La mia Russia in un quadro di mucche e betulle

di MATTEO COSENZA*

“Dopo otto giorni dal mio ritorno dall’Unione Sovietica cercherò di essere il più obiettivo possibile…”. “Discorsi pieni di parole e di citazioni nelle quali il nome di Lenin è abusato ed usato a sproposito…”. “Alla fine di tutte le conversazioni ci trovavamo pieni di parole ma privi di conoscenze…”. Il tono è questo, e non cambia di città in città, da Barnaul a Novosibirsk a Mosca, di fabbrica in fabbrica, tra i pionieri o nei kolchoz, negli incontri di partito. Il “paradiso in terra” non è quello immaginato e l’operaio che incarna la mitologia del Pci osserva e giudica e poi, il 28 agosto 1970, redige la sua lettera riassuntiva, un “rapporto” scritto con calligrafia minuta e pieno di errori grammaticali che io trasferii sulla macchina da scrivere. Il destinatario era Giuliano Pajetta, responsabile dell’Ufficio Fabbriche del Pci, il mittente era mio padre Saul, che, come di rigore nella tradizione del Pci, aveva finalmente compiuto il suo viaggio nel paese del socialismo e ora scriveva la sua relazione. Salvava l’idea del “mondo socialista”, ma che delusione la realtà del “socialismo reale”!

Di quel viaggio non mio, ma che un po’ sentii tale, mi sono rimaste le carte e il regalo che gli avevo chiesto di portarmi dall’Urss: un busto di Lenin. E, per quanto fossi vaccinato già da tempo, quale delusione anche la mia, venticinque anni dopo, nel settembre 1995, quando, dopo aver visitato come di rigore il Mausoleo della Piazza Rossa con la salma imbalsamata del protagonista della Rivoluzione d’Ottobre, in un negozio di Mosca comprai una t-shirt con il disegno di un canonico volto di Lenin con l’aureola a forma della M di McDonald’s e lo slogan: McLenin’s. L’allora grafico del “Mattino” e oggi art director del “Corriere della Sera”, Bruno Delfino, mi soprese con una delle sue genialate: fotografò la maglietta e disegnò la pagina del mio reportage per l’inserto domenicale riproducendola quasi a grandezza naturale. Il sogno di mio padre, un po’ ereditato e un po’ già ampiamente svanito, era finito su una bancarella.

In realtà io non cercavo Lenin ma non mi dispiacque quando in una vecchia libreria vidi alle spalle della titolare un piccolo busto impolverato di Marx, le chiesi quanto costasse e lei: «Niet, niet. Marx non si vende». Io ero lì nella speranza di trovare la mia Russia ma il lavoro mi imponeva di conoscere Mosca. Il mio desiderio principale si realizzò poi in una maniera singolare, ma di questo parlerò più avanti. Ora, dopo il tramonto di Gorbaciov c’era da raccontare la Mosca di Eltsin, da quattro anni al timone di un paese disastrato e a quattro anni da un clamoroso tentativo fallito di colpo di stato per estrometterlo.

In un cimitero puoi afferrare lo spirito di un luogo. Andai in uno di quelli più grandi della capitale russa, il Vagan’kovo. Il mio sguardo non si posò sulle stele dedicate ai caduti del partito e ai militi ignoti, ma sul punto più appariscente dell’inizio del vialone centrale. Stavano ancora finendo una orripilante scultura, una foglia celeste con una striscia grigia, alta due metri e mezzo e che un po’ invadeva anche il vialone. Era la tomba di un giovane di 26 anni, ucciso un paio di anni prima: un mafioso. Me ne ricordai molto tempo dopo quando Michele Albanese, giornalista sotto scorta da anni, volle farmi visitare il cimitero di Gioia Tauro: i quattro quadrati convergevano da ogni lato verso il centro dove si trovava, e non so se sia ancora là, la tomba di famiglia del potente boss della ‘ndrangheta di quella zona. Tutto il mondo è paese.

Ma per capire l’aria, almeno in quel periodo, poteva bastare non muoversi dal Sovinceter dove tra le tante cose c’era anche l’albergo. Nella immensa hall, ultramoderna e con una teoria di ascensori di cristallo a vista, si muoveva un popolo variegato, di uomini d’affari, faccendieri, prostitute. Osservare era già un modo per capire. Per esempio, un gruppo di sette uomini vestiti di nero si erano salutati battendo ognuno la propria spalla destra su quella destra dell’altro e cingendo con il braccio destro da dietro il collo la propria testa, infine una manata sulla spalla e un bacio. Era la mafia caucasica che lì si ritrovava, altri protagonisti emergenti della nuova Russia trattavano in ogni angolo.

