Una foto e una poesia scritta a mano. Le ho ritrovate tra le “carte” e i ricordi sono riaffiorati limpidamente e ho rivisto con gli occhi della memoria Pino Simonelli. Di lui quattro anni fa, grazie a Francesco Ruotolo, sono stati raccontati i molteplici interessi della sua breve e ricca esistenza. Era nato il 29 febbraio 1948 e festeggiava il compleanno ogni quattro anni, se ne andò all’età di 38 anni. Aveva tanto da dare ma il tanto che già aveva dato era una promessa di futuro che è mancata alla cultura napoletana. Poeta, uomo di teatro, animatore culturale, giornalista, apparteneva a quella generazione dei tanti straordinari protagonisti dello spettacolo, della letteratura, della cultura che fanno di Napoli un unico nazionale e anche planetario. Pensate, quando a Napoli si mettevamo in scena solo il teatro nazionale e quello in dialetto e Eduardo veniva una volta l’anno, apriva il San Ferdinando per un mese e poi se ne tornava, lui, Pino, insieme a suoi coetanei poi di gran successo, dava Genet, Brecht, Hofmammsthal. Docente, autore di opere antropologiche con Luigi Lombardi Satriani, giovanissimo redattore di “Papè Satán, critico teatrale, militante politico, grande amico degli intellettuali svedesi, è davvero difficile imbrigliarlo in una definizione. Se la malattia, atroce e insopportabile, non ne avesse tarpato per sempre le ali oggi lo avremmo come un grande protagonista della nostra cultura.

Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo nell’ultima stagione della sua vita, in realtà era lui che frequentava me perché scriveva per “Paese Sera” critiche teatrali, articoli di cultura che mi portava regolarmente sedendosi a lungo davanti alla mia scrivania. Veniva generalmente sul tardi, quando avevo chiuso il giornale, e, quindi restavamo a chiacchierare. Negli ultimi mesi ci faceva compagnia, non desiderata, un altro ospite: la sua malattia di cui erano sempre più visibili le manifestazioni. Me ne parlava a volte come se fosse altra cosa da sé, un modo per conviverci, ma restavo agghiacciato quando di tanto in tanto si abbandonava alla sofferenza angosciosa del dover finire presto i suoi giorni. Una volta non si trattenne e se la prese con l’ingiustizia della vita, della sua vita, non riuscendo a trattenere qualche lacrima e facendomi il regalo di non nasconderla. Nelle ultime settimane diradò il suo pellegrinaggio prima faticosissimo e poi impossibile verso piazzetta Matilde Serao, mi telefonava per annunciarmi l’invio dell’articolo tramite amici. E poche ore prima della sua fine sentii ancora la sua voce. Una grave perdita per il giornale, per Napoli.

Ecco, dunque, questa foto. Bellissima, come lui: gli fu scattata – scrisse con matita sul retro – all’Università di Stoccolma. E questa poesia che mi volle far leggere. Ciao Pino.

 

per André Gide

Nel verziere giardino che sedevi, compagno

d’un oscuro tedesco, mi ritrovo al tuo posto

dominante l’affollata distesa d’un bagno

intento a ricomporre l’incomposto

disegno che hai lasciato ed alla scorza

d’arancia sorrentina, quello stesso

nutrimento terrestre che la forza

alla terra sottrae, quanto più spesso

è stato il desiderio che hai nascosto

d’un frutto più proibito. Il grano è morto

prima che la vendemmia desse il mosto.

Amico Gide, ti è stato di conforto

tradire il tradimento che ai normali

pesava, il condimento più sottile

dei tuoi versi perversi e coloniali?

O è stato poi un tormento questo vile

fuggire da te stesso, questo mito

di schiava libertà? Tento l’appoggio

nell’ardesia, ripiano all’impietrito

sconnesso tondino che è sul poggio

dove diafana andava la tua mano

del segno coniugale ancora priva

e poi ancora irriso di lontano

da Bosie e dall’antica comitiva

che ti vide amoroso. Se condanno

la tua scelta meschina, io t’accuso

di far morire il grano, se mi danno

io stesso giudicandoti, confuso,

cerco un alibi antico, un’indulgenza

nuova per la tradita mia esistenza.

Pino S.

Piano di Sorrento-Villa Arlotta 1974