Classe 1925, ovvero quando l’intelligenza unita alla cultura non ha età. Generazioni di professionisti lo hanno temuto, amato e stimato e non lo hanno dimenticato. Era il professore di latino e greco del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza, ma chi lo ricorda parla soprattutto delle sue lezioni di letteratura greca, delle figure note e meno note che uscivano dalle pagine dei libri e si materializzavano nell’aula attraverso le sue parole. Leopoldo Conforti è persona schiva, d’altri tempi, ama la vita, la colonna sonora della sua casa è un concerto di uccelli, si infiamma se viene chiamato a parlare di quel mondo lontano. Lontano? Capo Colonna, Sibari, Locri, Reggio sono davvero così lontani? La Magna Grecia è vicina più di quanto disinteresse e incuria non facciano pensare. Prestare più attenzione al periodo più splendente della storia della Calabria non è solo un dovere se si vuole guardare a un futuro partendo dalle migliori radici di questa terra, ma è anche un gran piacere della mente. E il professore di greco è una guida straordinaria in questo viaggio all’indietro.  

Ha allevato tanti studenti, nel frattempo la città cambiava. Com’era Cosenza quando ha incominciato?

«Sono nato a San Benedetto Ullano, a Cosenza sono arrivato durante la guerra. Erano ancora evidenti i danni dei bombardamenti, era una città distrutta».

Dove si è laureato?

«A Bari».

Ma dalla Calabria non si andava solitamente all’università di Napoli?

«Mi sono iscritto all’università dopo l’8 settembre del 1943. Napoli era vista come una città difficile, era l’epoca in cui Curzio Malaparte scriveva “La pelle”. I miei genitori ritennero che era una città poco tranquilla, e preferirono Bari. Andavo in Puglia soprattutto per fare gli esami. Si viaggiava in vagoni con il cartello “uomini quaranta e cavalli otto”, solo che i cavalli non c’erano mentre gli uomini erano cento e non quaranta. Si partiva alle due del mattino e si arrivava a Bari alle dieci di sera». 

Dopo la laurea è venuto a insegnare a Cosenza?

«Nei primi tempi insegnai alle medie. Poi arrivai al liceo Telesio e ci sono rimasto».

Perché latino e greco?

«Ero laureato in indirizzo classico. Avevo una certa tendenza verso l’antico».

Al Telesio tanti studenti, uno per tutti?

«L’attuale sindaco Salvatore Perugini».

Bravo?

«Sì, era capace».

Lei era molto severo?

«No, anche se credo che una certa severità ci deve essere. Forse severità non è il termine giusto, diciamo che serve una certa serietà. Non dico che bisogna usare la sferza dei latini». 

Oggi può capitare che un professore subisca i rigori di un genitore che interviene a difesa di suo figlio. Tempi cambiati?

«In peggio. Sia chiaro, non sono uno che dice “ai miei tempi”, anche perché ai miei tempi c’erano quelli che copiavano, c’erano gli scostumati». 

Lei metteva anche un due meno a tutta la classe se sospettava che avessero copiato?

«Può darsi. Non bisogna esagerare con le punizioni, ma qualcosa ci deve essere».

Qualcuno che ha bocciato e che poi nella società ha avuto successo?

«Sì, ce n’è stato qualcuno. Ci sono gli incapaci a scuola che poi mostrano qualità importanti

fuori della scuola. Ma generalmente è difficile trovare un grande professionista che a scuola fosse scadentissimo».

Lei crede che l’insegnamento classico abbia ancora un fondamento?

«Secondo me, sì. D’altro canto non posso smentire me stesso che sono di formazione classica». 

Con gli amici lei parla in latino?

«No. Scherzo un po’ con un’amica mia e collega con la quale ci salutiamo in lingua latina».

Le sue lezioni di greco erano seguitissime. Come faceva a far appassionare gli studenti?