Le strade di Mosca non erano meno eloquenti. A una flotta di vecchie auto più o meno sgangherate facevano da contrappunto tante ma tante Mercedes 600 nere, mai viste tante in una volta sola. Intanto la Russia si stava preparando al nuovo Zar che muoveva i primi passi alla corte di Eltsin.

Il vecchio sistema era stato sconfitto, la nuova nomenklatura si andava formando. Il mondo di prima viaggiava in auto con me. Anna Mavlyanova, una giovane fisica nucleare, mi faceva da guida “turistica”, la sua nuova professione. Nostalgica, mi ripeteva un ritornello: «Prima nei negozi non c’era niente e in casa tutto, ora nei negozi c’è tutto e in casa niente». Ma più significativo era l’autista proprietario di un’anziana Fiat 125, Boris Balaskov, un quarantottenne che aveva chiuso con il suo passato e ora faceva il tassista e, alla bisogna, anche da scuola guida. Era un ingegnere specializzato nelle onde corte, per 28 anni aveva lavorato in Siria, nella DDR e a Cuba per realizzare installazioni militari. Ancora vincolato dal segreto di stato, dopo giorni di frequentazione seppi che aveva lavorato per l’installazione di missili terra-aria a Cuba. E ora faceva l’autista nella sua città preoccupato soprattutto dei “missili” della polizia: «Quando ti fermano vogliono soldi, altrimenti ti fanno multe a volontà se non ti sequestrano anche la macchina».

Ma dov’era la mia Russia? Ne trovai un pezzetto in una bottega d’arte: un’icona con un numero incredibile di figure di cui mi innamorai subito. Un segno dell’anima di quell’immenso paese. La comprai e con qualche preoccupazione la feci passare alla dogana, poi una volta a casa mi fu detto che mi avevano fregato perché era una “crosta”. Me ne importava poco perché a me piaceva. Poi un giorno Eduardo Cicelyn, giornalista e cultore dell’arte, mi disse che Vittorio Baratti, esperto in materia, poteva dire l’ultima parola. Gli portammo la “crosta” e lui due giorni dopo mi sentenziò che era autentica: «Ho fatto solo un’incisione quasi invisibile e mi sono fermato perché ho visto che cosa c’è sotto».

Ma era destino che dovessi cercare in quel campo. A conti fatti il mio viaggio è un quadro. Nella galleria d’arte moderna, il direttore ci stava mostrando le opere nelle varie sale, quando mi colpì una tela che stava adagiata provvisoriamente nell’angolo di un corridoio e che con il contesto non sembrava essere in sintonia. Non so che valore avesse ma io vidi la Russia in quei colori, in quei paesaggi, negli alberi, nel contadino con i secchi, nella chiesa, nelle betulle, nelle mucche, negli uccelli su un ramo spoglio, nelle orme lasciate sulla neve, nel sole pallido. La Russia dei grandi scrittori, i più amati da me. Non solo Dostoevskij (qualche amico mi chiama Fëdor) che sono andato a cercare di recente a San Pietroburgo.

Ma lì sono stato distratto dalla mia guida, un professore di scuola superiore, che, per mettere le carte in tavola, mi ha mostrato con orgoglio il suo documento di identità nel quale risulta che è nato a…  Leningrado. E nella meraviglia dell’Hermitage ci ha fatto una lezione nella non grande stanza in cui si riunì il primo governo della Rivoluzione. Con gli occhi abbagliati dall’arte ma anche dall’infinito parquet, dalle montagne di marmi, oro e qualsiasi prezioso metallo si ricavi dalla Terra, ho capito che quella Rivoluzione, al di là dei suoi esiti, non poteva avvenire che in Russia, tanto stridente era il contrasto con le condizioni del popolo. Quanto a “Delitto e castigo” e agli altri capolavori dostoevskiani sarà per un’altra volta, se mai ci sarà, per stare con loro mi riparo al caldo della mia biblioteca.

