di VLADIMIRO BOTTONE

Sono nato in una famiglia della piccola borghesia impiegatizia, abitavo nella Napoli vecchia e bassa. Ebbi diretta cognizione della classe operaia al secondo anno di liceo. I miei amici di militanza ed io eravamo stati un po’ malandrini. Un plotone di metallurgici si recò dall’Italsider a piazza del Gesù, per presenziare e presidiare. Nonostante l’elettricità palpabile, non mi dispiacevano quelle figure in tuta ed elmetto che brandivano massicci strumenti da lavoro. Non avevano il gusto masaniellesco di eliminare gli avversari in un irrazionale, isterico furore da linciaggio. La classe operaia non faceva giustizia sommaria; casomai si garantiva l’agibilità politica con la fisicità di quei corpulenti lavoratori. Era gente che si guadagnava il pane, sostentava la famiglia e attingeva alla passione ideale per menare, se co-stretta, le mani. Rispetto senza subordinate, da parte mia Altre volte, in quegli anni, ho sfiorato la classe operaia. Sui treni della Circumvesuviana, nella tratta da Sorrento, dove villeggiavo, a Napoli. Erano adulti vestiti con dignità e, spesso, con la testata dell’Unità dispiegata davanti al volto. Frugali, con un velo di maturità precoce, altre volte discutevano e scherzavano fra loro, sempre senza passare i limiti (niente da spartire con il plebeismo del lumpenproletariat anarcoide che vivacizza le serate a piazzetta Bellini). Scendevano tutti a Castellammare, quegli operai. Addetti presso una cantieristica parte integrante dell’Italia manifatturiera, oltreché di quell’industrializzazione del Mezzogiorno predestinata ad affrontare il mare procelloso fra Maastricht e il Wto, Scilla e Cariddi. I cantieri navali stabiesi, si diceva. Con quel peculiare skyline di scafi, carroponte, bracci di gru che incornicia i primi capitoli di questo autobiografico Casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore).

Lo firma Matteo Cosenza: giornalista stabiese di lungo corso, affabulatore fluidissimo ed uomo di strenua fedeltà alla dimensione della Politica vista come progettazione e cantiere – appunto! – della vita associata. Casomai avessi dimenticato è un titolo eloquente. Lo scritto che introduce, difatti, sorge per intero dalla memoria. La memoria di un giovanissimo militante del Pci che, grazie al padre, respira in famiglia la politica e la metterà in pratica soprattutto nelle redazioni di quotidiani e periodici. L’Unità e Paese Sera nell’edizione napoletana, La Voce della Campania, Il Mattino. Un viaggio attraverso la carta stampata – e, prima, ciclostilata — che prende spunto narrativo dal riordino di un archivio privato, stratificatosi in mezzo secolo. La carta, ancora: il supporto da cui tutt’oggi, nelle prime stesure di un testo, Cosenza non riesce a prescindere. In questo limite-virtù si racchiude il mio e il suo non essere dei nativi digitali. Il che implica privilegiare la materialità sul virtuale, il pensiero di lunga durata sulla volatilità, la consistenza sulla liquidità. Tutte caratteristiche, le prime, che tradotte in chiave politica rimandano alla forma-Partito e, trasposte in chiave sociologica, rinviano alla nozione di Classe. Cosicché la biografia esistenziale ed intellettuale di Matteo Cosenza può, a mio avviso, venire allineata su questa concatenazione: Classe-Partito-Progetto politico. Alla Classe e alla sua moralità si riagganciano i capitoli sugli anni di formazione stabiesi fra sezione, comizi, piccole avventurose pubblicazioni capaci di richiamare l’attenzione del gruppo dirigente. Al Partito si rifanno i medaglioni, mai agiografici o piatti, dedicati a Berlinguer, a Napolitano, ad Antonio Bassolino. Al Progetto politico si richiamano, invece, i passaggi riservati al ceto intellettuale con il quale Cosenza 

ha incrociato molte tappe della sua vita (belle in particolare le pagine rievocative di una figu-a irregolare e, insieme, emblematica del Novecento italiano come quella di Ruggero Zangrandi). 

Se nella nozione di intellettuale includiamo tutti coloro i quali elaborano e trasmettono conoscenza, in questa categoria dovremo finire per inscrivere non poche delle figure che, a vario titolo e grado, innervano l’autobiografia generazionale di Cosenza. Dunque giornalisti di frontiera come Giancarlo Siani (pieno di pudore e sottigliezza morale il bel capitolo a lui consacrato); di-rettori di quotidiani e articolisti, fino a studiosi eminenti quali Francesco de Martino, Giuseppe Galasso, Biagio De Giovanni. Personalità, queste ultime, che non esitarono ad abbinare una copiosa attività culturale e la partecipazione al processo di direzione politica del Paese. Di agire, pertanto, da classe dirigente saldamente ancorata ad una società nazionale, con una chiara visione 

dell’Italia ed una penetrante capacità di interpretare gli interessi di ceti e gruppi sociali, orientandone la coscienza. 

Con il che siamo dunque lontanissimi – la chiosa è solo mia, si badi – dall’odierno fantasma dell’intellettuale-star. Per solito un letterato fluttuante nella nebulosa di un’élite transnazionale dalle residenze molteplici. Uno strato sociale senza radici che non ha occhi se non per le moltitudini altrettanto sradicate, oltre che per quei «diritti cosmetici» funzionali a imbellettare i reali rapporti di forza tra i dominanti e l’universo pulviscolare dei dominati. Quei dominati — primi fra tutti le partite Iva sole dinanzi ai meccanismi di mercato — che non riescono a rappresentarsi e riconoscersi come classe. 

Che conclusione trarre, allora, dalla lettura di queste circa duecento pagine, scritte con un’efficacissima economia stilistica e un altrettanto ammirevole dispendio di passione? Dobbiamo rassegnarci a considerare queste opere memoriali solo in chiave di epicedio nostalgico dei «Trenta gloriosi» (1945-1975), da consegnare – è il caso di dirlo – alle carte d’archivio? Personalmente ritengo che il rimpianto sia dannoso come l’eccesso di salatura mentre la Memoria, come nel lavoro di Cosenza, può rappresentare il sale della terra e della vita. La Memoria può indicare che ebbe luogo un mondo diverso da oggi; che l’esistente non è un eterno presente e che domani potrebbe ribaltare quanto ora risulta – alla lettera – fuori discussione. Non è un peccato –tutt’altro – ricordare con Matteo Cosenza che vi fu un tempo in cui gli intellettuali giocavano un ruolo politico. E, aggiungo io, i romanzieri erano anche degli intellettuali (senza per giunta condannarci a leggere, come oggi, sempre la solita storiella). 

Recensione pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno il 7 luglio 2020 – VEDI ARTICOLO