«Distinguiamo. Il greco si studiava in due anni di ginnasio e tre di liceo. I primi sono gli anni dedicati alla grammatica e alla sintassi che per forza di cose non sono accattivanti, nel liceo si parla di letteratura. È come in medicina: uno sciroppo può anche piacere, la siringa sicuramente no.  La sintassi è la siringa, la letteratura greca è lo sciroppo».

Pentito di qualche giudizio?

«No, forse ho peccato più di indulgenza».

Ai giovani calabresi consiglierebbe di studiare latino e greco?

«Ho l’impressione che si sia fatta una lotta incomprensibile a queste materie, anche forse per motivi ideologici. Si pensava che il liceo fosse la scuola dei signori. L’obiettivo doveva essere semmai quello di far sì che i poveracci andassero nella scuola dei signori. Non si distrugge la casa a chi l’ha, ma occorre costruirla a chi non l’ha».

Un professore di greco in una regione come questa forse ha un compito in più?

«Da un punto di vista culturale noi abbiamo diverse Calabrie, con una presenza significativa ma non da protagonisti in tutte le epoche, dalla Calabria pregreca alla greca È, da quella medievale e bizantina – pensi a Rossano – a quella rinascimentale, all’Accademia Cosentina». 

Soffermiamoci sulla Magna Grecia, il periodo di maggiore splendore. Si conosce abbastanza? 

«La scuola non insiste molto sulla Magna Grecia. Vi si dedica di più chi si occupa di letteratura, ma nel periodo scolastico non si ha nemmeno il tempo di focalizzarla. La Regione nelle scuole dovrebbe intervenire di più senza intralciare i programmi del Ministero». 

Proviamo a spiegare il valore della Magna Grecia parlando di alcuni luoghi fondamentali. Locri.

«È la realtà più interessante e complessa della Magna Grecia. È la città delle tavole di Zaleuco, il primo codice scritto d’Europa. È la città del matriarcato che nasce da varie leggende. Una di queste vuole che gli uomini fossero andati in guerra e che le donne rimaste a casa si fossero accoppiate con gli schiavi e si apprestassero a partorire. Poiché la situazione era diventata imbarazzante, queste donne decisero di andare via e vennero a stabilirsi nel promontorio Zefirio da cui nacque la nostra Locri. C’erano, dunque, figli di schiavi ma con mamme aristocratiche che preferivano far dimenticare la loro paternità e valorizzare l’origine materna. Da qui la maggiore considerazione che le donne a Locri avevano rispetto alla Grecia, tant’è che si parla di matriarcato locrese. Ma Locri fa pensare anche ad altro, al culto di Afrodite, agli epigrammi di Nosside, ai suoi versi “nulla è più dolce d’amore ed ogni altra gioia viene dopo di lui: dalla bocca sputo anche il miele…”. Locri è il luogo più stimolante».

Più di Sibari?

«Sibari ha una vita breve, duecento anni. Grande e splendida città ma anche sfortunata: fu distrutta e fu sommersa dal Crati deviato sulle sue rovine perché sparisse definitivamente. Si presenta come la città degli scialacquatori, di quelli che si dedicano alle gozzoviglie, dei sardanapali. Questa insistenza sulla corruzione di Sibari è eccessiva. Era una città piena di soldi, ma da questo a dire che era corrotta mi sembra un’equazione esagerata».

Un’equazione esagerata anche se pensiamo a Smindiride, l’uomo più ricco della città, come ricorda Erodoto? Ci parla del suo letto di rose?

«È un aneddoto più che un racconto. Smindiride giaceva su un letto di petali di rose. Era agitato e non riusciva a capirne il motivo. Si alzò per trovare pace e scoprì di avere il corpo cosparso di bollicine e lividi. Colpa, pensi un po’, di alcuni petali che si erano piegati in due e avevano maltrattato la sua tenera epidermide». 

Crotone? 