Ma torniamo a Mosca dove pensavo a Tolstoj, non a quello dei tre grandi romanzi bensì ai racconti, alle migliaia di pagine di una scrittura soave e penetrante, o alle anime morte di Gogol, ma soprattutto a Cecov, che di romanzi ne ha scritti pochissimi ma ci ha lasciato un piccolo gioiello, quasi un racconto più lungo, il viaggio, ci risiamo, di un bambino, Egòruška, dalla casa natale alla città in cui una famiglia lo adotterà per farlo studiare. Attraversa la “steppa”, da cui il titolo dell’opera, la vastità dei suoi orizzonti, la sua asprezza e aridità e poi gli squarci di umanità, le locande con i cortili coperti, le minestre, i samovar, la raccolta della lana, le notti rischiarate dalla luna che pare un sole, la nuvola improvvisa che esplode in una pioggia impetuosa…: «Non vi erano più colline e ovunque si guardasse si stendeva una pianura sconfinata triste e bruna; qua e là sorgevano piccoli tumuli e volavano le gracchie. Più avanti, in lontananza, biancheggiavano i campanili e le isbe di qualche villaggio… per due minuti tutto fu silenzio, come se il convoglio si fosse addormentato; si udiva soltanto smorzarsi in lontananza il rumore secco del secchio che ballonzolava legato alla parte posteriore del calesse».

Non so quando restai a fissare quel grande quadro che era ai miei piedi. Doveva essere mio. Ma per quanto studiassi il modo non riuscii a trovare una soluzione e capii, senza tanta convinzione, che dovevo rinunciarci. Tornai a casa, al mio lavoro. E dopo qualche mese il ricordo fu accantonato. Un pomeriggio, era appena iniziata l’estate, mi arrivò una telefonata. Era Anna, la fisica nucleare, che mi diceva che con un gruppo era venuta dalle nostre parti, che si trovava a Minori e che aveva un regalo per me. Andai incuriosito. Con lei c’era il direttore della galleria d’arte moderna. Mi avevano portato il quadro. Credo che l’abbiano fatto proprio per vedere la mia reazione, ma non saprei. Chiesi che cosa dovessi. «Nulla, è un regalo della Russia». Si ricordavano di quella mia emozione nella galleria della loro città e quasi mi volevano sentire vicino come se fossi un russo autentico anche io. Faticai molto almeno per dargli i soldi che avevano dovuto pagare alla dogana, poco più di centomila lire. E infine li salutai. Non ho più saputo nulla di loro. Ma ho quel quadro e quel quadro è la Russia, e un viaggio, per quanto appeso a una parete, può non finire mai.

*MATTEO COSENZA  (*nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

 

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Bandiera blu a Cefalonia, e le scoperte di Luigi Necco

di MATTEO COSENZA

Perché non venite a Cefalonia? Nikoletta Kokkini, che aveva sposato Giulio Fabbricatore, un professore napoletano del Politecnico, amava la sua isola e la propagandava con passione contagiosa. Andammo, pur con qualche preoccupazione, per l’età delle figlie, e anche per il viaggio: in auto da Napoli a Brindisi, partenza di sera con il traghetto e arrivo nel pomeriggio del giorno dopo a Sami, da qui in auto a Lixouri da Maria. Era l’estate del 1986. E da allora, per quanto l’abbia girata, la Grecia per me è quell’isola.

Allora fu una scoperta. Metti anche che ancora non era una meta molto gettonata – più facile raggiungere Corfù e più raffinato puntare sulla lontana Santorini – e aggiungi che era luglio, ci volle un attimo perché mi entrasse nel cuore. Il ritmo prima di tutto. Lo spazio, così vasto e inedito per uno con un ramo familiare ischitano. La natura, aspra fino suscitare il panico e dolce da intenerire. Il mare poi, e che ne parliamo a fare! La cucina, a più tardi. La gente, uno sguardo, una parola e l’amicizia. E soprattutto, non sembri un accessorio del “viaggio”, la storia comune, che fino a quel momento non mi era così chiara, e del resto ci volle, qualche decennio dopo, un nostro presidente della Repubblica, Ciampi, a ricordarci che quell’isola era stata tragicamente un pezzo del nostro Paese. Giorno dopo giorno mi rendevo conto di tutto questo, ne trovavo tracce dappertutto, vi ero dentro, immerso e attraversato da un senso di benessere, di pace, di serenità.

