Queste mogli di calciatori che decidono di scappare da Napoli sanno di già visto, di un vecchio e abusato copione che si ripete e che inquieta inevitabilmente anche chi della squadra di calcio, da cui le annunciate partenze avrebbero origine, non si interessa granché. Chissà se davvero ci sia una mano precisa dietro le disavventure capitate nel momento meno opportuno ad alcuni calciatori del Napoli, alle loro famiglie e alle loro cose. Ce lo diranno le inchieste e come al solito le attendiamo. Ma per dire del clima pesante, non nuovo, che si respira intorno alla squadra, non c’è bisogno di aspettare, perché, anche se non ci fosse, come ci auguriamo, una regia unica dietro gli episodi, il fatto stesso che la si sospetti non nasce dai cavolfiori ma dalla cronaca della città, compresa quella che è ormai storia.

Il copione, dicevo. Vale a dire la commistione inevitabile tra corso sportivo della squadra e cronaca non calcistica se non nera, tra campo di gioco e città. Una commistione che addolora la platea vasta e irriducibile dei tifosi, di quelli che con orgoglio e senza arrossire si dicono “malati” del ciuccio, e che dovrebbe essere risparmiata a un pubblico così fedele e invidiato in Italia e in mezzo mondo. Ma Napoli è così, divisa tra momenti sublimi e capacità masochistica di sporcarli, perché essa è quel caleidoscopio di realtà diverse, alcune repellenti, tenute insieme da un collante fatto di tolleranza, di lasciar correre, di perdono e sopportazione, di assuefazione, che alla fine diventa esso stesso, proprio quel collante, complicità, quasi uno dei caratteri peculiari della città se non il fondamentale.

Non sto a ripetere quanto si legge e sente da giorni sulla rivolta dei giocatori, sulle partenze minacciate, temute o desiderate, sull’allenatore in bilico insieme al figlio, sul presidente che invece di un manager affida anche lui, come nei migliori feudi, la gestione al figlio, sugli schemi di gioco, sulle formazioni troppo mutevoli in campo, sulle congiure di arbitri e var, anche perché ne capisco poco e non mi avventuro in giudizi, piuttosto è proprio quella fuga, quel clima, quel copione a sollecitare domande non nuove e anche un paragone non rassicurante.

Certo, nella sua storia il Napoli ha visto arrivare fior fiore di giocatori da tutto il mondo, anche i migliori in assoluto, ma quante volte non è stato possibile convincere calciatori di valore a venire stabilmente al San Paolo? Di alcuni si è saputo, ma probabilmente ce ne son altri di cui non si è avuta neanche notizia. Non sarà l’unico motivo, trattandosi di trattative in cui prima che il cuore spesso se non sempre contano i quattrini, ma sicuramente ha pesato più di una volta il clima, sono prevalsi i timori per le brutte faccende di questi giorni che in un baleno fanno dimenticare l’inebriante applauso dei tifosi e la bellezza folgorante di Napoli. E come non pensare, passando ad altro campo, a chi rinuncia a investire non solo nel nostro territorio ma in tanta parte del Sud, a chi vuole intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale e si ritrova a che fare con i delinquenti più o meno organizzati, e, se può, si ritrae dall’impresa e scappa, o subisce e paga.

Da napoletano, tifoso o meno non fa differenza, ma anche, come l’esempio appena ricordato che amplia l’orizzonte, da meridionale mi interrogherei su questo cancro che corrode e soffoca le nostre terre, e su come, Stato e cittadini insieme, ce se ne possa finalmente liberare per vivere meglio, per coltivare i nostri interessi, anche la passione per undici giovanotti in mutande che possono far sognare ma anche arrabbiare. Dovrebbe essere il calcio, bellezza. Sportivamente parlando. 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 13 novembre 2019