«Ovviamente è la città di Pitagora, della filosofia, della musica, della medicina, dell’astronomia, tutte propaggini della scuola pitagorica.  anche la città delle lettere della moglie di Pitagora, ma anche di altre donne».

Reggio?

«È la città dove fioriscono la cultura letteraria e la cultura storiografica. A Reggio nascono la questione omerica e gli studi grammaticali, mentre la storiografia occidentale ha in Ippi il primo esponente anche se di lui purtroppo conosciamo i titoli e non le opere».

La Calabria è una regione che si piange addosso?

«È la letteratura calabrese che si piange addosso, che ha sempre scritto di gente emarginata e sofferente, di briganti. Dobbiamo smetterla con questo lamento, che dura da secoli, sulla condizione miserevole della Calabria. Ne è piena tutta la letteratura. Forse le intenzioni erano positive ma se uno parla sempre del negativo finisce con l’afflosciarsi». 

Ma lei che idea ha della Calabria?

«La Calabria non si conosce. Il calabrese non conosce sé stesso. L’università l’abbiamo da poco. Poi la condizione economica, geografica, la mancanza di comunicazioni rendono la situazione difficile, ma un po’ dipende da quella tendenza dei calabresi, che è anche di tutti i meridionali, di afflosciarsi». 

Tornando alla Magna Grecia, se potesse catapultarsi all’indietro dove le sarebbe piaciuto abitare?

«A Locri, perché mi pare più interessante, più vivace. È l’esatto contrario della Locri di oggi. Un poeta come Pindaro si rivolgeva alle muse dicendo loro: andate a Locri perché lì trovate la vostra casa. Mi sembra una città più affascinante. E c’è ancora tanto da trovare, anche perché la Locri attuale non è costruita su quella antica com’è successo in altri luoghi». 

Ai calabresi indicherebbe Smindiride come un modello?

«Da quando scomparvero lui e la sua straordinaria città, sono spariti dalla Calabria l’opulenza e lo splendore. Loro, Smindiride e Sibari, sono la testimonianza di un tempo felice. Io continuo a pensare a loro come a un sogno. E i sogni aiutano a vivere».

È un messaggio?

«No, parlo un po’ ironicamente. Dico che siccome della Calabria si è parlato sempre come di una terra di poveracci, di emarginati, di briganti, finalmente abbiamo un personaggio che non è un poveraccio. Ripeto, ne parlo un po’ per scherzo».

Se la Calabria dovesse ripartire dalla sua storia, non dovrebbe prendere in considerazione il suo momento di massimo splendore, la Magna Grecia?

«Non c’è dubbio. Ma, attenzione, anche la Magna Grecia ha le sue negatività, le sue guerre intestine, i suoi odi interni. Non era certo il paradiso terrestre. Le città greche erano litigiose per natura, Sibari venne distrutta da Crotone, vi fu una guerra tra i locresi e i cotroniati vinta dai locresi. La Magna Grecia non è diversa dalla Grecia perché un male endemico della Grecia, che poi costituisce la sua debolezza, è la rissosità. Questo vizio, se vogliamo chiamarlo impropriamente così, si trasferisce alla Magna Grecia. Ogni colonia era autonoma. In fondo per unificare la Grecia c’è voluto uno straniero, Alessandro Magno, che era macedone anche se di educazione greca».

Un itinerario possibile? 

«Bisogna sapere da dove veniamo, qual è la nostra storia».

E si sa poco?

«Non si sa abbastanza. Non è che non ci siano libri, anzi. Però, i calabresi hanno prestato scarsa attenzione alla loro storia. Pensi ai nostri scavi: gli archeologi non sono calabresi. Non è che la Calabria con la sua miseria si poteva occupare di Locri o di Reggio, ma oggi bisognerebbe impegnarsi di più. Occorre farla finita con il lungo oblio. E lo devono fare soprattutto i calabresi, sicuramente non un piemontese o un lombardo».