Fummo fortunati. La nostra casa era, come dire, un po’ fuori mano, dall’altro lato della baia di Argostoli, al centro della quale i tedeschi con la dinamite avevano fatto affondare una nave con migliaia di italiani a bordo. Stavamo a Lixouri, lontano dal centro, in campagna dove Vagheli e Maria Varsaki avevano trasformato il loro giardino costruendo delle casette semplici di un piano. Vivevano lì con le figlie Eleni e Sulla. E c’erano il nonno e la nonna.

Proprio con il nonno entrai in quella storia. Persona dolcissima, aveva un ricordo indelebile di quello che era accaduto in quei giorni di caccia feroce ai soldati italiani, ne parlava, con un dolore neanche attenuato dal tempo, come se fosse accaduto il giorno prima. Lui in greco, io in italiano, ma, tra gesti e parole, raramente mi sono compreso così bene con una persona. E noi, tutti gli ospiti e loro, trascorrevamo ore piacevoli nel giardino. Si cenava con il pesce pescato copiosamente da alcuni napoletani esperti del ramo – i greci delle isole, si sa, erano più pastori che pescatori –, con fresche insalate di pomodori, cetrioli e feta, con il maialino o l’agnello cotti sulla brace per ore mentre festosamente tutti i nostri bambini a turno giravano l’asta di ferro.

Il nonno mi è rimasto caro per più di un motivo. Intanto, mi faceva sorridere perché ad ogni pietanza gridava “Bravo Matteo”, che un po’ dispiaceva a chi le aveva cucinate, mentre io avevo solo il compito dei dolci. L’anno dopo, l’agosto fu torrido e in Grecia il caldo provocò molti morti. Perché lo ricordo? Un attimo di pazienza.

Mi venne l’idea di fare un babà. Intanto non trovavo il recipiente adatto: ce ne voleva uno grande, visto che la sera eravamo sempre sulla trentina di persone. Me lo inventai. Aiutandomi con la carta argentata e con del filo di ferro feci diventare altissimo un largo ruoto a ciambella. Poi mi serviva il lievito di birra. Girai tutti i negozi senza fortuna, infine andai in un panificio e riuscii a farmene dare un po’: era il miglior “magiábýras” che abbia mai trovato. Primo impasto, poi, immaginando che ci volesse un po’ di tempo per la crescita, dissi a mia moglie che andavo in paese per comprare delle cose, che avrei fatto presto e che soprattutto controllasse che il babà non tracimasse dal ruoto. Quando tornai, dal vialetto vidi mia moglie che dal balcone mi invitava a correre perché il babà, per effetto del caldo di cui dicevo, stava per fare una brutta fine.

Fu incredibile quel dolce, non so quanti litri di bagna assorbì, rammento solo che quando lo portai sul tavolo sotto il pergolato era enorme e giustificava la “scafarea” con la panna fresca appena montata che degnamente l’avrebbe accompagnato. Quella volta il nonno poté legittimamente, e senza che nessuno se ne adontasse, esultare: “Bravo Matteo!”.Il nonno, dicevo. Si finiva alle ore piccole con i canti greci. E poi c’erano momenti che facevano tremare vene e polsi, quando lui cantava in un dolce e struggente italiano, le nostre canzoni, quelle che aveva sentito dai nostri soldati, e ora che lui non c’è più sento ancora risuonare parola per parola la sua “Piemontesina bella…”.

Mi capitò anche un’esibizione imprevista. Nel piccolo borgo di Agia Thekla, una domenica fu dedicata al ricordo delle vittime della guerra. Nel corso di molti anni gli abitanti avevano raccolto dei soldi per costruire un monumento. Nikoletta, che era nata in quel paesino appollaiato sul crinale della montagna che separa Lixouri dalla spiaggia di Petani, volle che io portassi un messaggio degli italiani, in quel caso,così disse, “della stampa italiana”. E così mi trovai a parlare a quei fratelli greci che poi, immaginando chissà chi io fossi, mi fecero festa mentre lungo la strada le donne offrivano i loro dolci, quelli usati nei giorni dei defunti, in un clima che era di riflessione triste e di gioiosa fiducia nel futuro.

