicibile, è indicibile».

E a Cristo?

«Gli ho dato tutta la vita. Tutta».