Pensavo addirittura di comprare una casa, ma poi l’epilogo triste dell’ultimo anno quasi ci fece rimuovere l’idea di tornare lì. Fu nel finire di agosto del 1988. La sera, come ogni sera, eravamo andati davanti alla Posta dove c’era la cabina telefonica e, dopo la fila, si telefonava a casa. Quella di mia moglie fu una telefonata tragica. La madre stava morendo. In tutta fretta, data l’ora, fu accompagnata al porto di Sami per imbarcarsi sul traghetto di mezzanotte. Io e le figlie restammo per partire due giorni dopo. E lei, tra nave e autostop, riuscì ad arrivare all’ospedale di Sorrento per raccogliere l’ultimo respiro della mamma.

Quattro anni fa ci siamo decisi e siamo andati. Sempre da Maria e ci siamo tornati anche l’anno dopo. Con tanta gente in più, anche molto cemento, però ci vuole un bel po’, e speriamo di no, per rovinare il fascino della spiaggia più bella della Grecia, Myrtos, le oasi della zona di Fiskardo, le pietruzze ocra dell’arenile sterminato di Skala, le meraviglie del litorale a sud di Argostoli o sulla costa orientale, la baia mozzafiato e quasi esclusiva di Atheras, il lago di Melissani,  e per cacciare dal porto del capoluogo le tartarughe marine che giocano con i turisti. La mattina inumidisci in bocca il dito pollice e lo fai ruotare nell’aria, capisci da dove soffia il vento e decidi che la tua spiaggia, mare calmo e godibilità totale, è dal lato opposto. La distanza non è un problema perché attraversi territori che ogni volta ti sembrano nuovi, sei sempre un turista in servizio permanente effettivo. Devi solo stare attento, specie se soffri di vertigini, quando percorri strade strette, piene di sassi fatti precipitare dalle capre o, evento non raro, di qualcuna di loro che sta attraversando, e soprattutto a precipizio sul mare che sta qualche centinaio di metri sotto. Ma anche questo è parte dell’Eden.

Il viaggio, come è noto, è anche partire e restare. Una volta lì ci siamo resi conto che non eravamo mai partiti. La sera seduti nella piazza di Lixouri davanti alla secolare pasticceria Mavroidis ci siamo deliziati di nuovo con la migliore Cioccolatina dell’isola, esattamente come quella di trent’anni prima. E quando ci sono stato l’ultima volta, nell’ottobre 2017, è successa una di quelle cose imprevedibili che solo un viaggio, fisico o immaginato che sia, può liberare dal suo scrigno.

Eravamo a Poros, in un bar del lungomare in compagnia di un ouzo fresco. Postai su Facebook una foto. Dopo pochi minuti mi arrivò un messaggio: «Visto che ti trovi là, vedi che lì vicino c’è quella che si vuole sia la tomba di Ulisse. E soprattutto quando torni portami una bottiglia di Robola». Firmato Luigi Necco. Il giornalista napoletano, noto per la sua sciarpa rossa a “Novantesimo minuto”, per il suo lavoro da cronista e soprattutto grande uomo di cultura. Per di più mio vicino di pianerottolo: per entrare e uscire di casa doveva passare per il cortile comune e davanti al balcone della mia cucina.

Andammo e trovammo chiuso. Due giorni dopo la visitammo. Luigi mi aveva invitato a trovare una cosa importante senza dirmi di più. Guardammo con attenzione e capimmo poco, mia moglie pensò che forse la struttura del vano dopo l’ingresso poteva rendere plausibile l’ipotesi che Ulisse fosse davvero stato sepolto lì e non, come è certo, nella sua Itaca che è lì di fronte.

La Robola andammo a comprarla direttamente alla cantina dalle parti del Monastero di Agios Gerasimos e la bevemmo in una cena a casa mia alla quale fu presente anche un altro nostro caro collega, Enzo Ciaccio. Il pranzo, per quel che mi dissero, fu all’altezza del fresco vino di Cefalonia, la paella e le alici indorate e fritte di Anna e per finire un mio dolce ai sette cioccolati non lasciarono indifferenti i nostri ospiti. Ma il piatto migliore, che durò fino alle ore piccole, fu… Luigi.

La sua era un’arte del raccontare e poteva parlare in maniera approfondita per ore e di tutto e non ti saresti mai stancato, poi sull’archeologia avrebbe potuto tenere testa a Schliemann. Ci raccontò della sua lunga ricerca del “Tesoro di Priamo”, che trovò a Mosca e che raccontò in un libro, di aneddoti e altre stupende favole narrative, e poi ci disse che sulla tomba di Ulisse manteneva il segreto, che ne stava scrivendo e che solo allora avrebbe svelato il mistero.

Il giorno dopo mi telefonò Emanuele Giacoia, altra “voce” storica del giornalismo e uomo di vasta cultura anche archeologica pure lui, che era con Necco davanti allo stadio di Avellino quando la camorra lo ferì in un agguato. Concordammo che avrei organizzato una cena per farli incontrare dopo tanti anni. Sarebbe stato un evento da incorniciare, il dialogo tra due “voci”memorabili. Non l’abbiamo fatta, quella cena. Luigi se ne andò quattro mesi dopo. E io ora che ne scrivo penso a che cosa sarebbe la vita senza il viaggio, senza la conoscenza, senza la “mente colorata” di Ulisse.

 

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/bandiera-blu-a-cefalonia-e-le-scoperte-di-luigi-necco

 

Ferrara e il suo romanzo, fra Bassani e Bacchelli

di MATTEO COSENZA*

C’ero già stato. Una toccata e fuga nel lontano 1984. Vi arrivai con un’Alfa 6, l’ammiraglia messa a disposizione dall’Alfasud per un convegno della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. Vidi poco e seguii distrattamente l’incontro, anche perché trascorsi con ansia gran parte del tempo in albergo, spesso al telefono con Roma, per avere notizie dal mio giornale, Paese Sera, dove in quelle ore il comitato di redazione e il consiglio di fabbrica stavano decidendo la fine dell’autogestione e la sorte dei dipendenti, compresa la mia. Da allora mi ero ripromesso di tornarci, finalmente ho mantenuto l’impegno.

Sono partito alle 9,35, il mio“Italo” entra nella stazione di Ferrara alle 13,47. Aria tersa, di nebbia e pure di nuvole neanche l’ombra, il sole lasciato a Napoli porta bene.  Nel piazzale della stazione vedo meno biciclette di quelle che le cartoline promettevano. Taxi? Meglio a piedi. Da qui all’albergo non c’è neanche un chilometro e mezzo e, a parte la piccola fatica del trolley, prima regola è scarpinare se vuoi conoscere davvero: nel turismo come nel mio mestiere, dove le scarpe si consumano purtroppo sempre meno.

Dopo la prima immersione nel verde del viale della Conciliazione eccoci nel lungo viale Cavour: una fucilata prima di raggiungere il cuore e il simbolo della città. L’albergo l’ho scelto non a caso. È quello di ventisei anni fa e sta di fronte al Castello Estense. Dalla stanza del “Mercure”si vedono il maniero, il fossato e uno scorcio di panorama. Benvenuto a Ferrara. O, meglio, bentornato.

Le tappe sono obbligate. Sei solo disorientato tra l’approfondire prima la conoscenza dei monumenti o individuare l’impianto urbanistico in cui essi sono allocati. Scelta non facile, potresti sentirti pago della sola visita della fortezza degli Estensi.  Appena archiviato il ricordo del tuo castello napoletano, il Maschio Angioino (ma per uno di Castellammare potrebbe essercene anche un altro), qui il fossato è colmo d’acqua mentre quello partenopeo  è all’asciutto sebbene il mare sia proprio al di là della strada: ma, per quanto comuni fossero gli scopi di difesa e di offesa, quello che hai davanti a te ha altre linee, altre pietre, altre geometrie. Un’altra storia.

Questo ritornare al proprio vissuto, si sa, è per il turista una ricorrente chiave di lettura e di confronto. Anche davanti al gioiello non a caso noto come Palazzo dei Diamanti, il bugnato ti rimanda a quello della napoletana chiesa di piazza del Gesù che, però, di suo aggiunge il fascino dei misteri non chiariti. La suggestione è data dal particolare, il singolo edificio, ma la convergenza nel Quadrivio degli Angeli con altri edifici memorabili, il Palazzo Turchi di Bagno e il Palazzo Prosperi-Sacrati, crea un unicum che rimanda alla curiosità maggiore, quella di percepire e via via scoprire il segreto di questa città: il suo impianto urbanistico.

Non visito tutti i palazzi che, per come sono fatti e per quello che contengono, lo meriterebbero, anche perché ho un altro obiettivo, anzi due, in questo viaggio, ma ho occhi per vedere e ancora arti, che non mi hanno fatto perdere il gusto di camminare, per indagare il potere seduttivo di queste strade, del loro colore, della simmetria e dell’armonia tra spazi pieni e vuoti, edifici e verde, di quel che resta dei tredici chilometri della sua cinta muraria.  Siamo nella cosiddetta “Addizione Erculea” dal nome di Ercole I d’Este, che pretese dal suo architetto il raddoppio urbano in prima battuta per difendere il suo stato dalla Repubblica di Venezia e poi per realizzare una sorta di città ideale, un sogno che aveva coltivato – ci risiamo –  fin dalla sua formazione alla corte di Napoli. Il risultato è la Ferrara nella quale mi trovo e che per questo è Patrimonio dell’Unesco.

Ma prima di passare alle cose serie un intermezzo doveroso. Siamo in Emilia Romagna, a tavola! Guai a ripartire senza aver fatto una scorpacciata di cappellacci, lasagne, salama, panpepato. Ho detto che non sono cose serie? Ho mentito spudoratamente. La mia pancia mi suggerisce che questo itinerario gastronomico valeva tutto il viaggio. Chiusa la parentesi veniamo alle cose… serie.

Quando vai in un paese il buon viatico è quasi sempre un libro, anche più di uno. “Praga magica”, come puoi conoscerne il segreto se, Kafka a parte, non hai nella valigia il testo sacro di Angelo Maria Ripellino? A Trieste puoi sederti al Caffè San Marco se non hai appena letto l’omonimo racconto di Claudio Magris che apre i suoi “Microcosmi”? E quale aura resta a Pamplona se le sottrai “Fiesta” di Hemingway? E fatti ancora accompagnare dallo scrittore americano nell’odissea de “Il vecchio e il mare” che ti consegnerà tutto intero l’incanto di Cuba. E così leggendo e viaggiando…

Dunque, Ferrara. Vado in giro per ritrovare la città di Giorgio Bassani, lo scrittore che l’ha raccontata in tutte le sue opere e che ha posato il suo sguardo dolente sulle ferite mai rimarginate. Ho cercato il Caffè Fetman, non l’ho trovato, chiedo e finalmente mi dicono che al suo posto c’è un’agenzia bancaria. Lo cercavo perché Bassani ne scrive ne “L’ airone”, il suo ultimo romanzo contrassegnato da “un profondo stato di depressione”, quando gli “sembrava di vivere una specie di vuoto, mi mancavano gli interessi, per la prima volta sperimentavo una condizione terribile: quella della sterilità, del non-amore”. Il tema della sua vita, il dramma della sua comunità ebraica, sarà la costante della sua opera che si incarna nella storia della città, sua pur essendo nato a Bologna, e che mi ha fatto pensare al tormento di Primo Levi e al suo tragico gesto conclusivo.

Lascio l’albergo e mi avvio a piedi nelle stradine del Ghetto Ebraico, cercando con la mia immaginazione di intercettare quella di Bassani quasi fosse possibile ritrovare il suo “Giardino dei Finzi Contini”, mi resta la memoria del romanzo e la malinconia del film di Vittorio de Sica. Cinema e letteratura si incontrano significativamente in questo luogo. Il tour termina dove è iniziato, al Castello. Sosto davanti a una delle tre lapidi in marmo che ricordano l’eccidio di undici cittadini per mano dei fascisti, e penso che un racconto di Bassani, “La notte del ‘43”, e il film che ne trasse Florestano Vancini, “La lunga notte del ‘43”, siano la prova di come la parola e l’immagine possano rendere eterna la memoria.

Oggi è il Primo Maggio. L’ultima giornata – e siamo al secondo motivo di questo viaggio – si svolgerà sull’acqua. Appuntamento alla Darsena di San Paolo alle 9,30. Il battello “Nena” ci aspetta. Temperatura mite, pochi aliti di vento, il sole troneggia. Siamo sul Po di Volano, navigheremo verso e sul “grande fiume”. In tasca non ho potuto mettere il libro, che non ho neanche portato da casa. Con i suoi 1154 grammi di peso e le 1161 pagine (solo queste perché la mia edizione è un Oscar Mondadori) era un un po’ complicato tirarselo dietro. Per mesi, però, mi sono preparato leggendolo un po’ alla volta e rivedendo su Rai Play lo sceneggiato che ne fu tratto con un indimenticabile Gastone Moschin. I nostri “cento anni di solitudine”, la saga di quattro generazioni della famiglia Scacerni dal periodo napoleonico alla prima guerra mondiale: “Il mulino del Po” di Riccardo Bacchelli .

Prima ancora del romanzo mi aveva incuriosito la vicenda dello scrittore, anche per averne incrociato qualche anno fa il nome durante un mio periodo di lavoro in Calabria. Con il giornale scoprii che Saverio Strati, uno dei più grandi scrittori calabresi, era stato dimenticato al punto che lo si riteneva morto. Viveva invece a Scandicci, alle porte di Firenze, in condizioni quasi di indigenza. Facemmo una campagna che non solo consentì ai suoi conterranei di riparare almeno con la memoria all’oblio di cui si erano macchiati ma anche all’interessato di avvalersi fino alla morte, giunta un paio di anni dopo, dei benefici della Legge Bacchelli. Il mio Virgilio, quindi, è Bacchelli, il grande scrittore finito in povertà e che ebbe il risarcimento di una legge che porta il suo nome anche se non ne beneficiò, perché finì prima di riceverne l’erogazione.

Ora sono qui, sul suo fiume, e vedrò anche i mulini a cui si è ispirato. Poco dopo il ponte della ferrovia la “Nena” abbandona il Canale di Burana e svolta a destra verso il Canale Boicelli. Ai lati le periferie di Ferrara fino alla conca di Pontelagoscuro. Quando ormai intravediamo sull’altra riva Santa Maria Maddalena, che è già provincia di Rovigo, ci immettiamo nel Po a favore di corrente, avendo a destra l’Emilia Romagna e a sinistra il Veneto. Puntiamo verso Ro. Anche se siamo lontani dalla foce la sinuosità è accentuata, con la vista che si perde nella pianura verde mentre il battello procede lentamente e senza ostacoli. Dopo 16 chilometri attracchiamo e, ormeggiando alla golena turistica, puntiamo alla prima tappa, il “Mulino del Po-Museo del Pane”.

Qui si celebrano Bacchelli e, ormai, la sua mitologia. Con il rischio, inevitabile, che il suo mulino si confonda con quello toscano, bianco secondo il marchio, della fabbrica di biscotti. Per il pranzo optiamo per la soluzione più facile. Siamo lontani dal ristorante “Il Mulino del Po”, che si trova in corrente contraria molto prima della nostra immissione dal canale al fiume, potremmo andare alla “Bottega del Po”, un’osteria al centro di Ro di cui mi hanno parlato bene ma che è un po’ distante, e allora optiamo per un ristorante sul fiume, “Vento di Supa”: buon pesce e anche ben cucinato. Dopo la visita del parco fluviale ritorno a Ferrara. La vacanza è finita.

Ancora una mattinata in giro e poi alla stazione: “Italo” parte alle 15,11 e arriverà a Napoli alle 19,28. Mentre aspettiamo il mio sguardo si ferma su una targa di marmo. Mi ricorda che «in questa stazione il 19 ottobre 1943 sostò il treno della Shoah con 1023 ebrei di Roma deportati dai nazisti verso lo sterminio di Auschwitz». Per non dimenticare.

 

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POST SCRIPTUM

 

Questo viaggio io non l’ho mai fatto. Sulla mia scrivania ho i biglietti di andata e ritorno di “Italo”, la ricevuta dell’agenzia per il soggiorno nell’hotel Mercure e le mail con la prenotazione della escursione sul Po da Ferrara a Ro. Poi è arrivato il virus e ogni programma se n’è andato a quel paese. Ma un viaggio si può fare anche con la mente, con i libri, con i film, con uno sceneggiato televisivo, con le immagini, con la ricerca di notizie e curiosità. A Ferrara ci andrò in ogni caso, quando tutto sarà finito, con lo stesso treno, nello stesso albergo e sullo stesso battello, con i voucher che mi sono stati dati a causa dell’emergenza. E, quindi, verificherò se quello di ora è stato un viaggio inventato e confronterò anche per capire se sia più affascinante il viaggio della mente o quello della realtà.

*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

Fonte: https://www.foglieviaggi.cloud/blog/ferrara-e-il-suo-romanzo-fra-bassani-e-bacchelli